di Diego Bertelli

[È da poco uscito il saggio Viaggio al termine della scrittura (Le Lettere) di Diego Bertelli. Queste sono le pagine dedicate a Roberto Bazlen].

 1. L’insieme degli scritti che oggi costituisce il corpus delle opere edite di Bazlen esce postumo tra 1968 e 1973. La successione delle pubblicazioni comprende tre volumi distinti: le Lettere editoriali (1968), che costituiscono una selezione dei «pareri su opere e autori [redatti da Bazlen] come consulente della casa editrice Einaudi, dal 1951 fino all’estate del 1962, e poi della casa editrice Adelphi»[1]; le Note senza testo (1970), «appunti scelti da quaderni manoscritti»[2] i quali non ebbero mai una circolazione concreta, tanto che il titolo fu allora una mera scelta redazionale; il Capitano di lungo corso (1973), un romanzo incompiuto e mai pubblicato, la cui parziale diffusione fu limitata a un circolo ristretto di amici. Per quanto riguarda le Note senza testo e Il capitano di lungo corso (nella versione originale, Der Schiffskäpitan) bisogna inoltre tenere a mente che si tratta di appunti eterogenei e stralci di romanzo originariamente scritti in lingua tedesca. Tutti e tre i volumi sono stati più tardi riuniti nell’edizione Adelphi degli Scritti (1984), in cui è compreso un apparato di riferimento conclusivo con informazioni di carattere storico-documentario e l’aggiunta ulteriore delle Lettere a Montale.

Proprio questa edizione, considerata nel suo complesso, costituisce un sistema stratificato di relazioni intertestuali che manifesta tanto sul piano ideologico quanto su quello creativo una visione radicale dell’opera. Sostenitore di una scrittura che non può aspirare alla forma libro tradizionale, Bazlen riduce la creazione letteraria alla sua unità esplicativa minima, quella della nota a piè di pagina: «Io credo che non si possano più scrivere libri. Perciò non scrivo libri – Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina»)[3]. Questa constatazione è qualcosa di più di una critica culturale al contenuto dei libri, la cui controparte ideologica si risolve in un’azione uguale e contraria: lo scrivere note a piè di pagina al posto dei libri che non si possono più scrivere implica da subito un’inflazione della creatività. La possibilità dell’opera (libro) in Bazlen non è messa in crisi solo da un punto di vista formale; a differenza di Calvino e Pasolini, a interferire è una dislocazione decisiva dello spazio. Il testo, concentrandosi nel luogo tradizionalmente destinato alla sua spiegazione perde la propria relazione primaria con la scrittura, di cui si riduce, per quantità e qualità, la funzione. Per questo motivo, Il capitano di lungo corso, elaborato nel corso di circa un ventennio, dal 1944 al 1965, anno della morte di Bazlen, rappresenta il libro che non è più possibile scrivere, e cioè quell’insieme di note a piè di pagina che lo scrittore invece di gonfiare in volume è andato riducendo drasticamente nel corso del tempo.

La diminuzione del testo ad apparto esplicativo impone che si ponga l’accento sul ruolo determinante dell’interpretazione. Il libro, rappresentando una forma gonfiata di nota, fa pensare che l’ermeneusi non sia conseguente alla lettura, ma simultanea. L’«Io scrivo» posto in enfasi da Bazlen nei suoi quaderni riporta sul piano del presente la questione della verità della scrittura in cui coincidono espressione e spiegazione; senza più un testo, l’interpretazione si riferisce adesso a uno strumento che non ha ruolo di complemento, ma assume invece una funzione rivelatrice. La verità ha dunque un rilievo di tipo esoterico che solo la “lettura di chi scrive” può mettere in luce. Ciò significa che per quel che riguarda nello specifico la scrittura, la perdita del profilo autoriale da parte dell’io scrivente non è imputabile a un’intenzione prestabilita; è casomai la sua autorità di lettore che prevale. In questo senso, non meraviglia che proprio le Lettere editoriali rappresentino senz’altro la parte più organica della sua intera opera.

2. Nelle Notizie sui manoscritti poste in calce all’edizione complessiva degli Scritti, Roberto Calasso riassume così le poche informazioni certe sul romanzo incompiuto di Bazlen:

Non è possibile stabilire con certezza in quali anni sono stati scritti questi testi. Unico punto di riferimento sicuro è la data posta alla fine di una prima, rapida stesura della storia in otto pagine dattiloscritte: 3-4 ottobre 1944. […] Bazlen «si dedicò a questo romanzo negli anni del dopoguerra […]. In quel periodo il manoscritto era voluminoso, constava sicuramente di almeno quattrocento pagine. Si può supporre che successivamente Bazlen abbia distrutto questa stesura del romanzo e lo abbia ridotto a una forma più lineare, quale è rimasta. Egli tornò, comunque, più volte su questo libro, anche negli ultimi anni prima della sua morte[4].

