di Massimo Palermo
[È appena uscito per l’editore Carocci il libro di Massimo Palermo Italiano scritto 2.0 Testi e ipertesti. Il libro si compone di quattro parti, rispettivamente intitolate Breve storia delle tecnologie della parola; Il testo, i testi; I testi nella rete: verso una destrutturazione?; Il ruolo della scuola. Il brano che proponiamo qui è tratto dalla Premessa e dalla prima parte (dbr)]
È una vera e propria epidemia, ovunque si vedono «lettori e lettrici che si alzano e si coricano con un libro in mano, ci si siedono a tavola, lo tengono accanto a sé sul posto di lavoro, lo portano a passeggio». Siamo in Turingia, nel 1796, e in Europa tira aria di rivoluzione. L’autore è un sacerdote tedesco che tuona contro l’abitudine – di importazione francese – di leggere compulsivamente e ostentare l’oggetto del desiderio, il libro. Sostituite al libro lo smartphone o il tablet e alla lettura le mille operazioni consentite dall’interazione touch e la reprimenda può calzare a pennello per stigmatizzare le abitudini degli odierni millennials o di coloro, invero più attempati, che fingono di esserlo per sentirsi al passo coi tempi.
La rivoluzione digitale è l’ennesima (terza, quarta o quinta a seconda dei punti di vista) tra quelle che hanno interessato il nostro modo di comunicare. Il passaggio che stiamo vivendo è di tale portata da far ipotizzare un passaggio dall’homo tipographicus – la cui identità si è definita nei secoli della modernità – all’homo digitalis, che naviga nelle acque della società globale dell’informazione. Un semplice dato aiuta a capire la portata del fenomeno: secondo il VNI (Visual Networking Index) elaborato dalla Cisco, a fine 2016 gli utenti del web risultano essere quasi cinque miliardi, all’incirca i due terzi della popolazione mondiale, mentre il numero di dispositivi connessi in mobilità già supera (con 8 miliardi) gli abitanti del Pianeta e si prevede arriverà a 11,6 miliardi nel 2021. Tuttavia l’homo digitalis non è nato all’improvviso: il suo modo di relazionarsi con la conoscenza è stato preparato nella seconda metà del secolo XX dalla cultura elettronico-analogico-televisiva.
In questo libro cercherò di dire qualcosa su questa trasformazione – che sta interessando tutti i campi dell’agire umano – da una prospettiva molto limitata: quella della linguistica, e più precisamente della linguistica del testo. Questa disciplina si occupa di capire a quali regole costitutive rispondono, come sono costruiti e come sono recepiti i prodotti della comunicazione verbale. Il lettore non troverà pertanto una disamina puntuale delle caratteristiche microlinguistiche della lingua della rete, ma una riflessione su come la lingua si organizza in discorso e come tale discorso, in ambiente digitale, si differenzi da quello che è stato caratteristico della civiltà tipografica.
Lo storico del libro Roger Chartier si chiede se si possa parlare, in parallelo con l’avvento di una «civiltà digitale», dello sviluppo di una «testualità digitale». Lo studioso francese usa l’espressione in relazione alle modalità di confezionamento materiale e alla trasmissione dei testi; in questo libro si tenta di declinarla in relazione ai cambiamenti in corso nelle loro caratteristiche interne. I fondatori della linguistica testuale hanno avviato la loro riflessione nella seconda metà del Novecento, basandosi su un’idea di testo come prodotto scritto, continuo e autoconsistente. Questa idea è il frutto di un percorso durato millenni, culminato nella configurazione che ha assunto la comunicazione scritta grazie alla stampa: lo chiameremo per brevità il testo tipografico. In che misura le varie forme della scrittura digitale stanno rideterminando il modo di concepire il testo come rete di relazioni, di significato e grammaticali? E fino a che punto questa riorganizzazione, che riguarda in prima battuta la ricezione, sta interessando anche la produzione? Dopo aver tentato una risposta a queste domande dedicherò alcune riflessioni al mondo della scuola, per ragionare su come si possa tentare di governare anziché subire le trasformazioni in atto. Se si guarda alle periodiche lamentationes del mondo accademico e mediatico per le scarse competenze di scrittura degli studenti di ogni ordine e grado (ma ormai andrebbero aggiunti al novero anche molti scriventi di professione) senza tener conto degli scossoni a cui viene sottoposto il rapporto tra società, sistema di trasmissione delle conoscenze e mondo della scuola si corre il rischio di osservare l’albero perdendo di vista la foresta.
