Intervista a Claudia Rualta

[Questa intervista è uscita su una nuova rivista, «Figure», che si interessa alle retoriche e agli immaginari del presente. Non è una rivista immediatamente politica, ma la politica è il suo orizzonte. Il primo numero affronta il concetto di creatività, che è ambiguo perché rappresenta un’aspirazione del soggetto e, nello stesso tempo, una categoria economica neoliberista. Vi sono ospitati saggi di analisi, critica militante, reportage e interviste. Quella che segue è la conversazione con Claudia Rualta, lavoratrice creativa].

Per iniziare, ti chiedo in che cosa consiste il lavoro di cui ti occupi adesso, e di cui ti sei occupata in passato.

Io sono un copywriter, ma non solo. Soprattutto lavorando in azienda mi sono occupata della produzione di contenuti pubblicitari. Contenuti pubblicitari e definizione dei canali: un lavoro di marketing, insomma. Da quando lavoro in proprio invece, cerco – per quanto mi è possibile, perché comunque bisogna campare – di prediligere lavori in cui, oltre a questo, entra in gioco anche un altro tipo di concetto: non fare pubblicità e basta, ma di cercare di dare una voce a chiunque voglia tentare di raccontarsi, e non ci riesce. In questo, forse, rientra più il concetto di creatività, o anche semplicemente di lavoro che a me piace fare.

C’è il marketing di base, e poi c’è l’idea dello storytelling. Questo, in particolare, deve necessariamente avere a che fare con i social, con cui io lavoro molto…  Dico sempre, quando un’azienda mi chiede come si deve fare, che la strada è quella di raccontare delle storie: ormai siamo eccessivamente sollecitati dai prodotti e dalle cose, che sono ovunque. L’unico modo che c’è per lasciare una traccia è quello di raccontare una storia…

Su questo torneremo… Credi che il tuo lavoro sia adeguatamente retribuito?

Prima assolutamente no: quando lavoravo in azienda prendevo 1000 euro al mese; è un tipo di lavoro che non puoi sbrigare solamente nell’orario d’ufficio, quando devi creare un oggetto creativo, o una campagna pubblicitaria… Quando ho scritto un documentario sulla grande guerra, spesso mi arrangiavo fuori dalle ore di lavoro, spesso e volentieri; o quando devi gestire i social, devi prendere il tuo tempo la sera. Sembra stupido detto così, ma è un tipo di lavoro per il quale è costantemente richiesta la reperibilità. Se lo fai fatto bene, ovviamente. Quindi, la retribuzione era scarsissima. Io ero inquadrata come apprendista, ma facevo molto più di questo; secondo me è un po’ il problema delle grandi aziende.

Pensi sia una situazione generalizzata, quindi?

Si, è una cosa che sento molto. Tanto sbattimento, poca soddisfazione, poca retribuzione: questo mi sembra l’andazzo. Ho sempre pensato che questo tipo di lavoro non puoi farlo in ufficio otto ore al giorno: è un paradosso, un controsenso, come fai a metterti lì e immaginare qualcosa in una stanza grigia e buia? C’è bisogno di ispirarsi!

Tornando alla domanda: se si parla solo in termini di retribuzione, adesso prendo più di prima: ho chiesto un tot, che considero una soglia dignitosa e va bene così.

Secondo te, il fatto di svolgere una professione creativa, oltre allo stipendio, ha anche un ritorno in termine di piacere rispetto a quello che fai, e capitale simbolico rispetto a quello che sei. Secondo te questa cosa in qualche modo compensa questa situazione contrattuale?

Secondo me è difficilissimo che una persona come me ti risponda: “il mio lavoro è sola creatività”; ed è altrettanto difficile che questo venga riconosciuto, nel mondo del lavoro – soprattutto nel bellunese, che in questo è un po’ indietro. Ad esempio, una delle aziende per cui lavoro ha quattro soci, e fosse per tre di questi io non esisterei nemmeno. È una questione di schemi mentali!