In una lettera privata del 28 giugno 1950 indirizzata a Luciano Foà, amico e segretario generale della casa editrice Einaudi, Bazlen parla del romanzo che sta scrivendo usando toni entusiastici: «scrivo per me molte ore al giorno (spero che fra una decina d’anni saltino fuori tre libri, e non uno: tutto il materiale scorre organicamente in tre direzioni diverse)»[5]. Durante questa fase esaltante della scrittura, in una lettera di poche settime successiva, Bazlen vede crescere ancora le possibilità del testo di moltiplicarsi, «Credo che i miei tre sono quattro – comunque uno fila che è un gusto»[6]. È dunque a cavallo tra la primavera e l’estate del 1950 che possiamo situare una delle fasi redazionali più intense (se non addirittura la più intensa in assoluto) de Il capitano di lungo corso. Trascorre a malapena un anno dal culmine creativo descritto — in cui a dominare è il flusso della scrittura — quando Bazlen spedisce a Foà una lettera editoriale divenuta tra le sue più celebri. Si tratta della missiva del 12 giugno 1951, nella quale è contenuta un’attenta analisi delle ragioni per cui pubblicare una traduzione italiana de L’uomo senza qualità di Robert Musil — romanzo monumentale, incompiuto nell’essenza, oltre che in ragione delle contingenze biografiche del suo autore — sarebbe un’azzardo: «[…] pubblicare un libro di questo genere è un rischio un po’ grosso; per leggerlo ci vuole tempo, pazienza, premesse culturali in comune con l’autore, e via dicendo»[7].

Al momento della lettura del romanzo di Musil, sono passati poco più di cinque anni dall’inizio della stesura del Capitano di lungo corso. Confrontando i due testi e le parole di Bazlen sul proprio romanzo con la lettura professionale de L’uomo senza qualità dell’anno successivo, emerge dapprincipio un’interessante serie di punti di tangenza. Inizialmente Bazlen, che afferma di fare per l’occasione l’avvocato del diavolo, elenca i difetti del libro di Musil in quattro punti:

1˚) troppo lungo
2˚) troppo frammentario
3˚) troppo lento (o noioso, o difficile, o come vuoi chiamarlo)
4)  austriaco[8]

Se Bazlen scrittore supererà il terzo e il quarto dei macrodifetti caratterizzanti L’uomo senza qualità, il caso de Il capitano di lungo corso desta una certa meraviglia per come è apparso nell’edizione del 1973, perché in essa sembra ripetersi strutturalmente l’opera di Musil, la cui «prima parte è svolta completamente; seguono capitoli disordinati; nessun accenno alla conclusione»[9].

Continuando a leggere i giudizi contenuti nella lettera, è facile intuire che proprio in quei difetti risiede il fascino che il romanzo esercita su Bazlen. Pur paventando il fallimento di fronte a un’operazione editoriale così rischiosa, dopo aver tentato di raccontare a Foà il “soggetto” del romanzo, egli scrive in chiusura:

Ora, tutto questo, che ti potrebbe sembrare vivissimo, va avanti soltanto per mezzo di riflessioni, saggi, dialoghi, considerazioni laterali, descrizioni, diagnosi storiche, ecc. e dopo poco, si legge con molta fatica, spesso con noia, benché tutti questi saggi siano […] di una precisione di pensiero e di una scrittura impeccabile, e di una sensibilità di associazioni da battere spesso le più belle pagine di prosa di Rilke. Dopodiché ti succede che attraverso questi interminabili dialoghi, saggi, trattati, feuilletons , – e dopo di esserti abbondantemente irritato – ti si formi lentamente un mondo vivissimo le persone (delle quali credevi di conoscere principalmente i pensieri astratti, ecc.) assumono lentamente una densità ed una plastica da grandissimi personaggi da romanzo, che l’azione, della quale non ti sei accorto, fila che è un gusto […][10].

Parlando da scrittore de Il capitano di lungo corso e da lettore de L’uomo senza qualità, Bazlen usa un’espressione che permette di legare tra di loro queste due esperienze: «fila che è un gusto». La formazione di un mondo «vivissimo» per chi legge deve infatti riuscire a essere tanto immediato quanto lo è per chi scrive. Non è un caso che Bazlen, parlando più approfonditamente della lentezza (o noia) de L’uomo senza qualità, riporti una nota postuma di Musil al romanzo:

I lettori sono abituati ad esigere di sentirsi raccontare della vita, e non del riflesso della vita sulle teste della letteratura (sic) e degli uomini. Questo è sicuramente giustificato soltanto in quanto questo riflesso è una copia impoverita, diventata convenzionale, della vita. Io tento di dar loro l’originale, ed è quindi giusto che loro sospendano il loro pregiudizio[11].

Seppure s’intraveda in Bazlen una contraddizione iniziale tra le intenzioni di chi scrive e i risultati di chi legge, la possibilità che la vita raccontata in un’opera letteraria possa essere infine “ridata”[12] si realizza contrariamente alle premesse. Se andiamo a guardare con attenzione, i passaggi che conducono a una consapevolezza del genere sono fra loro contraddittori: «Ora, tutto questo, che ti potrebbe sembrare vivissimo, va avanti soltanto per mezzo di riflessioni, saggi, dialoghi, considerazioni laterali, descrizioni, diagnosi storiche, ecc.»; «si legge con molta fatica, spesso con noia, benché tutti questi saggi siano […] di una precisione di pensiero e di una scrittura impeccabile»; «Dopodiché ti succede che attraverso questi interminabili dialoghi, saggi, trattati, feuilletons, – e dopo di esserti abbondantemente irritato – ti si formi lentamente un mondo vivissimo». Nel giudizio di Bazlen è come se un’infrazione logica intercorresse tra i sintagmi «ti potrebbe sembrare» e «dopodiché ti succede», i quali racchiudono la premessa e la conseguenza del mondo vivissimo che interessa allo scrittore: esso altro non è che il «riflesso della vita sulle teste della letteratura (sic) e degli uomini».

