di Cristina Alziati

[Queste poesie sono tratte da Come non piangenti, Marcos y Marcos, Milano 2011].

Terza lettera ad Antigone

Non ti mando la foto, ti descrivo.
Sulla riva, distesi sotto il sole, vedi,
i bei bagnanti, e i pueri, e il cadavere
poco discosto, soltanto dall’acqua lambito.
Non fosse per i vestiti – per gli stracci –
diremmo che è uno del gruppo, fra quelli
ridenti, uno vivo. È un giorno di festa.

Arriveranno gli addetti, più tardi,
a sgomberare quel corpo; altrove
si sbrigherà una pratica,
faranno un’autopsia, verrà inumato.
Questo però non c’è, nella fotografia.

E nemmeno la bava, domani, dei giornali
né la pena beghina per quel morto,
“zingaro – dirà qualcuno – ma bambino…”
C’è questa roccia, invece
fra il cisto e i rosmarini,
questa roccia residua da cui scrivo,
e dentro l’aria una preghiera
e il mare intero, lento
che prima degli addetti il corpo
si porta via, l’istante prima.
C’è il resto del paesaggio a sua custodia.

*

da I riccioli della chemio

1.

Come vuoi che racconti dei mesi
di quello straordinario inverno
di gemme anche quassù, e sole
fra i rami nel dicembre, quando il manto
di neve ero io, la corteccia glabra
lo scricchiolio del gelo nelle ossa – per quale
voce straordinaria dirti l’inverno,
quando l’inverno ero io?

 

*

Mi hai portato una volta da lei
fra le colline, sedeva da anni
da anni costretta all’immobilità.
Quando torni lassù io ti vedo
che svolti la curva in cima alla salita
odo i tuoi passi, odo
una vostra allegria oltre i grandi vetri
che aprono la stanza alla campagna.
Conosco il suo sguardo per sempre.
Muoveva dentro le tue mani
arreso in un riposo, lento. Un giorno
le poserò sopra la nuda pietra
nudi i piedi prima che tu la prenda
che confonda i tuoi palmi al suo finire.

Vedi, il congedo, mi dirai al ritorno,
è stato quello scambio.
Quello sconfinamento il confine.

 

*

È salita sui prati, ti diranno
che è morta, non dispera.
A volte se ne va per la sassaia
di versi accartocciati, lungo un greto
bianchissimo, che acceca.
Osserva rotolare dentro l’acqua
mille tracce, di quanto non annota
e scorda. Quando si incagliano in un’ansa
prende uno stecco e le sospinge un poco.
Tuffa a caso le mani.
Fa conca con i palmi, chiude gli occhi, beve.

 

[Immagine: Gregory Crewdson, Untitled (db). © Gregory Crewdson]

34 thoughts on “Quattro poesie da “Come non piangenti”

  1. mi sorprende che proprio questi testi non ricevano nessun commento. eppure, tra quelli pubblicati in questo sito, sono sicuramente tra i migliori. si trova in queste poesie qualcosa che è difficile trovare in molte altre degli “anni zero”, pubblicate prima. per esempio, un rapporto con l’esperienza chiaro, senza essere banale: il lettore capisce qual è l’esperienza a cui si lega il testo, che il testo cerca di trasformare, entrando semplicemente nel testo. in altri autori, pure celebrati (penso a Marco Benedetti, Antonella Anedda) questo non accade. c’è in essi una oscurità che non appare giustificata, in fondo. un tentativo eccessivo di rendere l’interiorità, che ormai si è svuotata.
    e il controllo formale anche, è buono. Emily Dickinson diceva che la poesia si riconosce dalla scossa che provoca, alla lettura. e qui c’è, la scossa.

  2. Ho scoperto da poco le poesie di Cristina Alziati, e va certo a mio demerito perché sono di qualità notevolissima, le leggi e ti senti un bel pugno al petto, che per me è un pregio. Primo, il controllo formale è netto e sicuro, la ritmica non si perde mai, e si potrebbe – leggendo ad alta voce – anche solo ascoltare il bel suono che fanno le parole così come sono state scelte e posizionate. Secondo, l’esperienza personale si sublima, l’autrice parla del Sè e nello stesso tempo non lo fa pesare, tutto è trasfigurato, come Arte richiede. La seconda da “I riccioli della chemio” è superlativa nella sua riflessione sulla morte in rapporto alla vita e viceversa, sulla chiusa si resta a riflettere a lungo.
    Su tutto, si avverte lo zoccolo duro dell’urgenza di dire, Poesia che dichiara l’umanità, che ha un oggetto ben definito, dal dentro dell’autrice.
    Grazie, LPLC.

