di Maria Anna Mariani

[I brani che seguono sono tratti dal capitolo iniziale di un libro uscito in questi giorni, Sull’autobiografia contemporanea di Maria Anna Mariani (Carocci, Roma 2011). Intrecciando letteratura e filosofia, Mariani propone una nuova teoria della scrittura autobiografica e dei suoi paradossi moderni. Raccontare la propria vita, scrive Mariani, è un gesto intellettuale solo apparentemente ovvio; in realtà i suoi presupposti sono sempre problematici. Il più importante è questo: l’oggetto del racconto autobiografico, la vita passata, non esiste più: al suo posto esiste la facoltà mobile, plastica e ambigua della memoria. L’autobiografo pretende di custodire la verità di ciò che è accaduto e di sancire la differenza fra il racconto di pura finzione, che si presenta al lettore come inventato, e il racconto autobiografico, che si presenta come ‘vero’, come radicato nell’esperienza vissuta. E tuttavia la memoria funziona solo perché attribuisce una forma definita a ciò che non ha forma, selezionando il passato e assicurando alla vita trascorsa un ordine che la vita, in sé, non possiede. Questo paradosso, implicito in ogni scrittura autobiografica, deflagra nel Novecento, il secolo aperto da Bergson e da Proust. Nel capitolo iniziale e finale del libro, Mariani indaga il problema teorico confrontandosi con le opere di Ricoeur, Deleuze e Didi-Huberman; i capitoli centrali sono dedicati ad alcuni autori decisivi per lo sviluppo dell’autobiografia contemporanea: Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice Munro e Primo Levi (gm)].

I. 1. Auto-bio-grafia

Auto-bio-grafia: una prima persona parla di sé (autos); racconta la propria vita (bios) usando il medium della scrittura (graphia). Questa è la più immediata definizione di autobiografia, ottenuta scomponendo la stringa del nome nei suoi elementi costitutivi.[1] Le tre componenti corrispondono ai problemi posti dal genere e alle critiche che lo accompagnano: le insidie della prima persona, che non può conoscere se stessa; l’incompiutezza e l’inafferrabilità della vita, che è informe e acquista un senso compiuto solo dopo la sua fine; la menzogna legata alla scrittura, che falsifica l’esperienza traducendola in linguaggio.

Ma questo elenco problematico è incompleto, così come la definizione sopra trascritta. Perché la vita, in sé, non esiste. Un’autobiografia non racconta direttamente la vita passata di un individuo. Il passato è un oggetto perduto. Ma non completamente: esiste ciò che ne conserva le tracce e permette in qualche modo di ricostruirlo. Si tratta dei documenti e della memoria: è interrogandoli che si va alla ricerca del tempo perduto. Mentre però i documenti sono dati inerti, e aspettano che qualcuno sia in grado di decifrarli e criticarli, la memoria è una struttura vivente e interpretante. I primi sono il materiale privilegiato dallo storico, la seconda è il materiale pressoché esclusivo dell’autobiografo. Leggendo un’autobiografia ci si trova di fronte allora non alla vita passata di un individuo, ma a quel che della vita passata si è conservato nella sua memoria, in questa facoltà mutevole e viva. L’autobiografia è il racconto della memoria che un individuo ha della propria vita.

Un problema sotterraneo si aggiunge così ai tre che inquietano il genere alla superficie. Perché la memoria ha un rapporto paradossale con il passato: pretende di custodirlo – e intanto non fa altro che deformarlo.[2] I ricordi non restano infatti immutati nel tempo ma vengono modificati a ogni nuova evocazione. Pur essendo consapevoli dell’inaffidabilità della memoria, si continua però a rimproverarla di inganno, perché la sua mira è la restituzione esatta del passato, dell’oggetto perduto al quale giura fedeltà. Questo voto etico, questa promessa di fedeltà al tempo che non è più e che si è incaricata di trasmettere, è la pretesa veritativa della memoria: il criterio che permette di separarla dall’immaginazione.

[…]

I. 3. Il dramma dei problemi

L’io non è una sostanza immutabile: è un deposito dove i ricordi, queste esperienze sprofondate nel tempo, si accumulano e si sedimentano. Quando vengono sollecitati riemergono, si allineano e danno un senso alle nostre esperienze: perché siamo diventati così come siamo e quale immagine di noi vorremmo proiettare avanti negli anni? Mentre con la memoria recuperiamo i nostri ieri, capiamo chi siamo diventati oggi e che cosa faremo domani. Ricordando, leghiamo insieme passato, presente e futuro, ed è così che diamo un senso alla nostra esistenza.