Questo aspetto del romanzo, ossia la possibilità di «riuscire a ridare al lettore l’originale della vita» è per Bazlen il motivo che sta alla base dell’impossibilità di concludere un’opera. La cosa interessante è che egli non impara da Musil questa lezione, ma ne ritrova conferma leggendolo. Il giudizio su L’uomo senza qualità è infatti di poco successivo a un’altra lettera indirizzata a Foà, quella del 21 marzo 1951, in cui scrive: «Caro Luciano […] ero occupato a far naufragare il capitano di marina […] ed ora mi sento considerevolmente erleitet (alleggerito)»[13]. Il naufragio testuale rappresenta l’escamotage compositivo per evitare una forma che corrisponda alla morte («la forma è morte»)[14]. Attraverso un procedimento di riduzione del testo, Bazlen comprova la sua definizione della scrittura come «de-scrizione»[15]. Il dash interposto suggerisce una lettura specifica del termine che ne recuperi il significato etimologico: quello di copia ridotta di una precedente scrittura. Questa pratica è realmente attuata da Bazlen, come testimonia Foà: «Negli anni successivi non mi parlò più del ‘Capitano’. Quando, dopo la sua morte, chiesi a Fabrizio Onofri […] se sapeva qualcosa che spiegasse come mai la parte ricopiata a macchina del ‘Capitano’ si fosse talmente ridotta, Onofri ricordò che una sera Bobi gli aveva detto, accennando al suo romanzo, di essersi reso conto come un manoscritto di 400 pagine potesse essere condensato senza alcun danno in 80 pagine»[16].

Naturalmente non è possibile sapere quale sarebbe stato l’esito finale del romanzo di Bazlen, né è dato supporre se quel processo ideale di “de-scrizione” del testo fosse, nelle intenzioni dello scrittore, destinato a ridurre ulteriormente Il capitano di lungo corso; tantomeno possibile è ricostruire i passaggi “de-scrittivi” del testo in maniera consequenziale. Possiamo però affermare che attraverso la “de-scrizione” la scrittura aspira a un nuovo testo annullando il suo precedente, in un ciclo progressivo di distruzione e creazione che vanifica ogni coordinata: «L’unica soluzione è indicibile, indescrivibile – fino a quel punto non c’è altro che la problematica gioia della de-scrizione sempre più stretta – eppure il provvisorio (vissuto coscientemente) porta con sé che questa gioia viene negata»[17]. Estendendo al dominio della creazione artistica la necessità di «capire che ogni secondo è contro la trasformazione degli altri»[18], risulta chiaro che la scrittura in Bazlen non si confronta soltanto con la dislocazione, ma anche con l’impossibilità di una progressione analogica sull’asse temporale. Il conflitto prodotto dalla scansione nelle unità minime del secondo rende impossibile qualsiasi tipo di processo che non implichi la distruzione di ciò che lo precede. Necessaria per Bazlen è solo una pratica, «l’arte di morire ogni secondo»[19], ossia un annullamento i cui esiti sono evidenti da un punto di vista creativo nella scelta di fare de Il capitano di lungo corso una vera e propria esperienza di morte. Per questa ragione, possiamo dire che lo stesso naufragio cui aspira il capitano è, sul piano narrativo, contrario alla trasformazione del suo viaggio in senso progressivo; egli ricerca nel naufragio la sola possibilità di annullare l’ordine spazio-temporale della direzione: «Finalmente l’aveva trovata, la nuova vita […]: quello che aveva cercato per tutta la sua vita era il naufragio»[20].

Solo attraverso la mutazione continua (di cui la forma rappresenta l’esatto contrario) è possibile ridare la versione originale della vita, aspirando alla realizzazione di quella che Bazlen stesso definisce con un neologismo rimasto celebre «primavoltità»[21]. Così, una sola direzione e una sola durata altro non sono che i due assi di quella forma che Bazlen considera come non-vitale e nella quale riconosce la scrittura dell’opera in quanto libro: egli sa che il provvisorio, ossia la forma temporanea dei passaggi de-scrittivi, ha di per sé un’estensione:

Verso il culmine – il fatto che ogni forma, nella sua suprema possibilità di compimento, dura solo un secondo – l’ininterrottamente creativo – ma questo è impossibile, perché la forma sorge dal caos – e così la disgregazione, che fa parte del fatto che nasca una nuova forma – Solo chi accetta la disgregazione è creativo, c’è anche la creatività del negativo – è dell’uomo potere non far nulla, vivere, arte di non dilazionare la morte[22].

Abbiamo a che fare, da una parte, con una forma che, laddove stia per compiersi, non debba e non possa durare; dall’altra, con l’impossibilità implicita che essa non nasca se non dal caos e sia dunque disgregazione. Si tratta della stessa paradossale relazione implicita alla necessità di «morire ogni secondo»[23] per non dover morire. Creare ininterrottamente significa dunque agire attraverso la distruzione: «Distruggere vuol dire creare»[24]. A governare tale processo è il principio della primavoltità, e cioè l’incessante reinvenzione del testo; un processo metamorfosante che esclude la realizzazione intesa come ripetizione: uno sterile modus operandi che accomuna l’azione di Penelope — il suo fare e disfare la tela — a «lavoro per il lavoro»[25].