  3. Non è facile oggi incotrare la Poesia tra le poesie; spesso ci suggeriscono, da fuori ‘questa è una poesia’.

    Questa qui, invece, è Poesia. Nessuno te lo deve dire.

  4. La fragilità, delle erbe, dei rami, dei corpi, e il tema del gelo, sono chiari indizi dell’eredità poetica fortiniana. Se si facesse una mappa della funzione-Fortini, poeti come Cristina Alziati, Anna Cascella, Gianfranco Ciabatti e molti altri rivelerebbero un fenomeno figurale complesso, variegato, dislocato fra tensione brechtiana e creaturalità penniana. Mentre in Ciabatti l’imperativo della contraddizione domina sull’inermità (“Se la fragilità tua confidando a udienza/ d’uomo presunto, tu / commozione ne ottenga e pena”) e soprattutto si versifica con accanimento la dialettica ferrea cotruzione/distruzione (“Se/ sono tre le utopie, le realtà,/il reale/ il divenire la /trasformazione”, in Niente di personale1989) e se le erbe e il “tesoro da nulla” di Cascella fondono Fortini e Penna in un canto di indicibile dolcezza , Alziati mi pare situarsi a mezzavia, in un fecondo compromesso fra queste due polarità, con esiti assai alti.

  5. Non posso lasciare un commento,
    un commento è per parole appaiate male,
    allora sì, ti infili nelle crepe delle frasi malaticce,
    ma qui c’è il CANTO,
    e zitta me ne sto,
    e ascolto.
    E guardo.

  6. Testimonianza pubblicata sul blog MOLTINPOESIA e riadattata per LPLC

    Ho conosciuto Cristina Alziati e scambiato qualche parola e poi mail con lei sempre di corsa. Come se fossimo entrambi, e assieme ad altri, in fuga, incalzati da un mutamento della realtà che non ci ha dato tregua, ci ha feriti, dispersi, a volte azzittiti. Anche per me era, è stata, è del giro dei “fortiniani”. Questa etichetta è solo orientativa, ma (per me) ha ancora oggi un senso distintivo. Indica una minoranza intellettuale non rassegnatasi alla cultura, alla politica, ai costumi dell’Italia che ha celebrato i suoi trionfi con la Restaurazione degli anni Settanta, il tracollo e il trasformismo della sinistra comunista, la partecipazione subordinata alle guerre umanitarie statunitensi.
    La vidi la prima volta nella piccola folla che si raccolse a Cologno Monzese nel salone di Villa Casati, quando il 30 maggio 1989 Franco Fortini tenne a battesimo la nostra neonata Associazione culturale Ipsilon. Per un decennio, dietro quella spinta, cercammo di discutere e far discutere in una città dell’hinterland milanese temi come l’ecologia della lettura, l’emarginazione, le trasformazioni del lavoro, il marxismo in crisi, la memoria storica.
    La rividi a ridosso delle manifestazioni contro la prima guerra del Golfo nel gennaio 1991. Rimasi in contatto più saltuario con lei (allora a Berlino), quando giovane madre affrontò “un’esperienza terribile (la malattia, un tumore, di cui le poesie dicono parcamente ma chiaramente quel che si può dire, senza pietismi o autocompiacimenti” (Fabio Pusterla nell’ultima di copertina di “Come non piangenti”).
    L’ho poi seguita più da lontano, man mano che il Centro Franco Fortini di Siena, a cui in diversi facevamo riferimento, subiva pur esso i colpi della Crisi e assiema alla perdita di personalità del calibro di Cesare Cases, Giovanni Raboni, Michele Ranchetti ed Edoarda Masi, abbiamo visto cancellati o derisi dalla koiné “democratica” concetti etici e politici di ascendenza marxiana che erano serviti da barriera contro l’imbarbarimento e l’accomodamento ai potenti.
    Questo per dire che la poesia di Cristina Alziati è oggi uno dei luoghi in cui si sono impiantati quei semi di resistenza (la “funzione-Fortini” di cui parla Zinato). E non me la sento di apprezzarla soltanto per la sua bellezza o la forma tersa, che indubbiamente non mancano.
    Quando (maggio 2004) lessi la sua precedente raccolta, “A compimento” (e non so quanto colsi della sua poesia e se le fu gradita la mia impressione), le scrissi:

