di Massimo Raffaeli
[“Ho gli anni della Rivoluzione d’Ottobre”, diceva di sé Franco Fortini, che era nato nel 1917. La prima versione di questo intervento è uscita su “Alias”].
Quando nel marzo del 1977, in una collana di Laterza diretta da Carlo Muscetta, pubblica la monografia-antologia sul Novecento italiano Franco Fortini non è ancora nel senso comune Franco Fortini e cioè uno dei maggiori poeti del secolo. Ha sessant’anni e alle spalle raccolte cruciali (da Foglio di via, 1946, a Questo muro, 1973), è entrato negli “Oscar” Mondadori con le Poesie scelte (1973) a cura di un giovane fuoriclasse della critica, Pier Vincenzo Mengaldo, eppure la sua ricezione è sfuocata o oscurata da una immagine più aggettante, quella dell’ex redattore di “Politecnico” e poi collaboratore di “Quaderni Rossi” e “Quaderni Piacentini”, del saggista di Dieci inverni (1957) e Verifica dei poteri (1965), del traduttore di Brecht e Eluard, cattiva coscienza itinerante della sinistra italiana o, come pure fu detto, sua implacabile ombra di Banquo. Soltanto negli anni successivi, fra l’eclissi del decennio antagonista e il principio di una nuova glaciazione politica e culturale, alla sua voce sarebbe stati riconosciuti i tratti della necessità e di una compiuta originalità. Dunque è probabile che la stesura de I poeti del Novecento (Donzelli, “Saggi”, pp. 294, € 28.00), che ora tornano a cura di uno studioso benemerito quale Donatello Santarone e l’annessa recensione che lo stesso Mengaldo pubblicò su “Nuovi Argomenti” nel ’79, abbia avuto per lui tanto il valore di una complessiva ricapitolazione quanto della messa a punto di una posizione per proverbio refrattaria e minoritaria. Intanto già nel titolo, quasi atono nella sua semplicità, c’è il rigetto di linee e tendenze che manu militari, fra Grande Stile e Avanguardia, si erano divise il secolo fino alla estrema unzione di Edoardo Sanguineti (Poesia italiana del Novecento, ’69) e in presenza di rare eccezioni (ad esempio Poesie e realtà ’45-’75, a firma di Giancarlo Majorino, che esce da Savelli solo nel settembre del 1977 ma di cui Fortini deve avere avuto senz’altro precedente notizia).
Scandito in cinque capitoli, per scorci storici e un’ampia campionatura, il secolo di Fortini ha forma di costellazione dove pulsano alcune stelle fisse: all’origine i “Vociani” e specialmente Rebora (oltre le ipoteche di Pascoli e d’Annunzio o, in minore, di Gozzano, la cui invadenza è limitata nella misura di vistosi antefatti); Umberto Saba, la cui centralità evade la consueta diade di vecchio/nuovo e piuttosto si ascrive, nei modi di una perpetua lacerazione/ricomposizione, al bisogno di recuperare una totalità umana che si sa perduta; Ungaretti e gli ermetici, attivi tra il fascismo e la guerra mondiale, qui letti come testimoni di una vera e propria età dell’afasia; i poeti definiti dell’esistenzialismo, a partire da Montale la cui opera (massime tra Le occasioni e La Bufera) si staglia, nel connubio di transitività/intransitività, come il massimo esempio ora di resistenza ora di omeopatia al Male secolare e perciò al male indotto da un ordine economico-politico che la sua poesia riceve come tabù e che infatti non può nominare se non nei modi stravolti di una simbologia infera: il contraltare, colui che invoca una parola umana non più dimidiata, si chiama per Fortini, e va da sé, Giacomo Noventa; infine le figure del passato prossimo o del presente, da Pasolini a Zanzotto, da Giudici a Pagliarani, su cui incombono i percorsi dei suoi più grandi coetanei (Luzi e, su tutti, Vittorio Sereni), in un capitolo il cui incunabolo sta nel saggio Le poesie italiane di questi anni uscito in “Menabò” nel ’60.
