di Alessandra Sarchi

[Questo è il primo capitolo del romanzo Violazione (Einaudi Stile Libero, 2012), da oggi in libreria].

I.

Un corpo d’uomo, in un’ora imprecisata della notte, si sveglia inondato di sudore e di spavento. Ha le gambe e le braccia indolenzite, la testa pesante, fatica a tenere aperti gli occhi, come se fossero coperti da un velo d’acqua. Non sa nulla del luogo in cui si trova, del nome delle cose, o del proprio nome. Ma sa di aver visto qualcosa di terribile.

Il sonno da cui cerca di liberarsi è spesso e limaccioso come il brodo acquatico in cui, per effetto di un’azione inarrestabile e di conseguenti reazioni a catena, molecole di proteine formarono nel corso di ère geologiche le prime forme di vita. Con le palpebre pesanti e i movimenti intorpiditi l’uomo prova a togliersi un peso, che non è da nessuna parte sul suo corpo, o nello spazio vicino a lui, ma è piuttosto il peso dei milioni d’anni impiegati da ciò che si agitava nel liquido primordiale per aggregarsi e dar vita a sistemi complessi, forme distinte, piante, animali, umani.

È il tipo di sonno che si produce per effetto di troppo alcol, droghe, eccessi nel cibo, o di un sovraccarico dei nervi, un lutto, una nascita, una violenza compiuta o subita. A volte anche i lunghi viaggi hanno quest’effetto, il risveglio si accompagna a momentanee perdite d’identità. Ma l’uomo non ricorda nulla di tutto ciò.

Tocca con la mano il lenzuolo, ma è un toccare cieco, vede e sente: il buio animato di bagliori, il cotone teso sul materasso, e allo stesso tempo non vede e non sente, e le due azioni sono tenute insieme da una strana confusione. Il problema è che non sa riconoscere niente. È un corpo nel corpo del mondo. Potrebbe godere dell’indistinzione che gli fa percepire di essere vivente in mezzo al resto che vive, invece ha paura, quella paura piena di vergogna che si prova a essere sopravvissuti, scampati al peggio, senza esserne grati.

Tra il collo e il cuscino si è formata una bolla di calore e sudore. La pelle aderisce alla stoffa insieme alla sensazione di pesantezza e di bagnato, le spalle sono bollenti come per febbre. Ha le gambe divaricate e in mezzo un’erezione dolorosa e senza meta.

La finestra è aperta, ma non tira un filo d’aria, tutto è fermo, le tende ai vetri, i rami del platano fuori. Con sforzo l’uomo guida gli occhi dalla finestra, che è di fronte al letto, al comodino sulla sinistra, registrando una bottiglia d’acqua e un orologio, poi a destra di fianco a sé, dove trova una chioma scura e ondulata che copre il corpo di una donna, a pancia in giú, silenzioso, inerte.

L’uomo solleva la testa al soffitto piatto. Sul cristallino degli occhi s’imprimono i fasci di luce dei riflessi che vengono da fuori. L’immagine, a differenza di tutto il resto, improvvisamente ha cominciato ad animarsi.

Il soffitto si è abbassato, prima piano, cosí piano da sembrare un’illusione ottica, poi sempre piú forte, scendendo in picchiata. È l’unica cosa in movimento in quella notte di risucchio immobile. L’uomo sa di essere vivo, ma senza istruzioni e senza desideri, e ora ha un ostacolo: il soffitto che scende. Bisogna arrestarlo, fare qualcosa prima che schiacci il letto, inghiottendo i muri, la finestra, la luna e le ombre. Scende come una pressa meccanica in azione, una volta azionata la leva non si può fermare. Sta arrivando. Sta arrivando. Tra poco avrà cancellato la chioma nera, il comodino, il corpo sudato, le spalle bollenti, il collo appiccicato al cuscino, e gli occhi, che riflettono tutta quell’immobilità spaventosa, che sono i suoi. Devono essere i suoi, di chi altri possono essere? Dunque è, ma chi è? Chi è lui?

Cosí, con un improvviso scatto, gli si fa chiaro che potrà arrestare la caduta del soffitto solo se avrà stabilito, nell’arco dei prossimi secondi, qual è il suo nome, cosa ci fa in quel letto.

 – Chi sono?

