di Andrea Cortellessa
[È in uscita da DeriveApprodi il terzo volume dell’Almanacco annuale di «alfabeta2», a cura di Nanni Balestrini, Maria Teresa Carbone e Andrea Cortellessa. Come nei numeri precedenti, a una «Cronaca di un anno» che raccoglie una selezione dei materiali pubblicati sul sito nell’annata 2016-2017, viene premessa una sezione monografica composta da pezzi scritti per l’occasione, quest’anno dedicata a La rivoluzione turistica, a partire dal libro di Marco d’Eramo Il selfie del mondo: la sezione si apre con un’intervista di Lucia Tozzi allo stesso d’Eramo. La pubblicazione verrà presentata a Milano sabato 18 alle 17.30, nell’ambito di Bookcity, da Mudima (Via Tadino 26), con la partecipazione di Marco d’Eramo, Marco Dotti, Manuela Gandini e Francesca Pasini (alle quali si deve il corredo iconografico), Marco Scotini e Lucia Tozzi; e a Roma venerdì 24 alle 21, al Cinema Palazzo di San Lorenzo (Piazza dei Sanniti 9A), nell’ambito del secondo Festival di DeriveApprodi, con la partecipazione di Maria Teresa Carbone e Andrea Cortellessa e di Antonella Sbrilli, che condurrà un gioco alfaturistico con la partecipazione del pubblico. Seguirà un reading poetico con le letture di Mariano Bàino, Nanni Balestrini, Elisa Davoglio, Sara Davidovics, Carmen Gallo, Jonida Prifti, Lidia Riviello, Sara Ventroni e Michele Zaffarano. Anticipiamo qui, dei materiali dell’Almanacco, il pezzo di Andrea Cortellessa].
Perché ci inquieta tanto che la mappa sia compresa nella mappa e le mille e una notte nel libro delle Mille e una notte? Perché ci inquieta che don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte, e Amleto, spettatore dell’Amleto? Credo di aver trovato la causa: tali invenzioni suggeriscono che se i caratteri di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere fittizî.
Borges
Un museo è un museo è un museo… In quella primavera del 2005 la mia visita a San Francisco, pianificata da anni, stava andando a rotoli. Tanto mi ero trovato a mio agio nella Los Angeles meravigliosamente senza qualità quanto la città rivale, con tutta la sua aura, dal vivo mi si mostrava ostile. Tutto, di lei, spiaceva al mio corpo. A partire dalle inverosimili salite e dal clima ancora più inverosimile (dal quale nessuna lettura preliminare potrà mai mettere abbastanza in guardia). Ma, soprattutto, colla sua sfrontata ostinazione a spaesarmi. La città era “bella”, chi lo nega. Pittoresca. Cristallizzata nella cartolina di se stessa come, per dire, l’insopportabile Venezia. Ma, a dispetto di tale immobilità apparente, in quella città non mi riusciva di riconoscere niente. Nulla, voglio dire, mi faceva incontrare il fantasma che stavo inseguendo: il fantasma di Vertigo, ovviamente.
Mi ero preparato bene, o così credevo: preparandomi, cioè, il meno possibile. Mi ero detto che dovevo guardarmi dall’andare apposta nei luoghi del film; che mi ci sarei dovuto imbattere “per caso”, invece, lasciandomi andare alla più nonchalante serendipity, e far così lampeggiare la sospirata madeleine quando meno me la sarei aspettata. Solo in questo modo avrei potuto riprodurre l’andatura rizomatica di James Stewart, il suo «oziare» (il libro di un amico, Paolo Marocco, mi aveva fatto notare come l’inizio dei suoi guai, ma anche della sua quête suprema, fosse dovuto all’aver perso il proprio lavoro: con l’incidente che gli procura le vertigini del titolo, appunto). Non avrei fatto il cineturista, insomma. Niente baedeker, e soprattutto niente macchina fotografica al seguito (allora i cellulari non avevano questa funzione, o comunque non ce l’aveva il mio nokietto da 49 euro).