Santarone, nel suo scritto in postfazione, rende esplicita la mozione di Fortini, che se da un lato rifiuta la metafisica dell’assolutamente moderno per cui il “dopo” sovrasta sempre il “prima” (vedi il caso eloquente di Saba) dall’altro è consapevole della natura poligenetica e policentrica del secolo poetico, né oggi può apparire un caso che, uscita per i “Meridiani” nel novembre del 1978 e tra i suoi nomi primi l’autore di Questo muro, la grande antologia di Mengaldo (il cui ventennale rapporto con Fortini è ancora tutto da studiare) si intitolasse a sua volta Poeti italiani del Novecento, nel comune diniego delle “poetiche” più o meno secolarizzate o militarizzate che non sapessero tuttavia tradursi in “poesie”. Scrive Mengaldo nella recensione del ’79: “Non si tratta solo di deferenza, in Fortini, a un bisogno di pluralismo culturale, ma anche di consapevolezza della dialettica e tensione fra programmi e realizzazioni. […] Fortini sa bene che ai programmi letterari, quale che sia il loro contenuto, magari eversivo, inerisce inevitabilmente qualcosa di affermativo dell’ordine esistente”. Quanto preme a Fortini, ed è all’origine della sua annosa sottovalutazione (lo si tacciò di petulante ideologo in coabitazione con un inveterato classicista), è la capacità di inverare una forma o meglio di testimoniare in una forma, per allegoria o profezia, la totalità dell’umano. Fosse anche per esprimere, nella coscienza della parzialità, la sua mancanza. E’ questa la lezione che gli viene dalle Scritture, da una lunga meditazione del marxismo, dai maestri più prossimi, Lukács prima ancora dei Francofortesi, con cui dialoga, a proposito di poesia, nel libro baricentrico della sua saggistica, Verifica dei poteri (Il Saggiatore, “La Cultura”, pp. 360, € 24.00) adesso riproposto con una appassionata prefazione di Alberto Rollo.
Vi sono contenuti alcuni testi celeberrimi, da Astuti come colombe a Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, le pagine su Pasternak, Proust, Kafka, Brecht, ma è sintomatico come ancora nel 1969, introducendone la seconda edizione, titolo La poesia ‘regressiva’ e il rifiuto della letteratura, sentisse l’esigenza di concentrarsi sulla nozione di poesia e sul concetto di forma. Parlava allora a un pubblico fortemente ideologizzato, ai duri e puri della “pratica” rivoluzionaria o sedicente, a quanti, soprattutto giovani, ritenevano che tra la letteratura e la lotta di classe potessero soltanto intercorrere rapporti di evasione e/o di mistificazione. Parlava a tutti costoro ma parlava intanto a sé medesimo mentre veniva coniando l’immagine dell’uso formale della vita, vale a dire della poesia come gesto di riconciliazione spettrale tra vivi e morti, tra parti atrofiche e vive, tra mai-più e non-ancora, fra coscienza della parzialità ed esigenza di totalità nell’essere al mondo. Insomma sentiva la poesia come anticipazione o allegoria o (questa è proprio la parola-chiave che gli viene da Dante via Auerbach) come figura del comunismo. Scrive a un certo punto, in maniera persino accorata: “Quando parlo di uso formale della vita intendo la possibilità di dare, più che un ordine, una intenzione alla propria esistenza; è l’intenzione a riordinare il passato e il presente. Tale proposta ha avuto nella storia dell’Occidente greco-cristiano e poi in quella protestante-borghese, le caratteristiche di un dover-essere, di tipo – da due secoli almeno – idealistico. Ma tutte le formulazioni che rifiutavano le etiche coscienziali, la salvazione cristiana o l’universalismo kantiano, anche proponevano la tramutazione di tutti i valori, finivano pur con un savoir vivre, con una proposta di vita. Quella comunista – quando parla del libero sviluppo di ognuno e di tutti – non fa eccezione”. Tutto questo si riassume in emblema nel verso che suggella, in Composita solvantur (1994), la parabola poetica di Franco Fortini: Proteggete le nostre verità.