Lo dice né forte né piano, ma come scandendo, e con un po’ di vergogna, come se fosse davanti a un giudice in tribunale. Come se nella domanda ci fosse anche parte della risposta.

– Chi sono? – ripete, sentendo la propria voce che non riconosce, e che produce un rumore corto, di farina che cade nel piatto.

La domanda lo attraversa, passa lungo il corpo sudato, le spalle bollenti, le gambe divaricate, il neo rotondo che pulsa sul mento. Chi sono? Ancora una volta, e non è piú domanda, ma quasi una formula magica per ricucire il contorno della sua immagine riflessa dallo specchio di fianco alla finestra.

Il soffitto si è fermato, non scende piú. Seduto sul letto, guarda il suo mezzo busto specchiato nell’anta dell’armadio. Il novanta per cento che in lui è muscoli, ossa e pelle si osserva riflesso, sa di essere quello che vede, eppure prova una specie di rifiuto. Come se lo specchio gli togliesse dignità: si vede grasso, peloso, intorpidito. Di piú, si sente informe come gli animali che già vivevano sulla Terra, prima che Dio prendesse quella specie di argilla e fabbricasse la propria serie infinita di persone. Si passa una mano sulla barba, tastando la crescita sulle guance e sul mento.

Il mondo intorno, di colpo, affiora con nomi e cognomi.

Salvatore Draghi, di anni 89, originario di Bojano, provincia di Campobasso, imprenditore edile, ex contadino in pensione, è morto ieri, 14 luglio 2004, all’ospedale Maggiore di Bologna, reparto di cardiologia, sala rianimazione. Infarto, e parecchie altre complicazioni. Suo padre.

Sua madre, Berenice Campitano in Draghi, stessa origine molisana, ex bracciante e casalinga, è ancora in vita, e da quando è morto il marito ha qualche speranza in piú di allungare i suoi anni. All’obitorio non le scendeva una lacrima, piú impietrita del morto, «’stu strunz’».

Il corpo nel letto, al suo fianco, è quello di Genny Benassi, compagna e convivente da circa vent’anni, e madre delle due sue figlie, Teresa e Vanessa Draghi di anni 13 e 12. Sorelle separate da tredici mesi scarsi, e tragicamente diverse, di una diversità tutta a favore della prima, che si era presa bellezza, salute e intelligenza, mentre la piú piccola sembrava uscita con materiali di scarto.  Forse perché troppo presto lui e Genny avevano ripreso a fare sesso senza preoccuparsi delle conseguenze, come se l’aver appena partorito fosse di per sé un anticoncezionale. Era stato per via di quei seni inondati di latte, gonfi fino a riempirsi di una taglia abbondante. Non si poteva, davvero non si poteva, resistere a tutto quel morbido che un po’ si scioglieva in latte, un po’ si induriva solo a sfiorarlo. Che avesse ragione sua madre a dire che le donne, dopo aver partorito, per sei mesi non si dovevano toccare, se non per accarezzarle come devotamente si accarezza il velo della Madonna?

C’erano state ben piú che carezze e c’era stata, nove mesi dopo, Vanessa. Un mezzo disastro, per cui provava un vago senso di colpa. Comunque anche adesso, forse per il sollievo che gli viene dall’aver scordato un pensiero fastidioso, si stenderebbe volentieri addosso a Genny, sulla sua carne chiara e accogliente, anche se dorme che sembraun sasso. Solleva la camicia della donna al suo fianco e appoggia una mano dove iniziano i glutei bianchi, senza slip. Ma una voce, che è anche un po’ un mugolio, fa girare la testa mora e una mano toglie la sua mano, Genny sussurra: – Primo, per favore, è appena morto tuo padre.

[© 2012 Giulio Einaudi editore, Torino]

 

7 thoughts on “Violazione

  1. L’attacco è molto bello, come pure l’inquadratura progressiva del personaggio come «corpo nel corpo del mondo». Si intravede un libro importante. Grazie Sarchi.