    “Devo dirti che le [poesie di “A compimento”] non le riesco a separare dalla figura, dai toni e dai temi di Fortini. Questo – sarò sincero – in parte è un complimento, in parte è una riserva. Apprezzo in pieno la compattezza della raccolta, la secchezza delle immagini, la concisione del dettato. Sono tratti della forma che svelano un grande rigore morale e civile, una ricerca di “verticalità”, di parole ultime, definitive ed essenziali. Ma – e qui ti pongo forse crudamente un problema – non sei Fortini, non puoi esserlo. L’ombra sua (e l’ombra dei suoi autori) a me pare troppo incombente. Questo, se non sbaglio, produce dei cortocircuiti fra quotidiano e ideologia (ad es. in “Sui primi disegni di mia figlia” o in “Quale anniversario”) e rende troppo secco (a volte troppo “ermetico” e, insomma, poco disteso) il legame fra loro, che pur esiste, ma viene come bloccato da una volontà sapienziale e altera”.
    A distanza di sette anni, di fronte a “Come non piangenti”, mi sento di dire che forse quell’avvertimento “antidiscepolare” che rivolgevo a Cristina era eccessivo. E che rischiavo di considerarla una semplice epigona di Fortini. Nella nuova raccolta colgo ancora l’elemento della “verticalità” (religiosa? politica? filosofica?), che credo vada interrogato meglio, considerando un testo dopo l’altro e l’architettura delle sezioni (Vicoli, L’angelo smemorato, Breviario, In pochi fogli). Escluderei senza esitare che queste sue poesie rientrino in una poetica della “crisi dell’io”.
    Si confrontino su questo stesso sito di LPLC le poesie di Cristina Alziati e quelle di Andrea Inglese, un suo quasi coetaneo; e anch’egli non del tutto immemore di Fortini. Lei è del 1963. Lui del 1967. In Inglese lo “sganciamento” tra autobiografia (o storia personale) e storia collettiva, generale è accettato e pare irreparabile. Egli sembra aggrapparsi esclusivamente all’io, sia pur “nudo” e senza più “tesori interiori”. E questo lo porta a una rassegnata accettazione della convivenza con gli immutati (immutabili? per sempre?) * ferocissimi mali/ del mondo*.
    In Alziati basti leggere la poesia che comincia “”Tu che hai scritto anni orsono” (che qui sotto ricopio assieme alla nota dell’autrice), per cogliere quanto non le basti l’io e quanto resti presente e forte il ‘noi’ possibile.

    Tu che hai scritto anni orsono
    di generazioni condannate, o dell’ aria
    fra il Tigri e l’Eufrate, sparita,
    perché in questo mese di marzo
    delle testate umanitarie taci, che spargono
    uranio impoverito sulla Libia?”

    Ma dimmi, che ci fai nella mia notte
    uccello dal dolcissimo nome,
    con la ‘o’ tutta chiusa, che si allunga
    fino a battere piano sul palato, mia Dohle?
    Qui da tempo non viene nessuno.
    Vivo giorni di scorte.
    Oggi ad esempio ho procurato
    una terza versione dello Jephtha,
    mi martello le orecchie
    me ne sto radunata in tre battute
    scendo con gli archi al semitono
    prima che attacchi Scenes of horror,
    Scenes of woe, sono di legno.
    Fuori il pruno selvatico principia
    a fiorire tutto solo nel giardino.
    Perché non posi in pace tu ora,
    mia Dohle, tu che stavi
    stecchita sulla soglia stamattina?

    *Nota dell’autrice

    – Tu che hai scritto : «’Fra il Tigri e l’Eufrate’: si rammentano l’Iraq e le bombe a base di ossido di etilene che vennero ripetutamente sganciate sul paese (1991, 2004); la nube che queste bombe spargono, detonando provoca un vuoto d’aria tale che chiunque si trovi nel suo raggio di distruzione, anche se al riparo, muore per asfissia. ‘Dohle’: si tratta di una taccola, piccolo uccello della famiglia dei corvidi. ‘Scenes of horror, scenes of woe’ è l’attacco di un’aria dell’oratorio di Georg Friedrich Händel Jephta ».

