di Daniela Brogi

[Da oggi è in sale il film vincitore della Palma d’Oro all’ultima edizione del Festival di Cannes. Riproponiamo la recensione scritta da Daniela Brogi].

Poteva andare peggio: invece che a The Square, la Palma d’Oro avrebbe potuto essere stata attribuita a opere molto meno meritevoli, come, per esempio, L’amant double, di François Ozon, o Happy End, di Michael Haneke, o Aus dem nichts / In the fade, di Fatih Akin. È stato premiato, invece, un film che scardina la logica del racconto e della visione per costruire una storia che si nutre, anzitutto, di cinema: come capacità di inventare attraverso prospettive nuove, o usi originali della macchina da presa; o, ancora, per via di azioni orientate sulla sorpresa, e sceneggiature lavorate: magari per essere sgangherate, per lasciare, cioè, l’effetto di una rappresentazione vulnerata, scombinata.

Realizzato dal regista svedese che due anni fa, sempre a Cannes, aveva vinto nella sezione “Un certain regard” con il film Forza maggiore, The Square non ha una storia forte, anzi aggredisce l’illusione dell’individualismo come forma piena di racconto delle vicende umane, perché si serve di un personaggio centrale, Christian (Claes Bang), il direttore di un prestigioso museo svedese di arte contemporanea, per allestire intorno a questa specie di protagonista mancato – vale a dire intorno alle disavventure provocate dal furto di un cellulare, ai suoi colloqui con gli artisti, alle sue relazioni sessuali, attorno al rapporto con le sue bimbe – non una parabola unilineare, ma, piuttosto, un quadro comportamentale collettivo, un ambiente umano complessivo disturbato e disturbante. Il film, difatti, è composto da tante situazioni grottesche che rimandano alla “piazza” richiamata dal titolo non solo come spazio, ma come segno, come forma di situazione e di esperienza:

Le scene che si susseguono – ora coi dialoghi, ora sotto forma di scene stranianti, o di situazioni spinte oltre il colmo della serietà, anche attraverso le inquadrature, vengono puntualmente portate fino a un punto paradossale di rappresentazione per essere fatte collassare. Come mostra già uno dei primi momenti – quando Christian è intervistato da una giornalista americana (Anne: Elizabeth Moss), che gli rilegge alcune dichiarazioni che l’uomo ha fatto ma di cui non sa più ritrovare un senso, l’armonia tra le parole e le cose è smentita, fatta precipitate. Ogni tipo di logica che rimandi a un principio di responsabilità intersoggettiva è buttato giù, colpendo idiosincraticamente i suoi simboli, come succede al monumento equestre che, all’inizio di The Square, sarà rimpiazzato da un quadrato scavato nel porfido tracciato da una perimetrazione luminosa, e indicato dal suo artista come «un santuario di fiducia e altruismo». «Al suo interno tutti condividiamo uguali diritti e doveri»– spiega Christian in una conferenza stampa a cui partecipano un pubblico sorridente ma, al fondo, unicamente interessate al Buffet

The Square, si diceva, recupera tutte le simbologie più forti sprigionate dalla piazza, per rovesciarle: si potrà trattare della piazza come campo di rappresentazione della memoria e di messa alla prova dello statuto dell’arte; o della piazza come centro di socialità, luogo dove la comunità si rinsalda attorno a un patto di fiducia e di condivisione dell’idea di giustizia – categorie, entrambe, che verrano smentite già in attacco del film, quando Christian sarà derubato proprio in un momento in cui era convinto di aver aiutato dei passanti. “Mi fido” / “Non mi fido” dicono ironicamente due bottoni di una istallazione dentro il Museo.

Ma la piazza, come orizzonte polisemico di tutti i significati messi in campo dal film, è pure il luogo della presa di parola pubblica, e contro questa valenza lavora, per esempio, la scena della conferenza stampa di un artista continuamente interrotta da un uomo seduto tra il pubblico e affetto da disturbi patologici di irruzione improvvisa di tic fonatori e muscolari incontrollati.
La piazza, che è stata, per secoli, il centro, la garanzia della presenza di un centro, sarà messa in disparte, narrativamente, dall’incursione di Christian in un quartiere di periferia, che funziona, simbolicamente, come il mondo circostante, il non luogo che improvvisamente conquista spazio e da cui scappa fuori il perturbante: sarà un bambino che si mette a perseguitare Christian e di cui poi si perderanno le tracce.
La piazza è la casa della civiltà, e dei suoi feticci, che saranno esposti e attaccati con violenza nella scena più bella del film, dove un uomo-scimmia scavalca i limiti della propria performance, facendo esplodere l’illusione di controllo e di dominio di Prospero su Calibano.
È il luogo dove, un tempo, ancora giocavano i bambini – che saranno fatti esplodere dalla videoistallazione preparata per “The Square” (già si è parlato di come il cinema portato a Cannes 70 ripetutamente, come accade in una metafora insistita, abbia raccontato bambini rimasti senza posto, spiazzati).
The Square è un film apparentemente sconclusionato ma per niente superficiale che ci parla, tenendo assieme provocazione e intrattenimento, delle responsabilità individuali e civili che possono essere implicate dagli spazi pubblici. L’opera di Östlund sa far vedere come il risentimento, l’insofferenza del prossimo (in quanto incapacità di gestire tutto ciò che ci vive accanto ma è altro) agiscano spesso come tic incontrollabili, come condizioni non più reattive, ma sempre più autonome e capaci di esistere a parte: non in tensione con il mondo, ma come mondi paralleli. Mentre lo spazio simbolico della piazza si è trasformato, di conseguenza, nel campo d’azione e di espressione di tante singole paranoie. Un po’ come quei mucchi di cenere allineati in una sala espositiva del Museo e sormontati dal titolo “You Have Nothing”.


 

[Immagine: The Square © Magnolia Pictures]

 

1 thought on “The Square (Ruben Östlund)

  1. Chiedo senza ironia se la recensione voglia imitare il grottesco del film. Il periodo che si conclude con “…per via di azioni orientate sulla sorpresa, e sceneggiature lavorate: magari per essere sgangherate, per lasciare, cioè, l’effetto di una rappresentazione vulnerata, scombinata” sembra imitare la confusione linguistica e logica di cui viene imputato Christian, il protagonista, nell’intervista con cui si apre il film. “Ogni tipo di logica che rimandi a un principio di responsabilità intersoggettiva è buttato giù, colpendo idiosincraticamente i suoi simboli”: ammesso che davvero Ostlund, invece di fare l’ennesima imitazione del film d’autore che deve sfondare nelle mostre internazionali, riesca a far questo, deve farlo anche la recensione? Associare, ad un film che strizza l’occhiolino facendo la supercazzola al quadrato, ossia la supercazzola della supercazzola, un’altra supercazzola? Si vede bene che il regista vuol solo alludere senza approfondire, accennare ed ammiccare, perchè vuole parlare ad un pubblico di massa dei triti temi del vivere sociale odierno illudendolo d’essere saggio. Due ore e venti perchè altrimenti i luoghi comuni non diventano D’AUTORE (che poi è mimesi di Sorrentino che è mimesi di Fellini che è mimesi etc), non un’ora di meno, altrimenti ridiamo senza correttezza paludata. Meglio chiamare il tourettiano che urla sconcezze (“figa mosciiiaaa!”), uno “affetto da disturbi patologici di irruzione improvvisa di tic fonatori e muscolari incontrollati.” Ah, ah!

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