 

3. È nel simbolo del Tao, dove coabitano ordine e caos, in cui la via è annullamento della direzione («Ogni via è una via sbagliata»)[26] che Bazlen riconosce l’essenza della propria scrittura, quella dell’erranza: «Laotze, l’unico che non muore – se ne va»[27]. Il naufragio, divenendone il corrispettivo romanzesco, si fa l’immagine più consona a rappresentare tale alternarsi di ordine e caos. Per questo motivo, la circolarità narrativa e la salda forma poematica dell’Odissea costituiscono, assieme ai ripetuti approdi del suo eroe eponimo, l’anti-modello del Capitano di lungo corso. Come Penelope è descritta negativamente — la sua attesa e la ripetizione del suo gesto sono interpretati come contrari alla vita, perché dilazionano la morte e creano la forma, anche da un punto vista narrativo —, così pure il re di Itaca diviene una figura di contrasto cui si contrappone l’esperienza del capitano.

Il ricorso al naufragio di fronte al compimento del viaggio di Ulisse è senza dubio l’esito più adatto per compiere quel «distastro» che in Bazlen va inteso come uno strumento profondamente creativo: «C’est que l’ordre du live est nécessaire à ce qui lui manque, à l’absence qui se dérobe à lui […]. De là l’appel au fragmentarie et le recours au désastre, si nous nous rappelons que le désastre n’est pas seulement le désastreux»[28]. L’ordine è allora qualcosa che trascende sia forma che direzione. Allo stesso modo, «la continua elusione dell’opera da parte di Bazlen», come ha scritto Roberto Calasso, «è stata proprio una delle sue massime scoperte»[29]. La scrittura aspira alla dislocazione per ridursi a un tipo specifico di nota, quella a piè di pagina, che è espressione di un ordine senza direzione. Se la nota in quanto tale è l’avvenimento di un processo de-scrittivo che riduce il testo, l’assenza della scrittura è di conseguenza il risultato estremo della forma più caotica e creativa cui giunge «l’elusione del testo».

L’idea di Giulia de Savorgnani di rinvenire il testo assente di Bazlen sia nelle Lettere editoriali sia nel Capitano di lungo corso[30], toglie alla de-scrizione il valore assoluto di cui si nutre. Il testo assente è invece l’invenzione di un nuovo testo nella forma di una riduzione. Attraverso l’annullamento di ogni direzione, in uno spazio precedente e successivo al tempo, il naufragio che porta il capitano nella pancia della balena offre al medesimo l’esperienza, anch’essa “de-scrittiva”, della fantasia:

scuro… scuro… scuro…[…] nero! E uno è così solo, così solo, così solo e non si ha più una donna, che poi ha delle macchie blu sul corpo […] e intorno gira e si agita tutto ciò che è stato e ciò che è e ciò che sarà, e tutto puzza […] si continua a stare seduti nell’oscurità, e non si sa se si sarà di nuovo sputati fuori, se si potrà di nuovo strisciare fuori… Disperati, e la cosa peggiore è che in realtà non si vuole per niente uscire dalla pancia della balena, in fondo dov’è che si viene sputati fuori? […]. In questo mondo si viene sputati fuori; ma che cos’è mai questo mondo? […]. Null’altro che un granello di sabbia nella pancia di una balena ancora più grossa… voi non avete fantasia[31].

Il ventre della balena cancella ogni coordinata reale e diviene luogo in cui restare, perché rappresenta lo spazio del possibile, ossia lo spazio minimo rispetto al quale c’è solo amplificazione: il «very comfortable, cosy, homelike thought» che apre all’esperienza dell’assenza[32]. Esso è dunque una raffigurazione dell’essere e del non-essere del Tao, dell’identità e dell’alterità. Attraverso il corpo della balena, il capitano compie una navigazione senza rotta: essa è assenza di direzione proprio come lo è, per la scrittura, una nota a piè di pagina di cui non è dato il testo. Si tratta di un’esperienza che ripete quell’insieme di radicamento e sradicamento, la cui discussione impone di ritornare fuori di metafora, sostituendo al naufragio l’immagine precedente dell’erranza. Bazlen ritrova nelle proprie origini culturali ebraiche una fantasia (quella che il capitano non attribuisce agli uditori del suo racconto) che ha un limite: «La fantasia dell’ebreo si arresta di fronte alla morte ([…] gli Ebrei temono solo la morte)»[33]. Si determina a questo punto una tensione tra il limite imposto alla fantasia, che è biologico, e il caos creativo. Il processo metamorfico, nel senso di stato «posteriore alla forma» della primavoltità, è per la scrittura il solo modo di vincere la forma libro, e dunque la morte. Ciò avviene attraverso una morte continua (che si fa mezzo del superamento di se stessa), la già ricordata «arte di morire ogni secondo»[34] in cui «ogni secondo è contro la trasformazione degli altri»[35]. Solo così si cancella la morte di fronte alla quale si arresta la fantasia. La questione della creatività assume un carattere radicale perché non è separata dalla realtà, ma ha invece presupposti esistenziali notevoli che Bazlen non manca di rilevare in più parti dei suoi quaderni. Il nostro è «un mondo della morte – un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi»[36]. La tragedia di questa vita da vivere in uno stato di morte è quella dell’erranza in un deserto di sabbia in fondo al mare. È la stessa tragedia appartenuta al popolo ebraico: «La tragedia degli Ebrei: che passano il Mar Rosso asciutti (si gettano immediatamente nel Mar Rosso, presi dal panico. A piede asciutto sul fondo del mare. Eliot – annega – il mio capitano – si salva)»[37]. Al deserto, Bazlen sostituisce il mare, ai piedi, la balena, la quale si fa il mezzo organico della deriva: «Una balena è una nave, solo che tutto è confuso […]»[38].