  7. Le poesie mi sembrano molto belle. Peccato per quel “pueri” al terzo verso del primo componimento, che mi sembra un’evitabilissima esclusione dei miei amici che hanno fatto il tecnico.
    Anche quando sconfinano apparentemente in tematiche sociali e storiche (il primo componimento), mi pare che i testi riescano a riallacciare tutto nell’alveo della dicibilità lirica, interiorizzata (anche grazie alla distribuzione sapiente delle cesure ritmiche e delle ripetizioni), tutt’al più panteistica, certo astorica. E così il mare, lungi dall’essere trappola per navi da crociera o campo di pirateria, diventa ventre materno e finale consolazione.
    Secondo me, comunque, non la dice tutta: il mare è per esempio dove si spaccano le navi da crociera e dove nascono e muoiono i pesci e le alghe, e anche tutt’intorno a dove sorge la Sicilia affamata e in rivolta. Vero o no che la poesia sta abdicando a troppe di queste cose?

    @Fiorella D’Errico, @mari: non ho capito bene come si fa a distinguere tra Poesia e poesie. Me lo potreste spiegare?

  8. Dopo aver letto il commento di Ennio Abate (e specialmente il componimento da lui riportato), devo con piacere rettificare: non è che la Alziati abdichi, è LPLC che non ci fa leggere le cose migliori.

  9. Mi permetto qui una voce fuori dal coro (fuori dall’italia, proprio!), diremo la proverbiale chiave inglese nella ruota: per il poco che posso leggere (e oggi ho cercato di fare del mio meglio con quello che ho trovato in rete) questi testi, per quanto puliti, sono il contrario di quello che voglio leggere. E per spiegare come mai, rubo a Cristina Annino il suo commento a testi assai diversi, qui:

    http://rebstein.wordpress.com/2011/07/18/teoria-dei-salti/#more-39287

    “Intanto e per ciò, egli [De Pietro] toglie i due comandamenti fondamentali: dolore privato e angoscia pubblica, stati esistenziali fermi per eccellenza, poi il compiacimento di questi, altra zavorra che empie, seppure con decoro, tante pagine e troppa poesia.”

    Ovvero, ed e’ solo fino a un certo punto questione di gusto, i gusti alla fine sono anche gesti, tutta questa cronaca e questi fatti, privati e pubblici, sono forse quello che molti lettori vogliono leggere, ma il poeta per me deve scrivere cose che per il lettore sono inaudite, non consuete. Spero di essermi spiegato. Cari saluti e spero mi perdonerete il dissenso e magari la mancanza di chiarezza se non sono riuscito a esprimermi.

  10. @Roberto Gerace: «Una poesia non è fatta soltanto di parole e di nessi sintattici il cui senso è dato dalle cose e persone e situazioni alle quali si riferiscono e che perciò vanno sotto il nome di referenti; ma è fatta anche dei modi in cui suonano all’orecchio, del ritmo che si può cogliere nella lettura, dei procedimenti retorici (per esempio: le rime) attraverso i quali parole e nessi sintattici vengono organizzati, nonché dei riferimenti individuabili rispetto al contesto storico-culturale dell’autore e/o del lettore. Ed è appunto l’insieme di questi fattori o principi costruttivi in interazione (anzi, dice Tynjanov, in lotta) fra loro quello che dà luogo alla cosa chiamata poesia. […] Perché in poesia tutto è lingua: lessico, suono, ritmo, rima o non-rima, i modi in cui questi fattori coagiscono in combinazioni paragonabili forse a quelle di un caleidoscopio dove ogni figura cambia alla minima scossa». G. Giudici, Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, e/o, Roma, 1992

    Dopodiché: non posso credere all’ingenuità della Sua domanda, visto che siamo in un blog che cura proprio l’individuazione e distinzione critica dei prodotti artistici.
    Un saluto.

  11. Ciao Pietro! Come dici tu, è questione di gusti. C’è chi non ama l’Arte che coltiva lo stupore di chi guarda, bensì la comprensione totale. Un saluto affettuoso.