[Immagine: Sergej Ėjzenštejn, Ottobre, manifesto].
“ Giovedì 20 novembre 1997 – Sfogliando «Mario & Mario. Annuario di critica letteraria italiana e comparata», capisco che la scrittura saggistica, la « forma saggio », di cui tanto e tanto appassionatamente si occupò per esempio il mio quasi maestro Franco Fortini, è divenuta, alle soglie del Terzo Millennio, alle porte dell’Europa, sullo sfondo della Globalizzazione, nell’Italia della Accademizzazione diffusa, una cosa da premi, da zecchini d’oro, da giuramento delle reclute, da ballo delle debuttanti. Una cosa tenera e vecchiotta, una cosa « provincia », una piccola cosa di pessimo gusto… Ci vorrebbe un Gozzano, uno che – almeno un po’ – si vergognasse d’essere saggista. Ma non si vergogna nessuno. “.
Dal “comunismo interiore” all’accoppiata classica (anni Settanta) di “poesia e comunismo”. Torna Fortini su LPLC! ( Il comunismo non si sa…). Speriamo che non sia solo per scrivere articoli d’occasione sui due centenari (nascita di Franco e della Rivoluzione russa).
Il 1917 fu anche l’anno dell’apparizione della Madonna ai pastorelli di Fatima (Lucia dos Santos, monaca, morì nel 2005, quasi centenaria)… Ecco una parte del secondo segreto di Fatima, nel ricordo trascritto da suor Lucia: “Per impedire tutto questo, sono venuta a chiedere la Consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la comunione riparatrice nei primi sabati. Se ascolterete le Mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa; i buoni saranno martirizzati, il Santo Padre dovrà soffrire molto, diverse nazioni saranno annientate. Infine il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia che si convertirà, e sarà concesso al mondo qualche tempo di pace”… Direi: parole sante! E, col senno di poi, potrebbe dirlo anche un non credente… “Diffonderà i suoi errori nel mondo”, dunque non solo i tanti morti ammazzati da Stalin (compreso Mandel’štam) e in altri paesi comunisti ma anche quella nube cultural-tossica (e censoria) del comunismo francese e italiano; (anche se Togliatti – forse per una qualche illuminazione divina nell’abisso della sua coscienza – fu uno dei maggiori responsabili del mancato sganciamento costituzionale del nostro Stato dalla Chiesa Cattolica Romana). Quanto a Fortini, noto rilanci (soprattutto accademici); senza codesti, sarebbe forse trascurato e dimenticato dai lettori più giovani… Io l’ho sempre letto, sia come poeta che come critico o saggista: non mi dispiace ma neppure mi esalta… (Negli epigoni o imitatori è però insopportabile)… Una volta, Mario Luzi mi disse, a voce bassa e nella fenditura di un discorso più ampio: “Fortini? Sì, ma non credere che le sue poesie fossero poi chissà che!”… Talvolta, mi torna in mente quella esternazione luziana, buttata lì, di passaggio… E penso che Luzi avesse ragione… Brodskij, ricordando e «correggendo» un aneddoto di Auden, disse che Brecht non era stato un grande poeta… Dunque, come poteva esserlo Fortini che faceva di Brecht un suo alto e imprescindibile maestro? (In certi casi, l’allievo può superare il maestro, come Giotto con Cimabue, ma non mi pare il caso della coppia in questione).
Fortini ha scritto cose interessanti, sia in poesia che in altri ambiti ma non ritengo che sia stato un poeta al livello di Campana, Ungaretti, Montale, Penna, Luzi, Caproni, Sereni… Ed anche Pasolini (con il quale era stato in amicizia e in polemica) era più interessante di lui… Fortini era un ebreo intelligente che aspettava un Messia che non arrivava mai … Si illuse (come tanti) di vederlo nell’ideologia comunista e fu un eretico di quella Chiesa rossa…
@ Andrea Margiotta
Speriamo che la Madonna appaia anche a noi pastorelli d’oggi. Così le spieghiamo un po’ di cose sulla Russia di cui, nella sua immacolatezza, forse non era al corrente.