Quando lavoravi in azienda, i rapporti erano improntati ad una orizzontalità o verticalità? TI chiedo anche se c’è una narrazione aziendale rispetto a questo.

Sicuramente quello a cui si teneva molto è che fuori passasse questa idea, che ci fosse un’orizzontalità all’interno dell’azienda; in realtà – vuoi la gioventù dei responsabili, vuoi altri fattori – si teneva molto alle gerarchie; e soprattutto in maniera borderline: in alcuni momenti, quando conviene, c’è orizzontalità, in altri verticalità, una situazione un po’ particolare.

Ma come funzionava l’autopresentazione verso l’esterno?

Io gestivo la comunicazione dell’azienda stessa per cui lavoravo: facevamo campagne pubblicitarie, foto sui social in cui si voleva mostrare che c’erano grandi spazi di co-working, o che eravamo tutti uguali, il capo che impagina una cosa come l’ultimo dei designer, oppure grandi momenti di condivisione, l‘openspace in cui si lavorava tutti insieme. Magari sarebbe anche stato bello, però non funzionava. Eri sempre messo a conoscenza di metà delle cose che dovevi sapere… anche a livello lavorativo

Non so nemmeno io per quale motivo si spinga così tanto su questa idea: alla fine secondo me, alle persone non fa né caldo né freddo che tu proponga questa immagine, è più una cosa che si vuole dimostrare a se stessi… Mi sembra che queste trovate lascino un po’ il tempo che trovano.

Alla fine, esiste una gerarchia e soprattutto un processo decisionale…

Magari non è nemmeno così sbagliata come cosa. Non capisco perché debba esserci questa pretesa: alla fine vengono sempre a crearsi situazioni spiacevoli, di forte ambiguità, e questo non aiuta sul piano lavorativo, e nemmeno a livello di creatività.

Grazie, cambiamo argomento. Tu lavori nel settore del marketing, che però significa qualcosa di più ampio; la comunicazione passa necessariamente attraverso i social. Ti chiedo, in base alla tua esperienza, come un soggetto che si rapporta al mondo nell’era dei social cambia la sua percezione rispetto alla merce.

È una domanda difficile. Da qualche anno non è più possibile fare pubblicità e basta sui social network, le persone si stufano, giustamente si sentono bombardate. Non è possibili che io acceda a facebook per vedere cosa ne pensano i miei amici delle elezioni a Padova e Belluno, e mi trovi pieno di pubblicità dei cioccolatini, dei vestiti ecc. Questa è la pubblicità vecchio tipo, semplicemente trasmessa su un altro canale di comunicazione.

Quello che si cerca di fare adesso invece è unire alla comunicazione anche un surplus: che può essere di informazione, narrativo, o altro. La persona non deve essere colpita dal messaggio pubblicitario, deve piuttosto esserne attratta, o incuriosita.

Mi son detta: io non voglio più avere quindici realtà da gestire, cui non riesco a stare dietro. Il mio sogno è di avere tre realtà a cui do una mano, aiutandoli a raccontarsi, preparando dalla brochure al catalogo, al copy on-line; però sempre con un occhio rivolto al fare informazione.

Ti faccio l’esempio di una farmacia con cui lavoro nel bellunese: io ho spinto molto perché facciano degli articoli che siano informativi rispetto a determinate tematiche, e mi sembra che sia una cosa che funzioni. Ogni dieci giorni gli mando quelli che secondo me possono essere le tematiche interessanti. Da una pagina che è piccola, appena nata, tu butti fuori un articolo e vedi che qualche centinaio di persone lo legge, lo condivide ecc.

Rispetto a questo ti sottopongo una mia curiosità: navigando in internet, ho spesso l’impressione che gli articoli siano pieni di nulla, di cazzate; c’è un inizio, di circa un terzo, in cui non si dice nulla, ecc.