  12. @Fiorella D’Errico: Invece l’ingenuità della mia domanda era sincera. Nel senso proprio che non riesco ancora (neanche dopo la sua risposta) a comprendere la distinzione tra Poesia e poesie. Forse perché, ritenendolo secondario, non mi sono mai posto il problema con molta insistenza. Ora le spiego perché io continui a non capirla: la definizione di Giudici che lei riporta non mi sembra indicare nulla di positivo. “La poesia è un uso della lingua che fa coagire lessico, suono, ritmo e rima o non-rima” equivale, a mio modestissimo avviso, a dire che la pietra filosofale è un corpo di un certo volume caratterizzato da una composizione chimica, sottoposto a una temperatura e a una pressione in relazione fra loro. Cioè a non aver detto niente. Già nel lontano 1960 André Martinet aveva spiegato che le lingue sono fatte di correlazioni fra elementi micro- e macro-strutturali, ma non c’è bisogno della linguistica per rendersi conto che nella parola “espettorazione” coagiscono lessico, suono, ritmo e possibilità di fare o no rima con un’altra parola. Così come ogni testo, per non dire ogni parola, è contestualizzabile storicamente e culturalmente. Allora mi si vorrà dire, forse, che la poesia sta nel fare coagire questi elementi secondo una certa regola. Ma chi stabilisce questa regola? Cambia di volta in volta? Che cos’è regola, e cosa non lo è? Si può considerare regola anche l’assenza di regole? Ma poi, esiste davvero un’espressione senza regole? Non capisco come si faccia a fare questa distinzione, e temo fortemente che in queste concezioni più o meno nascostamente o inconsciamente agisca, per così dire, un “classicismo della surdeterminazione” (per usare un termine che Siti ha adoperato in questo stesso blog): come se non fosse appunto quando si avverte una tensione non risolta che i testi risultano non dico interessanti, che è poco, non dico belli, che è nulla, ma significativi, importanti, rivelatori. (In questo – e in altro – mi sento un po’ vicino alla posizione di @Pietro Roversi, che giustissimamente dice che i gusti sono anche gesti).

  13. @Gerace: “come se non fosse appunto quando si avverte una tensione non risolta che i testi risultano non dico interessanti, che è poco, non dico belli, che è nulla, ma significativi, importanti, rivelatori.” Chi ha escluso che una discriminante per separare Arte da non-Arte sia anche questo? Ma, una persona indagante come Lei, poi sicuramente chiederà: significativi in che senso e per chi e per cosa? Importanti rispetto a cosa? Rivelatori di questo o anche di quell’altro?
    E parimenti, quello che dice Lei e Roversi, pure si presterebbe alla domanda: gesti di quale natura? E perché devono essere della natura indicata da Voi e non da Altri?
    Sarà che alla fine il Gusto è quello che determina le categorie; ma il Gusto di un’epoca o di una classe sociale? O di tutte le classi sociali? O…..(continua)

    Arrivederci, Roberto, e grazie per questo scambio.

  14. Solo una correzione. Nel riportare i versi della poesia dell’Alziati, sono salate le virgolette iniziali della prima strofe.
    Per l’esattezza:

    “Tu che hai scritto anni orsono
    di generazioni condannate, o dell’ aria
    fra il Tigri e l’Eufrate, sparita,
    perché in questo mese di marzo
    delle testate umanitarie taci, che spargono
    uranio impoverito sulla Libia?”

  15. Interessante questo scambio di opinioni. Torniamo al testo però. La diatriba Poesia e poesia non credo possa essere risolta se non nella pratica. Nella parole stesse.
    Premessa.
    La Poesia è storia. È alone. Velamento. Avvicinamento al confine. Tenere gli occhi aperti e saper guardare nel gorgo. La Poesia è verità. Condivisa. Certo anche tecnica, ma senza creazione, senza un fare escatologico, la tecnica non può nulla. La Poesia è fare nuovo rispetto a tutto ciò che l’ha preceduta.
    Tornando al testo. Come esempio.
    “che prima degli addetti il corpo
    si porta via, l’istante prima.
    C’è il resto del paesaggio a sua custodia.”
    La verità è che quel corpo non è degli addetti, non è degli uomini. È del mare, è di altro, è di un mondo altro da noi/dagli addetti/dagli uomini. Quel corpo è ritornato alla natura, in senso decisamente terreno. Quel corpo non ci appartiene più. È tornato alla sua essenza.
    La verità sta qui. Il nostro corpo, come quello del bambino, non è nostro. È essenza appartenente alla natura. Questa è la verità. Verità che ignoriamo. Verità che abbiamo dimenticato (svelamento). Il paesaggio sia sua custodia, come già è custode di questo segreto. Il resto del paesaggio che è tutto quello che dobbiamo ancora scoprire, o riscoprire (qui dipende dalle individuali propensioni filosofiche). La poesia questo devo fare.
    Questa poesia lo fa.

    Cordiali saluti.