Se poi, assieme a lei, apparisse anche l’ombra di Luzi, potremmo approfittarne per spiegare – sempre “a voce bassa e nella fenditura di un discorso più ampio” – che sarebbe ora di smettere di seminar zizzania tra i poeti, ché ce n’è già troppa.
A lei invece io personalmente mi sento di dirle una sola cosa: sia meno pettegolo e studi di più.
SEGNALAZIONE
Per sfuggire ad ogni apologetica, per cogliere la *tragedia*, per non temere i denigratori della Rivoluzione russa pronti ad azzannarci con il loro “avete visto cosa hanno combinato i vostri rivoluzionari?”, per non edulcorare la coppia «poesia e comunismo» cui ha accennato Massimo Raffaelli parlando di Fortini…Sì, dobbiamo saperlo: le rivoluzioni *fanno male*. Ai poeti e non solo ai poeti. Ma anche a voler badare soltanto alla poesia, ci sarebbero stati questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?[E. A.]
Poesia e Rivoluzione
Ricordando Mandel’stam, Achmatova, Pasternak e gli altri: un’intervista a Serena Vitale in occasione del centenario.
A cura Nicolò Porcelluzzi
http://www.iltascabile.com/letterature/poesia-e-rivoluzione/
Stralci:
1.
Majakovskij, per esempio, aderì al bolscevismo, certo, ma per il resto il governo bolscevico fece strame di questi poeti, di questi letterati. Dopo la presa del potere, quando il nuovo soviet chiamò a raccolta gli intellettuali al Palazzo Smol’nyj si presentò solo Majakovskij. Per il resto fu un’ecatombe.
Quello che bisogna capire è che non fu l’oligarchia bolscevica al potere a perseguitare le avanguardie che ci affascinano tanto, il cubo-futurismo, l’acmeismo, e tutta quella fioritura straordinaria che la poesia europea forse non ha mai conosciuto, futurismo e surrealismo compresi; furono soprattutto i rappresentanti delle Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di questi intellettuali. Tentavano di insegnare a scrivere a Majakovskij, a Chlebnikov. Dobbiamo meravigliarci che siano sopravvissuti fino al Trenta. Considero la data della morte di Majakovskij come la fine simbolica dell’Avanguardia, una fine violenta. Non conosco nessuna grande letteratura che in dieci anni – questi favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci – abbia prodotto questa dozzina di geni, e di questi geni quasi nessuno è morto nel proprio letto. In Russia allo scrittore viene delegato un ruolo di guida, di maestro del pensiero, di espressione popolare che non ha pari nel mondo.
2.
Vuole che le dica come sono morti? Blok di quello che chiamo suicidio bianco, tentò di aderire alla rivoluzione ma non gli venne permesso di andare all’estero per curarsi, e morì così, inerte. Majakovskij, l’abbiamo detto, suicida [L’ultimo libro di Serena Vitale per Adelphi è Il defunto odiava i pettegolezzi]
3.
Esenin. Grandissimo poeta contadino, melodioso come solo la campagna russa poteva produrre, anche se non è il mio preferito. Anche lui inizialmente aderisce alla rivoluzione, per poi accorgersi che la campagna russa da lui idolatrata si trovava ancora peggio di prima. Un altro suicidio, da parte di un alcolizzato, un uomo che non riusciva a trovare il suo spazio. Mosca non lo capiva, Esenin dava scandalo, però la campagna di cui cantava era distrutta, la civiltà del treno lo ossessionava – la figura del teppista urbano nasce con lui.
4.