La mia collocazione anagrafica mi mette nelle condizioni di affrontare la questione dal punto di vista dell’e-migrato: il termine indica chi è transitato nel mondo della comunicazione digitale dopo il periodo della formazione e quindi (nel bene e nel male) non ne ha ricevuto l’imprinting negli anni cruciali dello sviluppo cognitivo. Ma nelle mie intenzioni la e- vuole recuperare anche un po’ del suo significato originario: la mia patria è il libro cartaceo e guardo alla terra delle tecnologie come a un luogo in cui sono arrivato, dopo un quarto di secolo trascorso altrove. Dal mio punto di osservazione dunque la metafora è più consona di quella di immigrato digitale, pur prevalente in letteratura. Da questa condizione di “non nativo digitale” (inutile chiedersi se si tratti di un privilegio o di uno svantaggio) cercherò di riflettere su cosa sta cambiando nel modo di leggere e scrivere testi.
Nelle pagine che seguono userò l’espressione nativo digitale non solo con riferimento agli individui, ma anche ai prodotti della scrittura: distinguerò cioè tra testi nativi digitali, cioè concepiti per l’ambiente comunicativo della rete e testi nati altrove e ospitati in rete.
Guardare e leggere un testo
Sulle modalità di lettura […] la diffusione dei dispositivi digitali interviene determinando tre conseguenze principali: la prima l’abbiamo già esaminata e consiste nel passaggio dall’organizzazione testuale a quella ipertestuale. La seconda è conseguenza della prima: in un ambiente ipertestuale lo scritto è “messo in minoranza”, è cioè immerso in un contesto multimediale che in un certo senso gli è cognitivamente “ostile”: guardare e ascoltare privilegia l’attivazione di sfere cognitive e reti neuronali dedicate piuttosto alla globalità che all’analisi. Il rischio è che la componente scritta sia ridotta, nell’ipertestualità, a un ruolo ancillare, di didascalia dei più attrattivi contenuti multimediali. Naturalmente questa è un’estremizzazione: anche nel mondo tipografico il testo può essere più o meno circondato da apparati iconografici, e inoltre specifici generi come la comunicazione pubblicitaria fanno da tempo leva proprio sull’integrazione testo-immagine-suono, con il primo generalmente in funzione vicaria. La terza conseguenza opera solo apparentemente più in superficie rispetto alle prime due: il digitale ci espone a una diversa interfaccia di lettura, lo schermo anziché la carta. Le diversità a livello cognitivo tra le due modalità – chiamiamole per comodità leggere e guardare un testo – sembrano essere significative, e non solo quando navighiamo negli ipertesti, cioè in un ambiente testuale dedicato al supporto digitale, ma anche quando leggiamo un testo tradizionale, semplicemente “ospitato” su supporto digitale, per es. un saggio videoscritto o un libro in formato elettronico. Tale diversità ha a che vedere in ultima analisi coi diversi brainframe cognitivi. La lettura su carta attiva prevalentemente un’intelligenza analitica e sequenziale, a cui la nostra mente è stata allenata da millenni di trasmissione della conoscenza fondata sul codice scritto; la visione su schermo attiva prevalentemente un’intelligenza simultanea, privilegiata dall’acculturazione per via visiva e multimediale, analogamente a quando guardiamo un quadro o un paesaggio. Insomma, per vari motivi la fruizione digitale dei testi è caratterizzata dal prevalere della simultaneità sulla sequenzialità, della frammentazione sulla continuità, della percezione globale su quella analitica. Dal punto di vista pedagogico il problema dell’influsso (positivo o negativo) delle interfacce elettroniche sullo sviluppo delle competenze di lettura è molto dibattuto […].