  16. @ Roversi
    che teoria. anche la pubblicità cerca di proporre sempre cose inaudite, non consuete. questo criterio mi sembra solo formale, vuoto. ho letto i testi di De Pietro da lei citati. non vedo come questa evocazione dei movimenti del corpo, in sé, possa essere significativa. concordo sul rischio che la poesia che parla sempre dell’io depresso e delle tragedie mondiali possa diventare anch’essa manierismo. ma non mi sembra il caso della Alziati.

    @ Abate
    grazie per la nota critica e il testo. mi sembra riduttivo però valutare questa poesia solo per il suo porsi in controcanto ai “ferocissimi mali del mondo”. questo lo dico anche @ Gerace: come ho scritto sopra, pensare che questa sia l’unica vera poesia diventa anch’esso manierismo. se si crede che la poesia debba confrontare un ideale assoluto di senso (e di parola) alla totale insensatezza del mondo, Celan ha detto l’ultima parola e ha chiuso il discorso poetico: di lì non si può più andare avanti. da quella stretta la poesia deve uscire. deve riuscire a dire l’esperienza, con un po’ più di pietà per il senso che ha. e quindi bisogna guardare con più attenzione la quotidianità e la capacità di dire le cose chiare. altrimenti anche buona parte di un certo Brecht o di un certo Fortini va a farsi benedire.

  17. Cannavò, cosa intende per “io depresso”. Si riferisce anche a Leopardi per caso, o a Petrarca…?

  18. @ Loprete
    no, non mi riferisco a Petrarca o Leopardi. non saprei bene dire perché, in realtà. ho comunque in mente una poesia recente in cui sembra di avere a che fare sempre con un soggetto dolorante e lagnoso. per spiegare perché quei due lì non mi sembrano lagnosi dovrei pensarci un po’. la Alziati non è lagnosa: ha uno sguardo adulto. forse è questo. uscire dall’adolescenza.

  19. Non saprei a chi si riferisce. Non ci sono poeti lagnosi in circolazione “ufficiale”, credo. Ai suoi tempi ed anche nella nostra lettura attuale neppure Sergio Corazzini lo era. Era un poeta, molto intenso nelle sue cose “inaudite” (per citare da un commento di questo post) passate poi nell’interiorità di molti e nella storia letteraria. Un io dolorante può esprimere cose tutt’altro chel agnose. Poi dipende dalle personali inclinazioni… certamente.

  20. @ Cannavò

    Ho scritto: “Questo per dire che la poesia di Cristina Alziati è oggi uno dei luoghi in cui si sono impiantati quei semi di resistenza (la “funzione-Fortini” di cui parla Zinato). E non me la sento di apprezzarla soltanto per la sua bellezza o la forma tersa, che indubbiamente non mancano”.
    Dov’è il riduzionismo?

  21. E se ci fosse secondo il vostro assunto, della “lagnosità” anche qui? Per esempio, questo finale non smorza troppo il ritmo e si deliquia troppo in qualche sentimentalismo?: “Vedi, il congedo, mi dirai al ritorno, /
    è stato quello scambio. /
    Quello sconfinamento il confine.”

    E poi, parlare di “sconfinamento il confine” è oscuro?
    Concludo per cui dicendo che “lagna” e “oscurità” non sono faccende od oggetti euristici.

  22. @ Loprete
    “lagna” e “oscurità” in effetti non sono strumenti euristici. sono solo il mio parzialissimo giudizio non argomentato, in questo caso. lo riconosco. se sarò capace, una volta cercherò di dire la cosa in modo più dignitoso.
    l’esempio che riporta lei però a me sembra del tutto chiaro.

    @ Abate
    non ho prestato attenzione a questa sua frase. ritiro l’aggettivo “riduttivo”. vorrei dire solo che la poesia, per me, non si valuta solo partendo da quel problema. ma certo accetto che l’apertura all’esperienza storica e sociale tira fuori l’io dal suo ombelico.

    nel complesso, non volevo parlare di questioni generali. solo mettere in risalto il grande valore (per me) di queste poesie di Cristina Alziati. come giudizio, trovo molto utili le considerazioni di Zinato.