Per la verità a quel tempo non ero neppure sfiorato dal sospetto che esistesse, o sarebbe mai esistito, qualcosa come il «cineturismo» (il quale – scopro ora, invece – ha anche il suo bravo portale web, che spiega come oltre cento milioni di viaggiatori l’anno – ma come sarà stata prodotta, una simile statistica? – abbinino la loro vacanza alla ricerca di almeno un set cinematografico); né immaginavo che su questa branca merceologica della «più importante industria del secolo» (come Marco d’Eramo definisce il turismo) sarebbero usciti interi libri (come quello recente di Oscar Iarussi sui set italiani, o la guida di Jeff Kraft e Aaron Leventhal, appunto sulla San Francisco di Hitchcock: la prossima volta, col cavolo che evito di portarmi gli indirizzi esatti… mi porto dietro anzi direttamente, malgrado l’ingombrante fuoriformato, l’atlante di Rebecca Solnit). Mi compiacevo di pensare che quel mio pellegrinare fosse una grande originalata (naturalmente sarebbe stato scritto, alla fine, un libro pure sul «pellegrinaggio», sic, sui luoghi di Vertigo).
Un controsenso, se ce n’è uno, pretendere di essere «originali» in questa mise en abîme per eccellenza che è il ripercorrere i passi di un personaggio – John «Scottie» Ferguson, cioè James Stewart – il quale segue passo passo un altro personaggio – Judy Barton, cioè Kim Novak – che interpreta un altro personaggio – Madeleine Elster – il quale, nell’inganno ordito da un altro personaggio – il marito di Madeleine, Gavin Elster, cioè Tom Helmore, che ha macchinato tutta questa labirintica finzione al fine di liberarsi della moglie, nel delitto più contorto che si possa immaginare –, si finge stia a sua volta ripercorrendo i passi di un altro personaggio – Carlotta Valdés, la bisnonna suicida un secolo prima – la cui unica traccia è un ritratto conservato in un museo. Scena fra tutte vertiginosa della prima parte del film, infatti, è quella in cui Scottie, dopo aver seguito in auto la lentissima promenade della presunta Madeleine (in realtà Judy, appunto) su e giù per tutti i maledetti su e giù di San Francisco, la osserva di spalle mentre, seduta su un panchetto del museo in questione, contempla «allo specchio» il ritratto della (presunta) progenitrice. La macchina da presa, cioè gli occhi di Scottie, inquadra il dipinto soffermandosi sullo chignon di Carlotta, poi si sposta sull’acconciatura di «Madeleine», per scoprire che è ornata dallo stesso ricciolo-vortice-abisso: quello che i titoli di testa del grande Saul Bass, all’inizio, avevano «tradotto» in un disegno geometrico astratto. Che ora, finalmente, riconosciamo.
Dunque noi spettatori, guardando il film, osserviamo Hitchcock che riprende Jimmy, che interpreta Scottie, che spia Kim, che interpreta Judy, che simula di essere Madeleine, che contempla (l’immagine di) Carlotta. Nella seconda parte del film, come si ricorderà, il gioco di specchi si complica ulteriormente: dopo la morte inscenata della falsa Madeleine (che servirebbe a occultare quella della vera moglie di Elster), Scottie s’imbatte in Judy, ormai fuori dal «personaggio», e metodicamente, perversamente, si ostina a trasformarla nel fantasma della donna perduta. Che crede di aver perduto, cioè, e invece ha «davvero» ritrovato (l’allusione a Proust – piuttosto banale nel romanzo dei mestieranti Boileau & Narcejac, che leggenda vuole avessero scritto apposta per piacere a Hitchcok – non mi pare tanto nelle sue corde, invece). Come divertito dirà Hitchcock a Truffaut, infatti, Scottie crede che Judy assomigli a Madeleine, e si sforza di farla somigliare a lei il più possibile. La «verità», invece, è che Judy è Madeleine: sicché la perversione di Scottie è una perversione al quadrato (nonché una perversione che si svuota dall’interno).
Così rinasce il mito di Pigmalione, come ha mostrato in un suo splendido saggio Victor Stoichita; ma in effetti si mette in scena il meccanismo del film stesso, in una mise en abîme da manuale, nonché ben più complessa (e perversa) di quanto reciti la vulgata. Nei piani di Hitchcock infatti non era Grace Kelly (la quale ormai da un paio d’anni, dopo le nozze con Ranieri di Monaco, aveva lasciato irrevocabilmente il set) che avrebbe dovuto incarnare lo spettro di Madeleine, bensì Vera Miles: che, l’anno prima, aveva interpretato The Wrong Man al fianco di Henry Fonda. L’attrice però, alla vigilia delle riprese, rimase incinta di Gordon Scott (a posteriori, ferito e perfido, dirà Hitch che, per non perdere la parte della sua vita, Vera avrebbe fatto meglio a prendere una «pillola anti Tarzan»; l’anno prima di Vertigo, infatti, Scott aveva interpretato il primo Tarzan a colori…). Così Kim Novak fu appunto la terza donna: Vera avrebbe dovuto essere il fantasma di Grace, e invece Kim sarà il fantasma dell’una e dell’altra (se poi, all’inizio di questa catena spettrale, non si debba porre la bionda archetipica, la prima musa dell’Hitchcock anni Trenta, cioè Madeleine Carroll…).