Dare un senso alla propria esistenza: ecco profilarsi uno degli obiettivi principali della scrittura autobiografica, forse il suo più potente impulso sorgivo. E, insieme a esso, ecco avanzare uno dei problemi più delicati posti dal genere: l’impossibilità di accedere alla propria totalità esistenziale. Come dare un senso compiuto alla propria vita se non è ancora finita? Come pretendere di farsi giudici di se stessi prima della fine? Il problema di bios è eticamente il più grave per l’autobiografia e assume qui le sembianze di una violenza interpretativa, perché pretende di imporre l’ordine di un discorso alla materia incompiuta del vissuto.

Solo la morte può conferire una forma definitiva alla vita. E contro questa legge l’autobiografo protesta molto debolmente, perché è in grado di imporre alle proprie esperienze una forma che è soltanto provvisoria, modellata attraverso il dialogo con la propria memoria. È una forma plasmata dal contatto tra il bilancio del passato e l’orizzonte delle attese.[3] Ma non è un montaggio definitivo. L’autobiografia non rivela l’ultimo istante e non si scrive dall’ultimo istante. Ricalca gli andirivieni del ricordare e si scrive al presente: dal presente riapre il passato e dal presente slitta verso il futuro.

L’unica cosa certa del futuro è la morte. È lei l’orizzonte di attesa inevitabile. «La morte è il supremo avvenire e il futuro di tutti i futuri».[4] È la legge universale di ogni vita, eppure stupisce sempre: l’uomo «si prepara per essere sorpreso dalla cosa meno sorprendente del mondo».[5] Il soggetto di un’autobiografia non fa eccezione. Non si immagina postumo. Pensa pur sempre la morte dall’al di qua, come futura: non intende anticiparla. Il suo presente può essere inquieto perché minacciato dal limite. Ma l’ora della morte – l’ora del necrologio[6] – è sempre da venire. «La frontiera letale è elastica e fluttuante» e il tempo in cui l’individuo ricorda e scrive rimane «il tempo semi-aperto della vita».[7] Ricordare, e scrivere, sono ancora delle avventure.

[…]

I. 4 Come funziona la memoria

La memoria non fissa tutti gli eventi dei quali si è testimoni. Sarebbe impossibile ricordare tutto. L’azione della memoria si svolge in stretta collaborazione con l’azione dell’oblio.[8] Si tende sempre a dimenticare l’oblio: è la sua colonia penale, la condanna incisa sulla pelle del suo nome. Per alleviargli qualche istante la pena – una tregua che gli renda giustizia – si può dire che l’oblio non è solo ciò che si dimentica, ma anche ciò che non viene fissato, disperdendosi per sempre. Così come esiste una fissazione e un richiamo del ricordo, esiste parallelamente una mancata fissazione e un’impossibilità o un offuscamento del richiamo. La prassi linguistica tende a far dimenticare questo doppio lavoro, scindendo nettamente i termini memoria e oblio – spingendo l’una sul polo positivo; l’altro sul polo negativo (le metafore hanno un carico di responsabilità non indifferente al proposito): come se fossero il raddoppiamento esatto dell’opposizione conservazione-cancellazione. In realtà ogni atto di memoria comporta questo doppio movimento, in cui si amalgamano scelta razionale, cura biologica ed emotività. Che cosa sarebbe dunque, in definitiva, un atto di memoria? Una selezione naturale del tempo, che integra l’oblio al lavoro della fissazione del ricordo. Selezione naturale che prepara una selezione successiva, quella artificiale operata dal racconto. Come per ricordare è necessario dimenticare, per raccontare è necessario omettere.

[…]

1. 5 Autobiografie contemporanee

In questo libro si analizzano quattro autobiografie: di Nathalie Sarraute, di Elias Canetti, di Alice Munro, di Primo Levi. Gli esempi scelti rappresentano un campionario ristretto ma ben differenziato quanto a lingua, stile, struttura, genere; eppure non si tenta di confrontarli tra loro, di avvolgerli in una trama comparativa. Si è già detto che è la memoria, intesa come oggetto e soggetto di racconto, la caratteristica capace di radunarli in una famiglia. A questo punto si tratta di analizzare ogni autobiografia come una monade, rispettando l’impulso sorgivo di questa forma: la rivendicazione di un’esistenza singolare. A ogni autore viene così dedicato un capitolo autonomo, in cui si sviluppa un discorso critico costruito su misura, un responsorio personale.