  23. @Fiorella D’Errico: Guardi, la differenza tra i miei ragionamenti e i suoi è che io dico arte e lei Arte, io dico versi e lei dice Poesia, io dico lei e lei dice Lei. Secondo me la differenza è sostanziale, non formale. Io non ho mai voluto imporre a nessuno la mia idea di cosa sia significativo, importante e rivelatore in letteratura, ma rivendicarla sì, e sostenerla pure. La differenza tra i miei ragionamenti e i suoi è che lei Impone (che le piaccia o no: a me, come credo a molti, la maiuscola dà quest’impressione) La Sua Idea Di Letteratura sulla base di una definizione inconsistente (quella di Giudici), e perciò autoritaria e conservativa (non aggiungendo né togliendo nulla, non fa che perpetuare comodamente il già dato); io sostengo la mia idea di letteratura non per una presunzione del “Gusto”, ma del gesto: credo che le azioni sottese a certe parole siano politicamente più importanti di altre azioni sottese ad altre parole. Sarà che alla fine il gesto è quello che determina le categorie.

    @riccardo cannavò: Posto che ho iniziato coll’affermare che le poesie mi sembravano molto belle (giudizio estetico), la bellezza non mi sembra un criterio sufficiente per sostenere un’opera letteraria (giudizio politico). Tra il manierismo dell’impegno e quello del disimpegno, per fortuna, di sfumature ce ne stanno tante. Poi, non mi pare di aver mai proposto ideali assoluti di niente (cfr. la sfilza di punti interrogativi nel mio commento precedente): ho anzi voluto dire che ritengo assolutamente inessenziale e del resto chimerica qualsiasi distinzione netta tra Poesia e poesie, o tra poesia e non-poesia. Poesia è ciò che è letta/udita come tale in una determinata (luogo x, tempo y) situazione. Eliminato questo falso problema, resta tutto: cioè cosa serve leggere e cosa non serve, il che mi pare coincida con cosa serve e non serve scrivere.

  24. Signor Gerace, io uso le maiuscole quando è corretto ortograficamente (ogni volta che si indica non qualcosa di concreto e unico, tipo: “la poesia che hai scritto”, ma qualcosa di astratto e onnicomprensivo di distinte realtà, e con caratteri comuni, tipo: la Poesia del ‘900, il Gusto generale di un’epoca specifica, ecc.): è Lei (anche qui devo spiegarLe perché uso la maiuscola?) che vi ha attribuito una distinzione qualitativa. Devo anche specificare che, a mio modo di vedere, in ogni caso la forma è anche sostanza, così come il corpoo è legato alla mente e viceversa.
    Su tutto il resto: si tenga serenamente i Suoi princìpi, io terrò i miei; sono stata interpellata e ho risposto, tutto qui. Cosa che, fra l’altro, nei commenti ad un post eviterei, in generale, perché ci si dovrebbe idealmente riferire all’autore e non fra noi.
    Poiché il Suo tono è gratuitamente aggressivo, sebbene io – lo ripeto – mi sia limitata a rispondere a una Sua domanda, auspico che in futuro eviti di rivolgermene ancora.
    Saluti.

  25. E l’Arte maiuscola a quale arte minuscola si contrappone? Dobbiamo scrivere “le scarpe bucate di nonna Rosina” e “Storia della Scarpa in età napoleonica”? Dobbiamo cominciare a intitolare i libri “Per una teoria freudiana della Letteratura” e “Mimesis. Il Realismo nella Letteratura occidentale”? Scusi, ho citato solo testi giovanilistici che si prostituiscono all’Uso. Del resto, lei stessa ha avallato la mia interpretazione qualitativa delle sue maiuscole rispondendomi con una definizione di Giudici.
    Lei ha detto: “come Arte richiede” e “Poesia che dichiara l’umanità”. Non mi sembra che chiederle perché questi componimenti sarebbero Poesia e il resto poesie, Arte e il resto arte sia una faccenda che non riguardi il post sotto il quale commentiamo. Semmai dimostra la necessità ineliminabile delle discussioni teoriche quando ci si vuol capire.
    Quanto al mio tono, l’unica vera aggressività è la sua nel momento in cui tronca (è la seconda volta) la discussione escludendo una mia ulteriore risposta: nel momento in cui, invece di scambiare opinioni e spiegarsi, mi invita a tenermi le mie opinioni senza disturbare le sue, ché sono intoccabili. Io mi limito a non nascondere il mio sentimento nei confronti di certe idee e affermazioni: se a lei conviene spostarla sul personale perché non sa cosa rispondere nel merito, il problema è suo. Ma poi, se non è per discutere, perché commenta?

    Purtroppo – e spero di sbagliarmi – ho l’impressione che troppo spesso, da queste parti, angustia e autoesposizione abbiano la faccia dell’urbanità e della deferenza.