Un gioco di specchi senza fine, che dà – appunto – le vertigini (non so perché quasi nessuno abbia tradotto alla lettera il bellissimo titolo di Hitchcock, in francese per esempio è un anodino Suers froides, «sudori freddi»; il nostro La donna che visse due volte, poi, è addirittura fuorviante perché la «donna» in questione, come s’è visto, «vive» – almeno – tre volte). Sicché i mille omaggi, le mille citazioni esplicite o meno che di Vertigo sono state fatte dai cineasti postmoderni a venire, risultano tanto seducenti quanto, a ben vedere, tautologici. Esattamente come quel mio viaggio, appunto. (Farei un’eccezione per Feature Film di Douglas Gordon, in cui l’artista – che deve la sua fama a un altro Hitchcock expanded, 24 Hours Psycho – per «rifare» Vertigo omette accuratamente di mostrarne le immagini: evocandole in absentia attraverso la musica di Bernhard Herrmann.) Del resto che le mie ossessioni di allora (come, temo, tutte le mie ossessioni) fossero alquanto banali, lo dimostra il fatto che dal 2012 Vertigo abbia scalzato Citizen Kane di Welles – che deteneva il primato da cinquant’anni – dal primo posto del sondaggio di Sight and Sound come «miglior film di sempre».
Alla fine, a parte l’ovvio Golden Gate (ai cui piedi Judy, per meglio intortare Scottie, mette in scena un finto tentativo di suicidio, cioè un finto re-enactement di quello di Carlotta, al fine di rendere poi più credibile quello, a sua volta simulato ma da Elster, che serve a mascherare l’effettivo omicidio della vera Madeleine), un unico luogo riuscii a riconoscere, nella San Francisco del 2005, della San Francisco del 1958. Per trovarlo, alla fine dovetti contravvenire alle regole che mi ero dato: mi misi cioè a cercare, sulla mappa della città, l’indirizzo del luogo più iconico e incontournable del film (anche perché per motivi diversi non erano disponibili gli altri tre luoghi-chiave: il Parco delle Sequoie – dove Judy-Madeleine pronuncia le sue battute più memorabili, ma le cui riprese le fonti localizzano in almeno tre luoghi diversi –; la Missione San Juan Batista, che si trova a decine di chilometri dalla città – e nelle cui vicinanze, a Scotts Valley, Hitch aveva un suo buen retiro – ma il cui campanile – dove si consuma la doppia morte di Madeleine-Judy – le fu giustapposto in sede di montaggio grazie a un effetto speciale; e soprattutto l’Hotel Empire – dove Scottie plasma il suo feticcio, e in una luce verde da incubo Judy-Madeleine, come dirà Hitchcock a Truffaut, «torna veramente dal regno dei morti» –: che mi rifiutavo di andare a visitare, scandalizzato dalla buzzurraggine di chi l’aveva ribattezzato «Vertigo Hotel»).
Giusto così. Perché quel luogo è il Museo dove si crea per la prima volta l’abîme, la vertigine del film: quando Scottie, come si diceva, spia Judy, che egli crede sia Madeleine che crede di rispecchiarsi in Carlotta. Si tratta del Legion of Honor Palace, che ospita parte della collezione dei Fine Arts Museums of San Francisco (FAMSF: un acronimo, per noi italiani, proprio da fantasmi), e che si trova sulla costa Nord Ovest della città, non distante dal Presidio dove campeggia il Golden Gate.