Pasternak. Pasternak è morto nel suo letto, ma tutti conoscono le persecuzioni che subì nell’ultima fase della sua vita. Durante gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione per un po’ tacque, scrisse le cose meravigliose di Mia sorella la vita, dove c’è una poesia in cui si affaccia dall’abbaino e chiede, “Compagni ditemi, che secolo c’è fuori?” e da qui si capisce il suo estraniarsi, il suo prendere le distanze. Aderì a un gruppo minore del cubo-futurismo, e fino agli anni Trenta lo lasciarono in pace. Stalin gli telefonò per chiedergli “ma Mandel’štam secondo lei è bravo?”, una di quelle telefonatine che faceva ogni tanto, l’orrore del potere. Però poi tacque, e sappiamo la storia di Zivago, le persecuzioni, più che personali rivolte verso le persone amate, come la seconda moglie finita in un lager. Gli resero la vita impossibile.
5.
Mandel’štam. Su Mandel’štam non so neanche cosa dire. Bastano le date, 1891 – 1938. Fu vittima prima dell’apartheid, una persecuzione, una negazione della sua esistenza che lo portò quasi alla pazzia, e… [sospira] Secondo me è stato il più grande poeta del secolo. Prima condannato, poi esiliato, poi morto in un lager. Veniva dall’acmeismo, un movimento nato nel 1912… Anzi già che ci siamo nominiamo Anna Achmatova. La più grande insieme a Mandel’štam, diventa grandissima quando il potere perseguita i suoi cari. Non l’hanno mai toccata personalmente –anche se aveva sempre il KGB praticamente in casa – però avevano toccato quello che le era più caro, gli uomini che amava, soprattutto il figlio. Requiem è un cantico meraviglioso dove lei da poetessa da camera si trasforma in voce eroica ed epica di tutta la Russia al femminile, quella che faceva le code davanti alle carceri per i figli, i mariti.
6.
Il Requiem è una cantata tragica come solo una madre poteva scrivere, anzi, come solo una donna poteva scrivere, sugli orrori delle repressioni.
7.
Gumilëv. Gumilëv, ucciso nel ’21. A quanti siamo arrivati, otto? Grande poeta acmeista che non ebbe il tempo di svilupparsi perché morì giovanissimo: venne accusato ingiustamente di un complotto monarchico. Il suo era un acmeismo in versione vitalistica, una poesia in cerca del primo giorno della Creazione. Cosa sarebbe diventato se non fosse morto a trent’anni, non è dato sapere.
8.
Chodasevic.
Un grande, vede, lo sto ripetendo in continuazione. [ridiamo] Costretto a emigrare, c’è anche da tenere presente questa enorme emorragia di forze che causò l’avanzare del bolscevismo. Se emigravano, emigravano a volte anche per caso, pensando di potere tornare, la prima ondata migratoria degli anni Venti era ancora incerta, non si capiva ancora cosa sarebbe successo. Però rimase lì, in Francia, e scrisse una poesia molto europea, La notte europea infatti, di un pessimismo assoluto ma di una fattura meravigliosa, classica. E siamo a nove. Ah, c’è la Cvetaeva.
9.
La Cvetaeva, è inutile parlarne, cosa dire ancora di lei? Il suo rapporto con la rivoluzione è molto complesso perché passa attraverso la figura del marito, controrivoluzionario.
Lo segue poi in Unione Sovietica dove morirà, non sappiamo come, probabilmente suicida. Appena era tornata in patria le avevano portato via la figlia, il marito. Ho una certezza che mi deriva da una lunga conoscenza di Marina Cvetaeva, che lei si sia uccisa il giorno in cui ha saputo che anche il marito non c’era più. Quando si trovava in condizioni terribili, durante l’evacuazione bellica, sono quasi sicura che venne a sapere della morte del marito; il rapporto di Cvetaeva con il regime bolscevico insomma è attraversato da questo amore enorme per il marito, un amore difficile da comprendere per noi, sapendo delle sue avventure amorose – Pasternak incluso. La persecuzione che ha subito è ormai di dominio pubblico.
10.