  2. L’incipit di “Violazione” è altissimo: riprende e esalta una ricerca che già era in atto nei racconti di Alessandra Sarchi (“Segni sottili e clandestini”, Diabasis, 2008) e in specie “Dentro ai suoi occhi” e “Così simile a una morte”, prologo e epilogo ospedalieri, organizzati sui nuclei tematici della corporeità e della percezione: la perdita di contatto col proprio corpo, la ricostruzione di mappe mentali in condizione di perdita di sensibilità. Qui è la mente a evaporare e poi riaffiorare, lasciando libero il campo a una percezione elementare, biochimica, presoggettiva, esplorata con risultati stilistici e cognitivi assai interessanti. Se l’opera di un grande romanziere è sempre sorretta da una o due idee filosofiche, mi sembra che i saggi di “Senso e non senso” di Merleau-Ponty siano quanto di più vicino si può immaginare alla sonda cogitativa e sensoriale della scrittura di Sarchi. L’esperienza si muove di continuo nel pericolo del non senso: non resta che una perpetua dialettica fra senso e non senso, che un tentativo di formulare un contatto sensoriale col mondo che preceda la coscienza del mondo (come in L’Invitata di S. de Bouvoir). Il “dubbio di Cézanne” attraversa dunque questo incipit: “l’artista lancia la sua opera come un uomo – o una donna – ha lanciato la prima parola, senza sapere se essa sarà qualcosa d’altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso di vita individuale in cui nasce”.

  3. S. de Beauvoir, naturalmente.
    – “Mi sorprende il fatto che tu sia scossa in maniera così concreta da una situazione metafisica”.
    .- Ma si tratta appunto di concreto” – dice Francoise – “Tutto i senso della mia vita viene messo in gioco”

  4. Mi ha colpito molto l’andamento della scrittura che si muove tra uno stato di superficie e uno stato di profondità. L’onirismo iniziale, quasi kafkiano, si risolve in una messa in scena dei personaggi a metà tra il testo teatrale e il romanzo tradizionale, movimento che l’osservazione di Zinato sul rapporto senso-non senso descrive molto bene. Sono curiosa di leggere il seguito.

  5. Condivido pienamente il parere positivo sull’incipit di chi mi ha preceduto nei commenti, ma avendo già letto tutto il libro di Alessandra Sarchi posso dirvi che la bella scrittura e la profondità del ragionamento non vengono mai meno e fino all’ultima pagina stimolano riflessioni ed emozioni intense e soprattutto mai ovvie, come mai ovvi sono i rimandi colti, le brevi parentesi descrittive tanto felici e le scelte lessicali di “Violazione”.

  6. incuriosito dalle recensioni positive, ho letto questo libro. un suo merito indiscusso è quello di toccare un punto nevralgico come il trattamento del paesaggio, la “violazione” della natura; mi sarebbe piaciuta, a supporto, una narrazione capace di descriverla, questa natura, di presentarla all’occhio del lettore permeata di un qualche fascino, o quanto meno di una sua identità definita. un esperimento riuscito, in tal senso, mi era parso “l’ubicazione del bene”, in cui falco inscenava nel corso dei racconti una dicotomia uomo-animale, fatta di estraneità, ostilità e, in alcuni punti, straniante compartecipazione. qui, invece, pur essendo la campagna emiliana la prima vittima della violazione, essa non diventa mai una vittima: questo mi pare un demerito non da poco.
    a parte ciò, sicuramente c’è un bel tratteggio di due famiglie piuttosto simili, a loro modo esemplari; lo scavo psicologico delle due coppie di genitori rischia di scivolare (e talvolta lo fa) nella contrapposizione stereotipata, il libro, pur lungo, sembra procedere per scatti. anche il colpo di scena finale (che non svelo) rimane irrelato rispetto al resto della narrazione, sembra incastrarsi male con la storia dei personaggi fino a quel momento. a queste pecche della trama, mi è parso, non è corrisposta una lingua adeguata, capace di supportare la tensione concettuale (direi, più propriamente, politica) che permea la storia di questo “stupro” che si verifica su vari livelli, paesaggistico, carnale, etico (e questa mi sembra una delle linee più feconde del libro).
    in conclusione, un libro molto interessante, godibile e profondo; ma da una storia stimolante è stato tratto, io credo, meno di quanto si sarebbe potuto. forse aspettare un po’ e lavorare ancora sul testo avrebbe portato risultati migliori; così, è una prova, non infrequente, di un esordio buono ma immaturo, quasi timido, a tratti ingessato.

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