Il luogo, per una volta, era pressoché intatto. Quasi perfettamente identico, cioè, alle immagini che avevo stampate nella memoria. Ma, anche lì, ero destinato a una frustrazione. Faccio finta di niente, mentre mi aggiro nelle sale con la solita pretesa serendipity. Do un’occhiata distratta ai Rembrandt agli El Greco ai Monet. In realtà quello che sto facendo, e più passa il tempo con distrazione sempre meno credibile, è cercare il quadro inquadrato dal film, Beautiful Carlotta. Anche se non avevo contezza dell’interessante bibliografia al riguardo, mi pareva evidente che la scelta di quella location fosse da attribuirsi alla connoisseurship artistica di Hitchcock. E dunque il quadro del film doveva senz’altro essere un quadro reale, “citato” nel film. Quel quadro invece, come scoprirò poi, ovviamente non esiste. (La sua esecuzione venne affidata, appositamente per le riprese, a un collaboratore di Hitchcock. Sostiene Gabriel Blackwell che una prima versione, commissionata al pittore ciociaro Manlio Sarra, era stata fatta per somigliare a Vera Miles, e che dopo il forfait di quest’ultima si dovette convocare un altro pittore – un apprezzato astrattista di San Francisco, John Ferren – per realizzarne in fretta e furia una seconda che somigliasse alla star subentrata: a Kim Novak, cioè. Quando invece è evidente che Beautiful Carlotta non somiglia a nessuna delle due.)
Credevo che il Museo sarebbe stato il set perfetto dove inscenare, in epitome, l’effetto-abîme di Vertigo: cioè la ri-vertigine che, con beata ingenuità, immaginavo sarei stato in grado di produrre in me stesso. Non solo per la crucialità che questa location riveste nella narrazione (nel Mito); ma soprattutto perché essa, nei miei piani, avrebbe rappresentato – ancora una volta en abîme – la mia condizione. Di voyeur di un voyeur di un voyeur di una voyeuse di una voyeuse.
Ma quell’immagine – l’origine del guasto e insieme della quête: la quête di Scottie, ma anche della mia –, com’è assai eloquente, non esiste. Non è mai esistita. Il n’y a pas de hors-texte, certo. Ben mi stava.
Paolo Marocco, Vertigo. La donna che visse due volte di Alfredo Hitchcock. Lo sguardo dell’ozio nell’America del lavoro, Le mani 2003
«CineturismoÒ. Il portale ufficiale» (http://www.cineturismo.it/)
Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli 2017
Oscar Iarussi, Andare per i luoghi del cinema, il Mulino 2017
Jeff Kraft e Aaron Leventhal, Footsteps in the fog. Alfred Hitchcock’s San Francisco, prefazione di Patricia Hitchcock O’Connell, Santa Monica Press 2002
The San Francisco of Alfred Hitchcock’s Vertigo. Place, pilgrimage and commemoration, a cura di Douglas A. Cunningham, Rowman & Littlefield 2012
Rebecca Solnit, Infinite City. A San Francisco Atlas, University of California Press 2010
Pierre Boileau, Thomas Narcejac, La donna che visse due volte [D’entre les morts, 1954], traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, Adelphi 2016
Victor Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, a cura di Aurelio Pino, traduzione di Benedetta Sforza, il Saggiatore 2006
François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock [1966], traduzione di Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto [1977], il Saggiatore 2014
Douglas Gordon, Feature Film, 1999: https://www.youtube.com/watch?v=q24vjmUdOrk&t=3613s
Hitchcock and art. Fatal consequences, catalogo della mostra di Montreal, 16 novembre 2000-18 marzo 2001, a cura di Dominique Païni e Guy Cogeval, The Montreal Museum of Fine Arts-Mazzotta 2000
Gabriel Blackwell, Madeleine E., Outpost 19 2016
Jacques Derrida, Della grammatologia [1967], Jaca Book 1969, a cura di Gianfranco Dalmasso, ivi 2012.4
[Immagine: Alfred Hitchcock, Vertigo]
“ Giovedì 3 luglio 1997 – « Va’ su… fino in cima, Judy… io ti seguirò » (Hitchcock, La donna che visse due volte / Vertigo, 1958). [Io annoto queste che penso siano le frasi « cruciali » dei film – in questo caso riguardo alla dialettica fra alto e basso, sopra e sotto, davanti e dietro, maschile e femminile, e sono anche sicuro di scegliere quelle giuste. Ma la verità è che un film come quello di stasera, a rivederlo per la millesima volta, mi è sembrato inutilmente misterioso, oppure inutilmente « chiaro », cioè esatto, nella sua logica allucinata e goffa, come se ancora una volta si sia trattato di ascoltare il discorso di un pazzo, che, per quanto dotato di « metodo », sempre comunque il discorso di un pazzo resta. Io, che non ho nessuna intenzione di fare il critico cinematografico, sono convinto tuttavia che ormai sia anche possibile farlo davvero. Il cinema, ora che ha prevalso su ogni altra forma di « discorso », è diventato « criticabile » e criticarlo potrebbe anche rivelarsi molto facile. Ma per me la verità è un’altra: il cinema non lo amo più, cioè non sono più minimamente sedotto da quello che vedo passare sullo schermo, e nemmeno minimamente incuriosito. Non me ne importa niente, ecco. E so anche che è sempre stato così] “.