Pur restando inquadrato nella logica del singolo autore, ciascun capitolo è focalizzato sul problema di memoria-racconto e ne mostra alcune facce. Sarraute osserva i ricordi nell’istante in cui si fissano, palpandoli col linguaggio. E si dibatte contro il sentimento di identità. Dov’è l’io? Provate a cercarlo: è polverizzato in una massa di simulacri che solo la memoria riesce a radunare. Canetti afferma che ricordare salva il passato. Lo vuole salvare per intero, compresi i fallimenti, gli errori, gli sperperi. Crede che la memoria sia l’unica forma di sopravvivenza senza trionfo e senza violenza. E ne fa l’antidoto che gli permette di sopportare una sopravvivenza ben diversa, vergognosa e colpevole: quella del corpo invecchiato. Munro osserva tutti i paradossi della memoria, sfruttandone le promesse e i tradimenti come discrimine tra fiction e non fiction. Scrive da una soglia critica della propria esistenza, ma non pretende di operare un montaggio definitivo del vissuto. Insegue gli andirivieni del ricordare: passato e futuro, avanti e indietro, archivio e profezia. L’intera opera di Primo Levi è il racconto, frantumato in testi diversi, della memoria di un trauma. È un ricordare talmente indolenzito che non riesce a tenere insieme i vari pezzi dell’io. La prima persona è abolita, convertita in ‘noi’, un pronome plurale che rende giustizia ai sommersi della storia, ereditandone la parola. Ma è un ‘noi’ che non smette di sentirsi incompleto e fragile.

Tutti i testi qui trattati appartengono alla seconda metà del Novecento. La memoria è il tema dominante del paradigma discorsivo nel quale siamo immersi. È vero che l’ossessione nei suoi confronti inizia con il nodo Bergson-Proust, e dunque nel primo Novecento, ma è dalla seconda metà del secolo che si impone una cesura epocale nella riflessione. È la Shoah che affetta il nostro paradigma. A partire da questo momento il ricordare diventa un dovere umano declinato all’imperativo, Zakhor. E la necessità di trasmissione dell’esperienza si gonfia: il secondo Novecento è l’era del testimone. Ma è anche l’era in cui la cultura del narcisismo[9] e l’espressivismo[10] dilagano: «vivi all’altezza della tua originalità», «esprimi te stesso» – ecco gli altri due comandamenti che governano le autobiografie contemporanee. Protestazioni di singolarità: testi che non formano un corpus, sono solo qualche corpo.


[1] Come fa Georges Gusdorf in Auto-bio-graphie, Odile Jacob, Paris 1991.

[2] Questo, insieme ad altri aspetti problematici della memoria (come la memoria collettiva e gli abusi di memoria) è affrontato da Paul Ricœur in Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, Bologna 2004 [1998].

[3] Cfr. R. Koselleck, Futuro-passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986 [1979].

[4] V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino 2009 [1977], p. 50.

[5] Ivi, p. 12.

[6] Per narrare la propria autobiografia (Les Mots, Gallimard, Paris 1964) Sartre afferma di essersi dovuto trasformare nel necrologio di se stesso. Ma essere d’accordo con Sartre significa concepire la scrittura della vita da una postura imbalsamata, che si svolge in un tempo puramente retrospettivo: immutabile. Invece l’autobiografia si scrive nel tempo della rammemorazione, che è vivo e cangiante. E che fugge anche in avanti.

[7] Ivi, p. 178.

[8] Il tema dell’oblio meriterebbe una trattazione a parte. Trattazione che esiste: si tratta di Lete. Arte e critica dell’oblio di H. Weinrich [trad. it.: Il Mulino, Bologna 1999]. Qui non si potrebbe far altro che svilirla in bignami: si preferisce rinviare alla lettura integrale. Anche Ricœur ha dedicato molte pagine all’oblio, attraversate dalla meditazione sulla Seconda inattuale di Nietzsche: «non ci si può ricordare di tutto. Una memoria senza lacune sarebbe, per la coscienza desta, un fardello insopportabile» (P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., p. 106. Cfr. anche La memoria, la storia, l’oblio, cit.).

[9] Cfr. Ch. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1999 [1978].

[10] Cfr. Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Milano, Feltrinelli 1993 [1989].

 

[Immagine: Ilse Bing, Autoritratto negli specchi (1931), particolare (gm)].

4 thoughts on “Una teoria dell’autobiografia

  1. Intanto grazie per la segnalazione, il libro mi era sfuggito. L’argomento è decisivo, se è vero che, come diceva Joyce, chi scrive, di qualunque cosa scriva, non può che scrivere di sé.

  2. Questo approccio di esplorazione teorica, e analitica, alla scrittura autobiografica mi sembra un originale prospetto di studio. Mi interessa approfondirne l’argomentazione.

  3. Grazie per la segnalazione. E’ un argomento che ultimamente mi sta molto interessando e coinvolgendo. Un saluto, Lucianna

  4. Grazie per la segnalazione e la citazione di alcuni brani del saggio in uscita per Carocci! Ci sono molti spunti che ritengo molto rilevanti, anche se un maggiore interesse per le autobiografie non canoniche e/o per le autobiografie che vengono liquidate come “testimonianze sociologiche” (penso ai testi della letteratura migrante, per esempio) potrebbe giovare. Rinvio però ogni dubbio a lettura avvenuta, per il momento…
    lm

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