Credo di avere dimenticato un poeta poco conosciuto in Italia che è Zabolockij, di cui è stato tradotto – non impeccabilmente… – solo Colonne di piombo, poeta eccezionale. Fu colpito da una specie di nevrosi ossessiva, un uomo profondamente segnato nella psiche dalla repressione, distrutto dalla paranoia. Purtroppo non posso ancora dimostrarlo in italiano, ma un gigante.
11.
Charms e Vvedensky furono i creatori di questa versione russa dell’assurdo, del dada russo. Figura unica nel panorama letterario, Charms dopo il secondo arresto si finse pazzo per essere ricoverato e morì in un letto di fame, in un ospedale psichiatrico durante l’assedio di Leningrado. Lui e Vvedensky condividono un destino tragico, terribile. Bisognerebbe tradurre tutto quello che hanno scritto. C’è un unico problema: per vivere erano costretti a scrivere poesie per l’infanzia. La poesia per l’infanzia – che visse una tradizione meravigliosa in Russia – ha sfamato molti poeti, il problema è che le poesie per l’infanzia di Mandel’stam, Pasternak, Majakovskij eccetera non si possono tradurre perché come tutte queste poesie sono sempre al limite del limerick, del gioco di parole, si tratta di un patrimonio inaccessibile per l’Occidente.
12.
Klujev. Un altro poeta contadino. Poeta contadino, all’inizio blandito dal potere bolscevico che pensava di poterne sfruttare la naturale carica eretica, un’energia che c’era nella religione popolare, nelle sette eretiche russe, le sette rappresentate da Belyj ne Il colombo d’argento, per dire. La religione russa è sempre in odore di eresia e Lenin pensò addirittura di sfruttare questa energia, ma fu un idillio che durò pochissimo – le sette vennero castigate come la religione ufficiale, e Klujev muore in un lager nel 1937. Il suo russo è intraducibile, le sue radici antichissime.
13.
Pensi che abbiamo parlato solo di poeti; si immagini che galassia di scrittori, pensatori, fisici, matematici, quante le idee che scorrevano… è un’idea di geni, non possiamo farci niente.
14.
Oggi è il 7 novembre, considerato convenzionalmente come anniversario. Ho ripreso in mano una poesia di Majakovskij, si chiama 150.000.000, dove il poeta si immagina il centenario della rivoluzione, e scrive: “forse è il centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, forse è semplicemente un meraviglioso stato d’animo”. Cosa possono significare, per un russo, queste parole?
Niente. Non gli interessa niente. Tranne qualche superstite leninista magari… 150.000.000 fu giudicato da Lenin un libro per pazzi. Disse, non stampatene più di millecinquecento copie (o giù di lì), questo è un libro per pazzi. Un libro che in realtà glorificava l’evoluzione, e riflette un giovane Majakovskij che ancora non ha subito il verme della delusione.
@ Ennio Abate
la mia è sincerità, non pettegolezzo, visto che ho commentato pubblicamente, firmandomi… E Luzi (uomo amabile e poeta tra i maggiori del Novecento) esternava confidenzialmente, come avrebbe potuto fare un nonno a un nipote… Mi pare che Fortini frequentasse e stimasse Luzi, dunque si saranno chiariti tra loro, no? La cosa non mi tange… Cosa c’entra la zizzania se ho detto che Fortini non mi dispiace ma non mi esalta? E non sono neppure mai stato fortiniano come Berardinelli: che sia venuto a noia perfino a lui? E se avesse, nel tempo, mutato la sua Weltanschauung? No! Lei lo accusa di opportunismo etc. (Ha il ditino un po’ troppo puntato contro)… E tornando ai suoi “consigli” al sottoscritto: preferisce forse chi faccia il «taglia e cuci» o lo Jago in privato o chi manovri all’ombra delle fanciulle in fiore?
Molto interessante l’intervista a Serena Vitale (benché non poche cose mi fossero già note);
ma se aveva già messo il link all’articolo, perché ci ha inondato di stralci del medesimo, nel suo secondo commento?