La lettura su schermo non predispone a una lettura intensiva in quanto il dispositivo stesso ci distoglie in continuazione, riducendo i nostri livelli di attenzione: sono gli effetti del multitasking frenetico a cui ci ha abituato l’ambiente digitale. I dispositivi di lettura, almeno da quando sono always on, ci distraggono dall’impegno prevalente (nel nostro caso la lettura) con notifiche, messaggi, promemoria, ma anche con la stessa possibilità – in sé positiva – di trasformare la lettura sequenziale in ipertestuale abbandonando il testo per approfondire in rete qualcosa che stiamo leggendo.
Le trappole del multitasking
Sarà per reagire alle insidie del multitasking che gli studenti universitari, quindi nativi digitali, quando hanno bisogno di ricorrere alla lettura intensiva tornano di colpo tradizionalisti e preferiscono la carta e le sottolineature. Ciò sembra essere testimoniato da studi specifici, nonché dal fatto che le piattaforme digitali messe in piedi dalle case editrici che pubblicano saggi per l’università stentano a decollare. Per lo stesso motivo i dispositivi dedicati alla lettura di e-book stanno cercando di simulare il più possibile le condizioni di lettura su carta (per es. con gli schermi non retroilluminati e l’inchiostro elettronico) e di ridurre le occasioni di distrazione rispetto ai tablet, appunto perché sono concepiti come dispositivi non multitasking ma dedicati alla lettura. Il programma di videoscrittura Word per il sitema operativo Apple ha a disposizione una visualizzazione pensata proprio per leggere e scrivere in santa pace, riducendo tutte le distrazioni provenienti dalla macchina: una volta attivata, lo spazio intorno alla pagina bianca diventa nero, scompare cioè il menù con le icone e altre informazioni paratestuali, si disattivano le possibilità di multitasking, non si viene interrotti da notifiche sonore e lampeggiamenti di varia natura ecc. Il menù a tendina illustra le opportunità di questa modalità per l’appunto con le seguenti parole: «consente di ridurre le distrazioni in modalità lettura e creazione». Che Dio benedica lo sviluppatore che ha introdotto questa modalità!
La fruizione su schermo non predispone a una lettura intensiva in quanto il dispositivo stesso ci distoglie in continuazione, riducendo i nostri livelli di attenzione: sono gli effetti del multitasking frenetico a cui ci ha abituato l’ambiente digitale. I dispositivi di lettura, almeno da quando sono always on, ci distraggono dall’impegno prevalente (nel nostro caso la lettura) con notifiche, messaggi, promemoria, ma anche con la stessa possibilità – in sé positiva – di trasformare la lettura sequenziale in ipertestuale abbandonando il testo per approfondire in rete qualcosa che stiamo leggendo.
Disintermediazione e scompaginazione
Lo spazio ordinato della pagina scritta costituisce per la cultura alfabetico-tipografica un vero e proprio paradigma della conoscenza. La rappresentazione basata sull’impaginazione (di libro, rivista, quotidiano ecc.), che presuppone la disposizione delle informazioni in uno spazio chiuso, ordinato, gerarchizzato e garantito da una fonte autorevole, è stata rimpiazzata nei media elettronici e poi in rete da una rappresentazione basata sul flusso continuo, scompaginato e disintermediato.
La disintermediazione, che ha accompagnato la diffusione di Internet, ha interessato in una prima fase la vendita di prodotti e servizi non digitali: dal commercio elettronico all’organizzazione di viaggi in proprio senza ricorrere all’agenzia. Solo in una seconda fase si è estesa ai contenuti digitali, rendendo possibile all’utente comune pubblicare un testo, un video, la propria pagina sul social network, il proprio blog personale ecc. senza bisogno di ricorrere all’intermediazione di specialisti (editori, direttori di giornali ecc.). La conseguente conquista dello status di “autore” per l’uomo qualunque, da alcuni vista come esempio di democraticità della rete, ha prodotto effetti non sempre positivi anche in altri campi della comunicazione sociale: dopo aver interessato la sfera politica (in questo campo la mediazione era stata storicamente svolta dai partiti) si è rivolta indistintamente contro quella che è percepita come classe dirigente e, di rimbalzo, ha finito per interessare anche gli intellettuali e gli scienziati in quanto intermediari della conoscenza.