 

4. L’esperienza del Capitano, uomo senza nome, è il verso di quella dell’Ulisse omerico — colui che nega il nome per riaffermarlo, l’uomo della navigazione, l’eroe della nostalgia —, come pure è il verso dell’esperienza di Giona, che trova nella balena la giusta direzione per volontà di Dio. Parimenti, la moglie del capitano è il verso di Penelope: cuce ma non scuce, a differenza della tela fatta e disfatta ogni giorno e ogni notte. La moglie è colei che non attende, e di fronte alla quale il capitano non ha neppure memoria dell’evento della balena, perché in quell’evento egli è solo, senza una donna, con delle macchie blu sul corpo:

«C’era una strana cosa, però», disse il Capitano «mi posso ricordare esattamente di tutto, ma c’è una cosa che non so proprio: sono stato nella pancia della balena oppure no? Ma com’era dentro e come poi sono riuscito a uscirne, questo lo vedo così chiaramente davanti ai miei occhi […] ma comunque allora dovevo ben sapere dov’è che sono uscito, e questo veramente non posso dirlo…». «Non sarebbe la prima volta», disse la moglie[39].

Nel dialogo con la moglie, il capitano sembra addirittura mettere in dubbio l’evento, quasi che la memoria del fatto debba essere in una certa misura dimenticata, perché un ritorno non è mai atteso. Questo passaggio mette in evidenza anche sul piano della narrazione il processo de-scrittivo di Bazlen e il modo paradossale in cui la primavoltità è «per una volta soltanto». Così, la cucitura può solo progredire fino a terminare. Non è un caso che la moglie smetta di cucire:

Egli sorrise «Se mi cuci un’altra volta un paio di pantaloni…». «No», rispose lei con uno strano tono serio «forse è stato quello lo sbaglio. Ci sono apposta le sarte per fare queste cose – forse non prenderò mai più un ago in mano…»[40].

Il naufragio rende la “forma” del capitano diversa, così come rende diversa la “forma” del testo: l’abito custodito del passato risulta una forma morta, che non riesce più ad adeguarsi al presente: «Il capitano è magro, la giacca gli va troppo larga e i pantaloni non sono finiti»[41]. Per questo nella conversazione successiva egli ride, intimando alla moglie di non cucire più. Il capitano, che torna senza bisogno di un intermediario per l’agnizione — come invece accade nel caso di Euriclea, la quale riconosce Ulisse dalla cicatrice che ha sulla gamba —, nel momento in cui la moglie lo abbraccia vedendolo indossare abiti grigi a brandelli, afferma:

«Finché non avrai dei vestiti nuovi, dovrai contentarti del vestito rosso». Lei buttò lì queste parole con tono piuttosto garbato, e senza prendere neppure un’aria trionfante. «Rosso è comunque meglio che grigio». «Qualsiasi cosa è meglio che grigio» disse il Capitano, lo disse con tono garbato, ma la frase mancava comunque di tatto. Volle rimediare e raccontò quanta nostalgia aveva avuto di quei pantaloni. Credo che saprei riconoscere ogni cucitura[42].

Se i brandelli rimandano alla distruzione del testo, il colore può riferirsi sia agli «uomini grigi» che il capitano incontra durante il suo viaggio sia alla distruzione dei loro «valori eterni»[43], fondati sulla tradizione. Così l’uniforme rossa, che il capitano deve provvisoriamente usare fino a quando non ne avrà una nuova, rappresenta anch’essa, come il Mar Rosso, una forma morta: ogni cucitura riconoscibile è il segno di una cicatrice che il suo corpo non può portare. Per tale ragione, tanto alla scrittura quanto alla vita è necessaria un’invenzione che cancelli il testo precedente:

«Tutto dipende da quei pantaloni impossibili, non graditi, scomodi che mi hai imposto».
«Non cucio più».
«Ma puoi comprarli fatti e poi dirmi che li hai cuciti tu…»
«Sì, e ti posso fare anche degli altri tiri, sono piena di spiritelli maligni».
«Perdonata a priori – così dopo ti posso lasciare con migliore coscienza».
«E allora cosa fai?».
«Non lo so ancora. Lo deciderò dopo. Tutti i mari mi sono aperti… Prima di tutto voglio finire di scrivere il mio libro».
«Ma cos’è che scrivi veramente?».
«Veramente è la mia storia… la storia di un certo capitano di lungo corso».
«Ti manca ancora molto?».
«No, solo… alcune righe».
«Allora non ci vorrà molto».
«Chissà, forse invece ci vorrà molto».
«Ho tempo».
«Ma con me le righe durano… più a lungo».
«Ho più tempo di te».
«Chi ha più tempo?».
«Staremo a vedere. Questa conversazione è inclusa?».
«Certamente, e adesso mi mancano solo… alcune righe. Ma ora smetti, altrimenti la conversazione esce dalla cornice. E allora ci sono delle righe in più. Se non le cancelliamo, la fine viene proprio in mezzo a una frase».
Risero tutti e due.
«Perché mai faremo delle conversazioni così sciocche?».
«Credo per ironia romantica».