“ Sabato 10 gennaio 1998 – Giochi d’adulti (Pakula, 1992) è quasi un re¬make de La donna che visse due volte (Vertigo, Hitchcock, 1958). È la storia di un’amicizia fra uomini, di una seduzione (fra uomini), di un bidone (fra uomini). Mediante – come sempre – una donna. Con la Kim Novak del film di Hitchcock, la donna protagonista della storia di Pakula ha in comune il fatto di essere intensamente e falsamente bionda. Se cambia l’elemento di attrazione, ovvero ciò che la rende seducente – nel film di Hitchcock era il fatto di somigliare stupefacentemente alla donna ritratta in un quadro del secolo scorso, di somigliare a un quadro insomma, mentre nel film di Pakula è la voce, la voce intensa e piuttosto arrapante di una cantante da piano bar – qualcosa rimane identico, a guardare bene – dico fotogramma-per-fotogramma -, e cioè che, mentre si espongono i particolari della seduzione della storia, cioè si racconta come il protagonista della storia viene sedotto, si mette in opera una seduzione di secondo grado, c’è un’esposizione, una seduzione in atto, una seduzione al presente nei confronti dello spettatore – colui che ha accettato di stare a quel gioco da adulti che si chiama « andare al cinema ». E l’elemento essenziale di questo processo, appena accennato nel film di Hitchcock – la nuca, l’acconciatura dei capelli sulla nuca, quella specie di nodo in forma di buco, in forma di spirale, di vertiginosa spirale, che James Stewart contempla affascinato e perplesso -, è ciò che mi azzardo a chiamare la « vista da dietro ». Quello che nel film di Pakula si vede « da dietro » – il protagonista, ma soprattutto noi spettabili e solvibili giocatori-spettatori – è la signora falsamente bionda, cioè il sontuoso « dietro » della capziosa signora – mi riferisco alla scena, che chiamare madre non sarebbe onorevole, in cui lo sventurato eroe della storia – che porta, nota bene, un significativo paio di baffi – accetta l’invito a scambiarsi le mogli e si introduce nella casa – intensamente rossa, nota bene – del sedicente amico. Quello che si vede è, in rapida successione, il petto villoso di lui, e il dietro liscio, rotondo, splendido-splendente come in una foto di Helmut Newton, della bella falsa addormentata, o addormentata falsa, se si preferisce – « sono andati / fingevo di dormire… » (Verdi-Piave, La Traviata, 1853). Alla fine della storia mr. Baffetto riuscirà a liberarsi dal mortifero incanto di quella voce di donna. Ma a noi chi ci libererà dalla vertiginosa vista di quel dietro in altra parola culo (di donna?)? (« Guarda che è solo un significante » Sarà …) “.
“ Mercoledì 14 maggio 1997 – E, a proposito di ‘58, a proposito di Vertigo, a proposito di « schiena (bella) delle donne », chissà se era del ‘58 quel numero dell’Espresso (formato grande) con la grande foto della meravigliosa schiena di Kim Novak. Mi sembrerebbe giusto. “
P.S. Avevo dimenticato di dire che ho trovato lo scritto di Cortellessa ottimo e abbondante, niente di meno che questo.
“ Mercoledì 14 novembre 2017 – E, a proposito di ‘58, a proposito di Vertigo, a proposito di « schiena (bella) di donne», chissà se era nel ‘58 che raul rossetti, deuteragonista del parisiano ragazzo morto, partì turista minerario per il belgio, come raccontò poi in « schiena (bella) di vetro ». Mi sembrerebbe giusto. “
” db “: come (d)istur(b)atore?
disturbarratore sarà lei: badi con chi parli e stiamo al tema, che è turismo di massa, altro che attaccatura di capelli!
« Mercoledì 14 novembre 1958 – Albeggiava quando si arrivò tutti a Liegi. Non era pioggia quella che scendeva lenta, ma direi umidità o qualcosa di simile. Dal grigio chiarore emergevano tante voci. Avevo una tenaglia al posto del cuore. »