Il lavoro difficile del copywriter è quella di riuscire a veicolare contenuti utili, ma che siano brevi – la gente non si ferma più di due minuti, da statistiche – fatto per paragrafetti, riutilizzando una stessa parola chiave. Il problema – volendo la sfida – è quello di utilizzare queste regole, le regole della scrittura per web, riuscendo a produrre contenuti di valore. Secondo me, le persone che lo sanno fare sono poche, ci sono tante cose che sono scritte a cazzo; spesso e volentieri trovi contenuti copiati, ecc. Spesso si dà più valore al fatto che cercando ‘cioccolatini italiani’ venga fuori il tuo prodotto (con un’operazione di SEO quindi). Si impiega la forza dei copywriter per fare un sacco di articoli-fuffa che però danno il vantaggio di fare trovare il prodotto per primo; e non si dà valore al valore: questo è il trend.

Secondo te, oggi, il fruitore cui tu pensi idealmente pensi concepisca se stesso in un modo diverso, per il fatto che utilizza i social?

Secondo me i social istigano la bipolarità dell’individuo. Utilizzo molto i social per lavoro, spesso vedi la discrepanza fra la vita on-line e la vita reale di una persona: a me ha stupito tante volte. La percezione di te cambia, ti mette nella condizione di non capire esattamente chi sei… Le persone, soprattutto nella fascia d’età 18-30, non usano i social per condividere riflessioni, pensieri, contenuti seri ecc.; più che altro è un ‘sono a questa spa fighissima’, ‘guarda che capelli di merda’ ecc.: è un modo di cercare conferme, attraverso un ulteriore schermo fra te e il mondo reale. La percezione di te si sdoppia, cambia, porta nuove difficoltà all’auto-comprensione, che già è difficile di per sé! Da quando faccio questo lavoro utilizzo pochissimo i socialnetwork! Entrerò in Facebook 20-25 volte in una giornata, ma mi capita ogni due mesi di condividere qualcosa…

È la stessa cosa che ci hanno detto gli altri intervistati… 

Cambiamo argomento: nel 2003 Richard Florida pubblica il suo libro, L’ascesa della classe creativa; da quel momento si assiste a una crescita esponenziale dell’uso dei termini creatività e classe creativa. Riesci a dare una definizione di lavoratore creativo?

Non è possibile darne una definizione statica: è un termine informe, un po’ abusato; a volte mi chiedo anch’io se lo sono. Forse direi: uno che di lavoro cerca di dare una forma a dei concept.

Quali sono le motivazioni di questa crescita, dell’aumento del numero di lavoratori creativi?

Penso che un po’ tutto sia nato dall’industria della moda, e che comunque vada di pari passo con la società del benessere: più tempo e più disponibilità per concentrarsi su cose che non siano di vitale importanza. Forse c’è un bisogno, in generale oggi, di dare una forma esteticamente valida alle cose. Mi piacerebbe dire che questo ha a che fare con una rivalutazione dell’importanza della bellezza, ma in definitiva non ci credo.

In relazione a questo: secondo te quale è il rapporto che c’è fra creatività e forme di espressione artistica? In particolare a quello che fai tu, rispetto a un certo uso del linguaggio.

Penso che creatività e arte siano sorelle gemelle; che la mamma si chiami bellezza, e che le figlie si chiamino creatività e arte, che dipendano un po’ una dall’altra. Io non ho la pretesa di fare nulla di artistico, però credo che il concetto di creatività per come lo intendo io – il dare forma alle cose -, qualcosa di poietico, sia il principio anche per fare qualcosa di artistico. Arte e creatività hanno a che fare con la bellezza e con la forma.

E quale è la differenza?

Forse la creatività la vedo più come una pulsione, quello che sta alla base, e l’arte qualcosa di realizzato.

Capisco cosa intendi; mi sembra di capire che tu fai riferimento al concetto di creatività in vigore fino agli anni Ottanta, Novanta; poi, a un certo punto, il concetto di creatività si lega, a livello di discorso comune, a quello di lavoro creativo. 