La rete fornisce l’humus per la proliferazione di ambienti di comunicazione che incoraggiano a saltare la mediazione. Quest’ultima si presuppone essere intrinsecamente truffaldina perché minerebbe la democrazia diretta e sarebbe asservita a non meglio specificati poteri forti. In realtà la quantità non selezionata di informazioni presenti in rete sta generando per reazione fenomeni di scetticismo radicale, di nichilismo culturale e di false credenze che alimentano arcaici sentimenti di sfiducia verso la dimensione pubblica. È questo a mio avviso uno degli elementi di convivenza tra arcaico e globale che caratterizza la civiltà postmoderna. Torneremo sui risvolti pedagogici della questione […]-
La disintermediazione è appena mitigata in alcuni ambienti di comunicazione (per es. nei forum) dalla presenza di moderatori. Strumenti come Facebook sono di fatto ingovernabili da questo punto di vista per la mole di informazioni che vi si producono ogni giorno: l’unica strada percorribile è quella non molto efficace della censura automatica, “da algoritmo”: per esempio è prevista un’espulsione a tempo per chi usa il turpiloquio (ma basta scrivere c*zzo per sfuggire alle maglie!) ma non, per esempio, per chi istiga all’odio razziale evitando il turpiloquio.
Odiatori seriali e bambini vietnamiti
Il web 2.0 pullula di haters, che inquinano con i loro commenti offensivi e sopra le righe. E c’è qualcuno che inizia a auspicare la chiusura o il monitoraggio dei siti che ospitano commenti. Ecco per esempio che cosa ne pensa Michele Serra: «Da non esperto, azzardo una previsione: la divisione tra internet “utile” e internet “nocivo” è destinata ad approfondirsi. Per esempio, sono convinto che in tempi abbastanza brevi ogni sito che voglia puntare su qualità e autorevolezza chiuderà del tutto l’accesso ai commenti; oppure lo terrà socchiuso, grazie a un vaglio che nessuno si sognerà di chiamare “censura” e tutti chiameranno, semplicemente, selezione dei contenuti». (La Repubblica, 24/8/2016).
La previsione di Michele Serra potrà avverarsi, ma come abbiamo visto difficilmente potrà riguardare le reti sociali, che si basano proprio sull’assenza di intermediari. In Facebook la censura, oltre che automatica, può essere conseguente alla segnalazione di uno o più utenti di post dai contenuti inappropriati o offensivi. Inutile soffermarsi sull’estrema soggettività di queste segnalazioni. Anche le decisioni conseguenti degli amministratori del sistema sono opinabili. Nell’estate del 2016 è stata rimossa da FB una delle immagini simbolo della guerra in Vietnam, quella della bambina nuda che scappa terrorizzata dopo essere stata vittima di un bombardamento al napalm. L’immagine era stata postata dallo scrittore norvegese Tom Egeland, che voleva condividere «sette foto che hanno cambiato la narrazione della guerra». Dopo molte polemiche la foto è stata riammessa e un portavoce dell’azienda ha diramato questo comunicato: «Sebbene riconosciamo che questa foto sia un’icona, risulta difficile distinguere in quale caso sia opportuno permettere la pubblicazione di una foto di un bambino nudo». Ecco, appunto, anche l’odiato meccanismo della censura richiede una testa, un’impaginazione e in ultima analisi un’intermediazione, quindi mal si addice alle policies orizzontali, condivise e disintermediate che animano certa cultura della rete.