  26. Di passaggio e di corsa.
    Stimando i commenti sia di Roberto Gerace che di Fiorella D’Errico, inviterei entrambi ad aggirare le impuntature. La questione -semplifico -“Poesia o poesie” mi pare di grande attualità e cruccio di molti che oggi ne scrivono o s’interessano a quella prodotta. In agguato il fantasma del Canone o quello dei “moltinpoesia” (o tuttinpoesia?). Dai, insistete nel confronto…Poi, se posso, mi aggiungo…

  27. Tornando ai testi, la prima poesia ha delle belle immagini, un ritmo notevole, funziona (anche se “pueri”…). Le altre non mi sembrano sulla stessa linea, e proprio i finali, da alcuni apprezzati, mi sembrano tenere poco, perdere in forza. “Quello sconfinamento il confine” non colpisce più di un gioco di parole. Può essere che piaccia più di Anedda (che non mi pare poi una poetessa così oscura, forse difficile), ma mi sembrano testi (avendo letto solo queste poesie) di qualità decisamente diversa. Ovviamente si tratta di un giudizio limitato a queste poche poesie.

  28. Caro Del Sarto, credo che ci siamo intesi. Io avevo cercato di mettere la pulce nell’orecchio…

  29. Il Canone potrebbe essete Tuttinpoesia e poi uno ad uno, o in una baraonda insieme, o per coppie preferite, una bella digitata sui web

  30. Gerace, l’ultima frase è davvero piena di meschinità e bassezza, e questo perché qualcuno ha un’idea diversa dalla Sua. Non è certo con persone come Lei che vorrei discutere.

    Chiedo scusa a LPLC e ai lettori per aver sconfinato dall’atenzione ai testi, me ne prendo anch’io la responsabilità.
    Buon proseguo a tutti.

  31. @Fiorella D’Errico: Che non volesse discutere s’era capito.

    @Ennio Abate: Risponda se e quando riesce. Secondo me lo stesso Canone, se proprio lo vogliamo fare, dipende da problemi di contestualizzazione storica. Non mettiamo nelle nostre antologie le Operette morali perché sono Letteratura, mentre Fede e Bellezza di Niccolò Tommaseo non lo è. Mettiamo le Operette morali perché non si limitano a fornire un esempio di bello stile (di “qualità”), ma rendono il proprio particolarissimo stile funzionale allo svelamento di molte problematiche che si sarebbero poi (sottolineo: poi) rivelate cruciali nella modernità. Questo quando guardiamo al passato. Così se guardiamo al presente non possiamo limitarci a mettere un “mi piace” sotto una poesia e non sotto un’altra, ma dobbiamo cercare di capire quali poesie ci aiutano a focalizzare certe questioni fondamentali del mondo in cui viviamo. Se stessimo ad ascoltare i feticisti del Bello, di Petrarca leggeremmo ancora l’Africa invece delle Rime. Ma mi pare che questo limitarsi a parlare di “qualità” sia un fenomeno solidale con il disorientamento dell’intellettuale, figurarsi del critico letterario. Quello della qualità si rivela in fondo – come mi pare di avere scritto altre volte – un criterio quantitativo: la quantità della qualità, invece che la qualità della qualità.

  32. E’ il rischio che corre la digitata facile ( cito il Giovanni) sul Web, il lasciare liberi i commenti. La Democrazia falsa e spettacolare, per cui qualcuno è morto suicida avvertendo l’inermità del sogggetto che vorrebbe essere sostrato di un valore espressivo, fa qui ulteriori e irresponsabili danni. La percezione della parola “virtuale” ( e cito George Steiner, ma da Marcuse in poi ce n’è molti) necessita di una messa a fuoco,
    di una discussione e di decisioni prima di aprirle uno spazio innocente, qualunquisticamente e idologicamente populistico: “democratico”???. Abbiamo bisogno di élite! di filtri, DI SCELTE!!! Non di assecondarei i mezzi di consumo di qualunque cosa, oggetti o parole provenienti da vite che si stanno vivendo rischiosamente, dico da una intera vita o da una parte di essa, forse sentita la migliore! Esiste un livello Estetico da condividere? Sputtanarci così ha senso? Lo dico agli Arminio, ai Ferracuti, ai Benedetti, ai Mazzoni, ed anche, in secondo ordine, agli Abate, ai Gerace, ai Fiorella.

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