E il capitano scrisse l’ultima riga

5. Si comprende come il rapporto fra “fine” e “inizio” sia quello della fine della scrittura in relazione all’inizio di un altro naufragio. Il capitano è l’uomo che per eccesso di ordine «dimentica di fissare la rotta… quasi naufragio»[45]. È dunque evidente una tensione che è prima di tutto culturale tra Talmud e Tao, tra ordine legato alla dottrina e molteplicità della direzione[46]: «Ce qui est exaltant, c’est que la suite imprévisible du livre n’est pas seulement liée à l’approfodissement de son thème, mais rendue nécessaire per la mythologie propre de l’écrivain et la cohérence de quelque rêve obscure»[47]. Consonanti allo spirito che informa la scrittura di Bazlen sono le parole con cui Blanchot introduce e descrive l’incontro tra Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità, e la sorella Agatha. Si tratta di un «rencontre» in questo caso diversamente animato:

passion […] d’une forme singulière, longtemps et presque jusqu’à la fin inaccomplie, tout en étant la plus libre et la plus violente, à la fois méthodique et magique, principe d’une recherche abstraite et d’une effusion mystique, union de l’une et de l’autre dans l’entrevision d’un état suprême, le Règne millénaire dont la vérité, au commencement accessible à la passion privilégiée du couple interdit, à la fin s’étendra peut-être à la brûlante communauté universelle[48].

Nella serie di confronti possibili tra Musil e Bazlen, l’incontro tra il capitano e la moglie è invece il momento in cui l’inanità della passione ristabilisce il paradigma esistenziale del personaggio. Il «tono garbato» è dunque sinonimo di sterilità e funzione di un distacco necessario alla solitudine, questa sì unica forma possibile di unione: quella dell’uno e dell’altro se stesso, del corpo e dell’abito del capitano. Il naufragio si risolve in tal modo in un’esperienza in cui la fine o il niente — che è ciò che accade — acquisisce una funzione essenziale per la direzione della scrittura, distruggendola al solo scopo di ricomporla:

Enfin seul, passò per la testa del capitano, sorrise. A parte questo, impassibile come sempre, cominciò a nuotare con tutte le sue forze. Come aveva odiato la nave, com’era bello che tutti i libri si sciogliessero nel mare. Era tutto ovvio e consequenziale, lo aveva saputo sempre, sempre, e lo aveva anche voluto, quella volta, quando aveva rifiutato i pantaloni rossi – quello era stato il primo atto di preparazione al naufragio – […] un bel naufragio plausibile, elaborato, curato, la logica interna che un paio di pantaloni rossi, asciutti, doveva condurlo finalmente a un paio di pantaloni blu, tutti bagnati […]. Ora era finalmente tutto in ordine […] anche se non lo sapeva, poteva dire dove si trovava, era la fine del prologo […]. Ora soltanto Tiamat, Tiamat, per creare alla fine un cosmo, nuotava […] che indecenza la nave e il porto e la casa, ora aveva il mare, e aveva anche un programma, e poi il felice scioglimento, lo happy end – ignoto su una costa ignota, l’eroe che esce dal mare […][49].

Se il sorriso e il blu sono simboli essenziali al processo caotico della de-scrizione, il caos, raffigurato dalla dea marina Tiamat, è il punto di partenza di un nuovo progetto. Bazlen aveva già sottolineato nei frammenti del capitolo Città grigia, contenuti nel quaderno B, che cosa significasse essere sul punto di naufragare: «il vero naufragio è quando tutto si dissolve in acqua, non c’è terra abbastanza buona per gettarci l’ancora – eppure deve esserci un ancoraggio»[50]. Il naufragio risolve allora la questione del prologo, nel quale risuona ciò che Bazlen scrive a proposito della scrittura dei libri: «questo è il prologo, forse non possiamo scrivere che prologhi […]»[51]. A fondamento di una considerazione così vicina all’idea che sia possibile soltanto scrivere note a piè di pagina, si pone, per mezzo di una tensione faustiana, il superamento di un pregiudizio: «Pregiudizio: che debba esserci una fine: tu parli della fine: ora è inizio e fine: perciò è così bello»[52].

Il capitano, dunque, compie il suo progetto a partire dalla fine, poiché la fine diviene ogni possibile inizio. Egli, in quanto anti-Ulisse — «Ulisse […] crea direzione […] la linea chiara è nel caos»[53] —, rappresenta anche l’opposto di se stesso (il capitano come figura guida e autoritaria, capitaneum e capite). Per questa ragione la sua figura incarna in Bazlen il senso stesso della scrittura, ossia lo spazio assente in cui alterità e identità coincidono entro il circolo delle opposizioni. Esattamente in questo spazio, l’atto della primavoltità inventa in maniera incessante una vita e una scrittura nuove:

altri naufragi nello stesso luogo – Ma nessun capitano torna indietro […] non si deve mai naufragare dove sono naufragati altri… vera vita vuol dire: inventare nuovi luoghi dove poter naufragare… ogni nuova opera è solo l’invenzione di una nuova morte[54].


[1] Roberto Calasso, Notizie sui manoscritti, in Roberto Bazlen, Scritti, Milano: Adelphi 1984 (20022), p. 396.

[2] Ibidem, p. 395.

[3] Bazlen (20022), p. 203.

[4] Ibid., p. 393.

[5] Per Roberto Bazlen. Materiali della giornata organizzata dal Gruppo 85, a c. di Roberto Dedenaro, Udine: Zanotto 1995, p. 16.

[6] Ibid. [corsivo mio].

[7] Bazlen (20022), pp. 278-79

[8] Ibid., p. 274. Il quarto riguarda il carattere “troppo austriaco” del Mann che nella traduzione italiana subirebbe per Bazlen un’inevitabile dispersione.

[9] Ibid., p. 274.

[10] Ibid., p. 278.

[11] Ibid., p. 275

[12] Riportiamo per intero l’aforisma di Bazlen: «Fino a Goethe: la biografia assorbita dall’opera / Da Rilke in poi: la vita contro l’ opera», Ibid., p. 184.