Veniamo al secondo aspetto. Le informazioni riportate come flusso continuo trasgrediscono il principio ordinatore pagina/libro e ricordano per certi aspetti il modello della lettura verticale del rotolo: anche le pagine web scorrono verticalmente e senza interruzioni, ma con una differenza importante: la distribuzione reticolare (o orbitale) dei contenuti sullo schermo compromette la possibilità di una vera e propria lettura verticale (Arcangeli, 2016). La strada al flusso continuo delle informazioni è stata aperta dalla neotelevisione: esempi concreti sono i canali all-news, che in fondo consistono nel susseguirsi ininterrotto di notiziari, con un palinsesto molto rudimentale, e i reality show. Il palinsesto della paleotelevisione costituiva invece un esempio di impaginazione, sia quotidiana (notizie, programmi per ragazzi, varietà, approfondimenti culturali legati a determinate fasce orarie) sia settimanale (il lunedì era dedicato al film, il giovedì ai telequiz ecc.). Il sentiero aperto dalla televisione è diventato poi un’autostrada in rete: per rendersene conto si confronti un quotidiano tradizionalmente impaginato e la versione online dello stesso. Riportiamo una riflessione di Anna Maria Testa, che significativamente fa appello a categorie tipografiche, cioè all’opposizione tra impaginato e scompaginato:
L’informazione sul mondo appare scompaginata, credo, anche perché oggi pochi dei mass media che trasmettono informazione si preoccupano di impaginare le notizie. E parlando di “impaginare” intendo proprio il lavoro materiale del selezionare e del disporre ordinatamente in una serie di pagine tutti i fatti del giorno. Insomma, dell’attribuire a ciascun testo un rilievo, una posizione e un contesto. E, con ciò, un senso, all’interno di una narrazione più ampia. È il lavoro che ha sempre fatto la grande stampa d’informazione: scegliere le notizie, ordinarle per importanza assegnando un peso a ciascuna. Dividerle per tema e per ambito, integrare testi e immagini. Collocare infine l’informazione così strutturata nelle pagine di carta di un giornale, offrendo, proprio attraverso l’impaginazione, chiavi di lettura implicite ma efficaci perché intuitive, costanti e rassicuranti. Per mettere a confronto diversi punti di vista, in passato bastava confrontare il modo in cui diversi giornali impaginavano le notizie. […] In rete l’impaginazione è spesso puramente identitaria ed estetica, nel senso che ti fa capire subito su che sito sei, e quanto è moderno e alla moda. Ma raramente l’impaginazione ti dice se quel che stai leggendo è rilevante. La carta funziona per selezione, lo schermo per flusso e accumulazione. La carta è normativa, lo schermo è seduttivo. La carta vuole orientarti, lo schermo vuole acchiapparti (www.nuovoeutile.it, 18/7/2016)
[Immagine: New York Public Library].
il paragrafo che si ripete quasi identico è una svista o un’ironia molto meta- sul leggere online un testo pensato per la lettura su carta?