E perché quel suo cappelletto in cima, che pare un «buttarsi avanti per non cadere indietro» o un «pararsi il culo preventivamente»? (con venature di cinismo macabro).
O è una qualche forma di esorcismo? Oltre ad essere un abate rosso sermocinante, vuole anche scacciare lo dimonio?
Inoltre, non mi pare proprio che l’articolo sia una difesa contro i «denigratori della rivoluzione russa»… E, a onor del vero (per citare Luzi) qui l’unico che denigra e deride è lei, con un’ironia da «tre soldi» (per citare Brecht)…
@ Andrea Margiotta
In tutta sincerità io pure. Non la conoscevo. Ho pensato che il commento fosse di un giovanotto rampante e ho risposto di getto. Soprattutto sul suo pistolotto mariano. Documentatomi con un clic su di lei («poeta, sceneggiatore e autore tv»), ritiro quell’invito stizzito che ho messo in coda.
Ora solo alcune precisazioni:
1. Su Fortini e Luzi (e Brecht) la pensiamo diversamente; e ci confronteremo, se si presentasse un’occasione, in modi più meditati;
2. Su Berardinelli. Non so cosa abbia letto di mio su di lui. Ma la sfido a trovare l’accusa di «opportunismo» nelle critiche che (da tempo: http://www.backupoli.altervista.org/IMG/Su_Berardinelli.pdf) e recentemente (https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/search/?query=berardinelli; https://www.facebook.com/groups/1632439070340925/search/?query=contro%20berardinelli)
gli ho mosso;
3. Articolo di Serena Vitale. Ha ragione: dovevo ricorrere ai link, invece che al frettoloso copia/incolla dalla mia bacheca FB di uno scritto decontestualizzato.
” Venerdì 10 novembre 2017 – Quando sul Venerdì trovo un articolo di Berardinelli su Fortini – è buffo che mi sia accorto solo oggi che c’era, oggi che è venerdì, cioè che è già tempo di comprare il Venerdì nuovo, perché, come ho già spiegato, il giornale io non lo compro più, eccezion fatta per il venerdì, perché il venerdì io lo compro, così poi lo leggo, durante la settimana, mentre faccio colazione etc. -, penso che io sono anche più stupido di quanto immaginassi. Sono stupido perché io – che non compro più il giornale, che sto per non pagare più la quota di iscrizione all’Ordine dei giornalisti, che del giornalismo penso tutto il peggio possibile, che, dopo tutti questi anni, sono diventato una specie di massmediopatologo, non è un errore, è che sono convinto che l’Informazione sia una malattia, piuttosto mortale etc. – non ho ancora capito che, qualunque cosa succeda, i giornali non olent. Cioè riuscire a scriverci sopra, ad apporre su quelle luride pagine la propria riverita firmetta, non fa schifo a nessuno, anzi. Del resto, già lo sapevo: « Lunedì 1 aprile 1996 – L’atteggiamento schifiltoso (di vantaggi), sprezzante (a fin di bene, a buon titolo), laconico (per amore della parola), severo (per tenerezza): sono tutte cose che, non solo non vanno di moda, ma portano decisamente sfiga. Da una ventina d’anni non solo il denaro non olet: non olent i premi, non olent i titoli, non olent le cattedre, non olent le case, non olent le vedove, non olent i voti, non olent i cani, i gatti, la Toscana, e il riuso. Ossia: tutto tremendamente puzza ma, nel declino dei sensi, l’odorato è il primo ad averci lasciato. E poi ci sono i deodoranti. ». Tant’è. Come direbbe un giornalista. Va anche detto che nel sunnominato Venerdì ho trovato anche qualcosa che, peggio per me, non sapevo: che Irene Brin si chiamava in realtà Maria Rossi. Il che, a mio avviso, dimostra soltanto che in Italia i Rossi sono sempre stati tanti. Anche quando l’Italia era nera etc. “