Penso che, a livello di discorsi ma anche all’interno delle aziende, ci sia invece una bella divisione fra ciò che ha a che fare con il marketing, e ciò che ha a che fare con la creatività. Sono degli step differenti e spesso, in aziende strutturate bene, coperti da figure diverse. Tutta la creazione del concept di una campagna pubblicitaria sta da una parte, la realizzazione a livello di marketing dall’altra. In un’azienda, se dici ‘creatività’, pesi all’art director, al copywriter, non pensi a quello che ti gestisce i socialnetwork

Quindi tu dici: c’è una creatività, intesa come facoltà umana, che ha diverse realizzazioni possibili, che possono essere artistiche, o di altro tipo, e che quindi sono fra loro parenti perché partono da una stessa tensione al dare una forma.

Penso di essere un lavoratore creativo nella misura in cui ideo qualcosa, penso a come dare forma alla cosa; nel momento in cui do forma alla cosa, sono una copywriter.

[Immagine: Scrivania].

5 thoughts on ““Lavoratori creativi”. Copywriting, comunicazione, marketing

  1. Io non li capisco tutti ‘sti ragazzi che accettano tanto sbattimento e poca soddisfazione. Ma chi ve lo fa fare? La vita è una sola: prendete e andate all’estero, vivete pienamente, invece di stare qua a farvi sfruttare. FORZA!

  2. Grazie Ariel per il tuo commento.
    A noi pare che all’estero non ci sia la terra dell’oro. Inoltre, l’idea di migrare per far carriera ci sembra corrispondere a una certa visione del mondo propria del neoliberismo, e che quindi sia necessario sottoporla a critica. Ad esempio uno dei prezzi da pagare per la soddisfazione di avere un lavoro migliore è proprio la disponibilità allo spostamento che può comportare la dissoluzione di rapporti umani profondi e di conseguenza la riduzione della capacità di autodeterminarsi collettivamente. Infine, non ci piace l’idea che “vivere pienamente” coincida solamente con un buon lavoro.

    La redazione di Figure

  3. il lavoro creativo ha fregato tutti. E’ stata la trappola che ha permesso al capitale di convincere professionisti tra i più sfruttati di essere emancipati. E’ stato un altro grande successo del ’68.

  4. Perfettamente condivisibile. Occupandomi di copywriting in prima persona, mi ritrovo appieno in quanto espresso da Rualta. Ho dovuto scrivere articoli di una noia e ricorsività talmente esagerate, sempre perennemente dovendo tenere a bada le mostruose parole chiave senza le quali l’articolo, già invisibile di suo, non può essere trovato, che mi viene da dire che non vi sia nulla di creativo in questo percorso professionale. Non c’è libertà di espressione, bisogna scrivere sotto dettatura di precetti SEO-oriented che inibiscono quasi del tutto l’aroma dell’avventura concettuale, il desiderio di esplorazione tematica, l’anelito alla sperimentazione linguistica. Certamente, non si può pretendere che il lavoro del copywriter sia lo stesso che compete a un narratore, però è tutto così frustrante e insincero da farmi rabbrividire ogni volta con sempre maggiore ardire e desolazione. Viviamo in un surplus di “storie da raccontare” che non raccontano niente proprio perché sono false, ipocrite e fuorvianti. L’unica forma di racconto concepibile non può appartenere agli schemi della pubblicità, non può farlo, non può lasciarvisi assuefare. Sicuramente, lavorare in un simile settore è una buona palestra per fare le dovute distinzioni in merito, ma oh, come vorrei che il mercato del lavoro evitasse di puntare così tanto sull’idea di raccontare a tutti i costi una storia… Sarebbe molto più confortante se ci venisse chiesto: parlate di quanto l’azienda voglia che voi promuoviate i suoi prodotti e servizi. Scrivete di quanto siano belli, e non dimenticatevi di concludere con le suddette seguenti parole: “non vogliamo entrare in empatia con voi, non ce ne frega nulla di conoscervi, capirvi, badare alle vostre esigenze. Non c’è altro valore emozionale che si sentiamo in dovere di trasmettervi, se non uno soltanto: persuadervi a sentirvi davvero parte di una collettività che vi vuole bene. Almeno fino al prossimo keynote culturale”.