Premessa e prima parte del libro interessanti e non necessariamente condivisibili in tutto e anche per questo interessanti.L’autore analizza i mutamenti della linguistica e nello specifico, testuale, che la “civiltà digitale” sta provocando e inevitabilmente dovrà affrontare. Quindi organizzazione della lingua in discorso in piena era digitale e differenziazione con l’era tipografica. “In che misura le varie forme della scrittura digitale stanno rideterminando il modo di concepire il testo come rete di relazioni, di significato e grammaticali? E fino a che punto questa riorganizzazione, che riguarda in prima battuta la ricezione, sta interessando anche la produzione? ” Premettendo che la sopra detta “era digitale” è solo lo strumento che la società si trova a integrare nel flusso del suo evolversi e come sempre è l’uso che se ne fa a distinguere pregi e difetti, a me verrebbe da rispondere a tali domande con altri interrogativi. Si può davvero rideterminare il modo di concepire un testo come rete di relazioni fra significati e grammatica? Siamo forse nel territorio delle sperimentazioni linguistiche? E se questa riorganizzazione in prima battuta riguarda la ricezione, non è che sarebbe solo un mutamento di forma poco influente o magari interessante? Ed è infatti qui che poco concordo con l’autore: “Se si guarda alle periodiche lamentationes del mondo accademico e mediatico per le scarse competenze di scrittura degli studenti di ogni ordine e grado (ma ormai andrebbero aggiunti al novero anche molti scriventi di professione) senza tener conto degli scossoni a cui viene sottoposto il rapporto tra società, sistema di trasmissione delle conoscenze e mondo della scuola.” Pensando che forse le carenze in ambito scrittorio e quindi scolastico degli studenti dipendano più da una cattiva amministrazione del mondo dell’istruzione da parte dei responsabili ad ogni livello, nonché da una scarsa volontà di innovazione. Condivido invece le successive osservazioni di Palermo su “Guardare e leggere un testo”. Tipo che in un ambiente ipertestuale in effetti il testo scritto è messo in minoranza,cosa che può succedere, come giustamente chiarisce l’autore, anche nella modalità tipografica vista la diffusa “integrazione testo-immagine-suono”; è un po’ come leggere mentre la televisione è accesa o delle persone chiaccherano. Certo la cosa è soggettiva, ma non a caso nelle biblioteche ci vuole silenzio e chissà le motivazioni saranno anche antropologiche. Meno concorde invece sulla terza conseguenza della diffusione dei dispositivi digitali, ovvero: “il digitale ci espone a una diversa interfaccia di lettura, lo schermo anziché la carta…la fruizione digitale dei testi è caratterizzata dal prevalere della simultaneità sulla sequenzialità, della frammentazione sulla continuità, della percezione globale su quella analitica.”, meno concorde sia perché qui non riferendosi al multitaking, non vedo come un supporto digitale debba causare tutto ciò. In sostanza io leggo benissimo i testi digitali,(su Word, programma apprezzato pure dall’autore), quasi meglio di quelli cartacei, sia perché trovo molto più pratica ed efficace l’interazioe critica con i contenuti, nonché l’attuazione di sottolineature e argomentazioni mirate. Passando a “Disintermediazione e scompaginazione” mi sembra che il testo diventi più concettuale e quasi nostalgico sbandierando in ultimo un epilogo estremistico: “In realtà la quantità non selezionata di informazioni presenti in rete sta generando per reazione fenomeni di scetticismo radicale, di nichilismo culturale e di false credenze che alimentano arcaici sentimenti di sfiducia verso la dimensione pubblica”, laddove si torna all’importanza di saper vedere il confine fra uso/abuso di ogni innovazione per renderla qualcosa di buono o meno. A titolo di esempio mi riallaccio all’altra argomentazione,”Odiatori seriali e bambini vietnamiti” che dimostra come l’ambiente digitale sia qualcosa di certamente più dinamico e affollato di qualsiasi supporto cartaceo che miri a diffondere informazioni e conoscenze varie. Non si tratta più infatti di ottemperare solo a quel dovere, ma anche di saper convivere con l’enorme potenzialità di questa innovazione tecnolica. Tutto è amplificato e velocizzato, gli spazi di interazione con l’altro sono infiniti e i tempi praticamente annullati, prima era letteralmente il contrario. E allora mi chiedo se la società del futuro debba intimorirsi per paura di farsi schiacciare dagli inevitabili e possibili aspetti negativi o imparare ad apprezzarne i vantaggi e a gestirne le difficoltà. Concludo evidenziando questa frase presa dal finale dell’articolo: “La carta funziona per selezione, lo schermo per flusso e accumulazione. La carta è normativa, lo schermo è seduttivo. La carta vuole orientarti, lo schermo vuole acchiapparti ” facendo notare che qualsivoglia impagnazione e quindi selezione argomentativa nella carta stampata passa prima da procedure digitalizzate, e che quindi non vedo perché mai un testo digitale non possa diventare altrettanto impaginato e ordinato da intermediari quanto i vecchi cari supporti cartacei fino ad attribuire a: ” ciascun testo un rilievo, una posizione e un contesto. E, con ciò, un senso, all’interno di una narrazione più ampia”.