[13] Per Roberto Bazlen (1995), p. 16.

[14] Bazlen (20022), p. 185.

[15] Ibidem, p. 189.

[16] Per Roberto Bazlen (1995), p. 17.

[17] Bazlen (20022), p. 189.

[18] Ibidem, p. 181.

[19] Ibid.

[20] Ibid., p. 70.

[21] Ibid., p. 230.

[22] Ibid., p. 212.

[23] Ibid., p. 181.

[24] Ibid., 186.

[25] Ibid., p. 231.

[26] Ibid., p. 214.

[27] Ibid., p. 178.

[28] M. Blanchot, L’écriture du désastre, Paris: Gallimard 1980, p. 155. La consonanza tra Blanchot e Bazlen è, in questo specifico caso, evidente, anche se Blanchot non cita mai Bazlen in questo libro e non abbiamo prova che avesse letto l’edizione delle Note senza testo uscita nel 1970. Ciononostante, il sintagma «désastre dé-crit» (p. 17 ) consuona in modo impressionante con il concetto di de-scrizione di Bazlen, anche negli esiti: «Le désastre inexpérimenté, ce qui se soustrait à tuote possibilité d’expérience — limite de l’écriture. Il faut répéter: le désastre dé-crit. Ce qui ne signifie pas que le désastre, comme force d’écriture, s’en exclue, soit hors écriture, un hors-texte» (ibidem). Risalendo indietro nel tempo, in una lettera editoriale del 9 aprile 1961, Bazlen raccomanderà caldamente a Foà L’Espace littéraire. Dopo lo scetticismo iniziale di fronte a Blanchot, il giudizio positivo si fonda su certe questioni a lui care: «Mi sono trovato davanti a sei pagine stupende, scritte non al di qua né al di là ma sullo spartiacque, dove la paradossalità inafferrabile del rapporto artista-opera è espressa come non l’ho trovata espressa mai», in Bazlen (20022), p. 306.

[29] Bazlen (20022), pp. 17-18 Si legga di seguito: «[…] qui non c’è l’opera, solo un gruppo di appunti messi insieme da altri a formare un libro. Bazlen è riuscito tanto bene a passare fra le maglie da render vano anche questo tentativo di legare degli scritti al suo nome. Direi che questa è la ragione più convincente per decidersi a pubblicare questi scritti: la certezza che qualunque sforzo non basti a fare di questa opera fantasma l’opera di Roberto B. Il testo delle Note senza testo è da sempre altrove».

[30] Cfr. G. De Savorgnani, Bobi Bazlen: lo scrittore che non scrive?, in Bobi Bazlen sotto il segno di Mercurio, Trieste: LINT 1998, pp. 123-214.

[31] Bazlen (20022), pp. 63-4.

[32] George Orwell, Inside the whale and other essays, London: Victor Gollancz LTD 1940, p. 177.

[33] Bazlen (20022), p. 196. «Le Juif est l’homie des origins, qui se rapport à l’origine, non pas en demeurant, mais en s’éloignant, distant anise que la vérité du commencement est dans la séparation», in N. Blanchot, L’entretien infini, Paris: Gallimard 1969, p. 185.

[34] Ibidem, p. 181.

[35] Ibid.

[36] Ibid.

[37] Ibid., p. 196.

[38] Ibid., p. 65.

[39] Ibid., p. 138.

[40] Ibid., p. 138-39.

[41] Ibid., p. 137.

[42] Ibid., pp. 136-7.

[43] Ibid., p. 98.

[44] Ibid., p. 148-9.

[45] Ibid., p. 162.

[46] Per un paragone con la medesima tensione culturale che si rinviene in Kafka, cfr. Bernd Müller, Zwischen Thora und Tao, in “Denn es ist noch nichts geschehenWalter Benjamins Kafka-Deutung, Böhlau, Köln 1996, pp. 205-219.

[47] Blanchot (1959), pp. 209-210.

[48] Ibidem, p. 210.

[49] Bazlen (20022), pp. 76-7.

[50] Ibidem, p. 108.

[51] Ibid., p. 208.

[52] Ibid., p. 222.

[53] Ibid., p. 213.

[54] Ibid., p. 170.

 

[Immagine: Sol LeWitt, Wall Drawing #564]

12 thoughts on “Roberto Bazlen e «l’arte di morire ogni secondo»

  1. “ 25 maggio 1984 – Una sera Natalia Ginzburg passeggiava con Bazlen sul Lungotevere. « Quell’impermeabile è vecchio – le diceva Bazlen – perché non lo butti? ». « No, no, lo voglio conservare », replicava lei. Allora Bobi si è tolto la giacca e l’ha buttata nel fiume. « Ricordo che la vidi galleggiare », conclude la scrittrice. (Raccontato dalla medesima alla tv) “.

  2. “ Venerdì 18 agosto 2006 – « A Natalia Gabriele attaccò un po’ di leggerezza, di ironia. Prima di Gabriele, Natalia dev’essere stata una persona più ispida di quella che ho avuto la fortuna di frequentare. Il leggendario Bobi Bazlen raccontava che una volta che passeggiavano lungo il Tevere in un gelido dicembre romano subito dopo la guerra, aveva tentato di provocarla: “ Via quel muso lungo! Sorridi! Scherza! E butta via quel brutto cappotto! Compratene uno nuovo! “. Natalia aveva obiettato che il suo cappotto era brutto ma caldo, e poi aveva solo quello. “ Che ci vuole a buttare via un cappotto? È facile, fai come me! “ e trascinato dalla sua stessa foga, Bazlen si era sfilato il cappotto e lo aveva scaraventato nel fiume. “ Ma Natalia il suo non lo buttò “ concludeva. “ Nel Tevere ci finì solo il mio. E anch’io avevo solo quello, e non potevo comprarne uno nuovo. Battei i denti tutto l’inverno ” » (Masolino D’Amico, Gabriele Baldini. Il travestimento, in Persone speciali, cit.) “.