  5. Grazie per i commenti.

    @ Jacopo. Grazie Jacopo del commento. La questione che poni del rapporto tra certe idee del 68 e l’idea della creatività per come è stata ed è divulgata pone un problema veramente fondamentale. La nostra ipotesi critica è che certi concetti rivoluzionari in senso anche politico (anti-capitalista per intendersi) sono stati reinterpretati nell’ottica della produzione di plusvalore e della sopravvivenza nel mondo capitalistico. Le immagini di quella che era la comunità di informatici e Hacker stanziati a Berkley negli anni sessanta e le loro idee che diventano in poco più di vent’anni colossi economici come Apple e MIcrosoft ci sembra simbolica.

    La domanda che possiamo porci è però questa: questa mutazione era già nelle radici di quelle idee e di quei movimenti, o la capacità onnivora del capitale è riuscita a dargli la forma giusta per la sopravvivenza all’interno delle leggi di mercato? ovvero, certe promesse del 68 sono state realizzate dentro l’ideologia neo-liberista o sono state mistificate fino a non essere più loro stesse? naturalmente noi non abbiamo una risposta, ma vogliamo discuterne una.

    @ Stefano. Il punto che metti in evidenza ci sembra molto importante. Ci premeva provare a mettere in luce proprio la distanza che si viene a creare fra ciò che a livello retorico passa come mito della creatività e ciò che in realtà il lavoro creativo è. Oltre che dalle analisi che nella rivista abbiamo proposto, esce fuori anche dalle interviste (a Claudia Rualta come ad altri lavoratori del campo) come ad un massimo di immagine pubblica basata su narrazione empatiche, e a sul piano lavorativo orizzontalità, co-working, progettazione creativa e condivisa ecc. corrispondano delle dinamiche diverse nella sostanza, che restituiscono l’immagine di questo tipo di attività come un lavoro molto più simile a tanti altri: con i suoi pregi e i suoi difetti. Con una particolarità però, quella che metti in evidenza al centro del tuo commento: il tasso di falsità e di inautenticità che si viene a creare.
    Forse è proprio questo il centro di quel che abbiamo provato a dire: sotto un’immagine di potenzialità espressiva e di libertà individuale c’è una griglia molto definita, dalla quale non è possibile uscire – se si vuole conservare il proprio posto di lavoro. Proprio per le omologie con il sistema capitalistico ci sembra che il tema, con il suo livello di falsificazione e falsa libertà, sia degno di essere affrontato seriamente.
    All’interno della redazione c’è stato un lungo dibattito sulla necessità di proporre anche un polo positivo, non solo un’analisi che decostruisca l’esistente – come ce ne sono anche troppe. Naturalmente la cosa non è semplice, ma ci abbiamo provato: ad esempio, con una operazione metasaggistica, proponendo il nostro tentativo, di soggetti che scelgono di dedicare una parte della propria vita in ottica collettiva a un obiettivo culturale e politico. Oppure, pensando una serie di presentazioni con cui discutere queste proposte a livello ampio, con chi si muove e con chi lo fa meno. Ma anche – e qui arrivo al punto – riflettendo su quello di cui parli e di cui parla Claudia, sulla narrazione. Non ci sembra contraddire gli intenti di indagine politica che ci siamo posti l’idea di far dialogare analisi, voci e letteratura, proprio come luogo in cui la narrazione, come forma, sfugga in misura maggiore alla reificazioni di cui parli. La narrazione letteraria, fatta sì per vendere (nessuno si fa illusioni) ma soprattutto per durare e per incidere, contrapposta alla narrazione del marketing, che prende gli strumenti dell’arte e ne fa profitto puro. La letteratura che interroga, commistione di tensione all’autenticità e sanzione dell’esistente, contrapposta alla narrazione del marketing, che propone libertà immediata ma nasconde inautenticità e dominio. Le cose sono più complesse di così, ma è solo un commento. Ci chiediamo, e chiediamo a chi legge, dato che siamo su un blog di letteratura, se, in che forme, all’interno di quali istituti questo oggetto artistico possa rivestire tale funzione.

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