  3. “ Venerdì 16 maggio 2003 – Quando ho scoperto che Natalia Ginzburg ha parlato di un testo di Bobi Bazlen che conosco benissimo – ci ho scritto anche un diario: « 1 giugno 1994 – Vorrei ritrovare quella « lettera editoriale » dove Bazlen si lamenta che qualcuno gli ha voluto infliggere la visione di Un condannato a morte è fuggito. Vorrei documentare – gli esempi sono innumerevoli – l’incomprensione – stupida, presuntuosa – dei letterati per il cinema. (Nell’occasione mi accorgo di sapere che il film – che non ricordo di aver visto – è di Bresson) (Quello che è buffo, d’altra parte, è che il cinema si comporta ancora come se non avesse, come sono certo che ha, tutto il potere) » -, mi sono emozionato. Natalia Ginzburg ne parla in una recensione a Dillinger è morto di Marco Ferreri («La Stampa», domenica 16 febbraio 1969) – vale la pena citarla per esteso: « Mi sono anche ricordata, guardando questo film, di alcune frasi che avevo letto in una lettera di Roberto Bazlen, in un piccolo volume di Lettere editoriali uscito in questi giorni da Adelphi. Le frasi di Bazlen si riferiscono a un film: Un condannato a morte è fuggito. “ Con tutto il malinteso di scarno, essenziale, antirettorico, senza compromessi col gusto del pubblico (ma io povero diavolo sono il pubblico!), rinuncia agli effetti, onestà fino in fondo e bovarismi consimili, il regista ha avuto la spudoratezza di rubarmi tre quarti d’ora di vita per mostrarmi un nessuno che (« of course » sotto l’assillo della morte) si prepara di nascosto la corda per fuggire, in una cella, solo “. Le parole “ ma io povero diavolo sono il pubblico! “ mentre vedevo Dillinger mi ronzavano nell’orecchio. ». L’emozione nasce dalla coincidenza, e anche dal piccolo mistero che nasconde. Il mistero del « caso Bazlen » – che fosse un personaggio-chiave già si sapeva, ci ha fatto un libro anche Del Giudice che è uno che non fa mai niente per niente. Il mistero del film di Bresson – che un film è sempre un mistero già lo sapevamo, ma il mistero resta. Il mistero delle coincidenze – che tanta gente si ritrovi, a distanza di tanti anni, a pensare alle stesse cose, dico Bazlen, la Ginzburg, e, si licet, anche il sottoscritto. Il mistero delle frasi – una frase (a sentirla, ma anche a dirla) è sempre un mistero. Comunque, anche se non si sa ancora come abbia fatto, quel condannato è fuggito. (C’è anche da dire che Bazlen era di Trieste, come i’ babbo di Natalia. Mah. Boh.) “.

  4. “ Giovedì 5 febbraio 2004 – Mi dispiace molto di non avere trascritto quella « nota senza testo » in cui Bazlen dice che il tragico se la passa peggio del comico. Credo che dica che è più « subalterno ». Comunque, per quanto mi riguarda, io non sono più tragico, ma a essere comico non ci provo nemmeno. Sarà per questo che me la passo così male. (Il massimo che mi riesce a essere è « autoironico », un’autoironia un po’ squallida, alla « povero cristo » – del resto non ho mai veramente creduto nell’autoironia: è solo la messinscena tattica di chi se la crede moltissimo. Altra cosa è « fare il buffone »: si fanno, come si sa, anche bei soldi – nel primo caso ci si fa del male, nel secondo si fa male) “.

  5. «[…] ci ha fatto un libro anche Del Giudice che è uno che non fa mai niente per niente.»

    Hanno un senso queste parole? E se lo hanno, quale?

  6. Continua ad avere poco senso, anche se accompagnato da un giudizio positivo.

  7. “ Mercoledì 4 febbraio 2004 – « E l’unico pericolo vero, per me, è l’argomento giusto o la parola giusta nella bocca sbagliata. Non è problema di parole, è problema di bocche. » (Roberto Bazlen, Lettera editoriale, 31/8/1962, in Manuela La Ferla, Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, 1994) “.

  8. Ma il diario è suo o di altri? Il suo uso dei caporali e delle virgolette mi confonde. Se non è suo, mi rendo conto che è inutile chiederlo a lei, se è suo mi piacerebbe capire (o meglio, mi sarebbe piaciuto un paio di giorni fa) cosa le ha fatto scrivere quella frase così ingiustificata e in fondo sgradevole. Ma mi par di capire che otterrei ancora solo qualche passo di un diario d’autore incerto, perciò mi rassegno e ritiro la domanda. Stia bene.

  9. Cara Silvia Bortoli, il diario è mio e solo mio. Ciononostante non sono assolutamente in grado di ricostruire perché ho scritto quello che ho scritto. Di certo non volevo offendere nessuno, tantomeno Daniele Del Giudice di cui, speravo si fosse capito, ho invece grandissima stima. Potrei anche dirle che e come sarebbe stato possibile che ci conoscessimo, ma questa non è la sede adatta. Stia bene anche lei

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