di Tommaso Giartosio
[Da poche settimane è uscito il libro Non aver mai finito di dire. Classici gay, letture queer, di Tommaso Giartosio. Su consenso della casa editrice Quodlibet, che ringraziamo, anticipiamo alcune pagine tratte dall’Introduzione (dbr)].
Tradizione
Poco prima della sua morte dannatamente precoce Paolo Zanotti, acuto critico e scrittore straordinario, ha curato un’antologia intitolata Classici dell’omosessualità. Il titolo non voleva essere provocatorio (Paolo, come ha scritto Gabriele Pedullà, non si pensava come scrittore d’avanguardia, e non si è mai interessato di provocazioni); ma di fatto lo era. Tra i poli di quel titolo scoccava una scintilla.
Più avanza l’accettazione sociale e culturale dell’omosessualità, più la cruda constatazione del peso storico dell’omofobia e soprattutto della sua cocciuta persistenza (a partire da quella parola, “accettazione”) viene guardata con fastidio, come una pedanteria vittimista. Dovrò ora correre questo rischio. Fare quello che forse sembrerà un discorsetto di prammatica. E ricordare che la condizione omosessuale – per usare ancora una volta questo aggettivo prolisso e medicalizzante, che sempre più suona come una versione spregiativa di “gay” – è stata lungamente considerata eccentrica rispetto a ogni norma classica e a ogni canone esemplare, e censurata e rimossa quando si annidava nel cuore del canone stesso – nel Simposio, nei Sonetti di Shakespeare. Storia d’altri tempi, si dirà. Non credo. Provate a parlare di “classici della letteratura devozionale” o “italiana” o “trecentesca” o “amorosa” e nessuno protesterà; accennate ai “classici della letteratura gay” e assisterete a un silente, furioso incresparsi di sopracciglia. Sembra una definizione angusta; non lo è, perché la condizione gay è tuttora qualcosa che caratterizza in modo determinante la vita personale e sociale degli individui (non meno di un’appartenenza linguistica o etnica); ma lo sembra, perché definisce un ambito che sentiamo angusto e soffocante, proprio in quanto è ancora stigmatizzato. Ci piace credere che almeno nel mondo della cultura il pregiudizio omofobico sia stato ormai superato. Neanche questo è vero. Perfino oggi che in buona parte dell’Occidente la normalizzazione gay è tanto avanzata da suscitare sospetti (ora legittimi ora strumentali) di conformismo, “la tematica” – come la si chiamava, con ellissi ansiosa, in tempi ancora più difficili – innesca effetti più o meno evidenti di imbarazzo e di scandalo. Un minimo esempio: da anni mi interesso di omosessualità e letteratura, eppure accade ancora spesso che qualcuno mi segnali un libro a tema gay evitando di dirmi che è a tema gay: «Dovrebbe interessarti», «È nelle tue corde», «Vedrai, fa per te»… Interrogato, un amico mi spiega che «per un bizzarro bon ton non si sta a sottolineare troppo gli interessi specifici». Ma mi pare chiaro che se questi interessi specifici avessero per oggetto il Friuli-Venezia Giulia, o Beethoven, o gli inca, si direbbe tranquillamente: «…E poi ti piacerà perché è un libro che parla di Pordenone / della Patetica / del Perù!» Forse la persecuzione omofobica un giorno sparirà; ma sorrisini e teneri stupori ce li terremo per un bel pezzo (almeno finché la nostra visione del mondo, e dunque il nostro mondo, saranno così profondamente radicati nella divisione in due generi opposti e complementari: l’omofobia non è il sessismo, ma è radicata nel sessismo). E ci teniamo anche la persecuzione, ovviamente: basta entrare in qualsiasi scuola per constatarlo. Ci teniamo, insomma, la buona vecchia “devianza”, magari chiamandola “diversità”.
A parlare di classici gay, dunque, è naturale che sembri di accostare materia e antimateria. Tanto più che, in generale, con i fili delle opere classiche si intesse una tradizione continuativa e ininterrotta, o tutt’al più segnata da cesure che vanno riannodate con un’azione deliberata (penso all’Umanesimo); mentre le opere a tema gay non appiattite sugli stereotipi – spesso, ma non sempre, scritte da gay – affiorano solo qua e là nel corso dei secoli, rare e (per chi le cerca) preziose come una Polinesia che punteggi l’oceano dei libri, causando una dilazione e dilatazione delle riletture su cui avrò modo di tornare.
Zanotti, però, aveva l’accortezza di raccogliere nella sua antologia solamente testi scritti dell’ultimo secolo e mezzo. E qui sì, una produzione a tema gay più coesa e caratterizzata, dapprima negata o (più spesso) taciuta, poi via via più fitta e esplicita, con temi, stili, forme e narrazioni ricorrenti, è un dato di fatto. Una tradizione, poi, per niente “alternativa”. Non solo non si contrappone alla falange dei classici del suo tempo, ma in larga parte coincide con essi: basti ora citare Morte a Venezia, la Recherche, o l’Ernesto di Saba (ma anche molte poesie del Canzoniere). E proprio per questo motivo è rimasta a lungo invisibile, come se proprio la (centralissima) collocazione letteraria oscurasse l’identità sessuale, elemento accessorio da relegare al privato e dunque a una sostanziale irrilevanza. A prima vista questa sembra un’ovvietà. Eppure è bizzarro che l’identità nazionale, religiosa, politica, linguistica, sociale, venga reputata tanto più determinante di quella sessuale – parlando poi di tempi in cui essere gay o lesbiche velati o visibili aveva ricadute drammaticamente serie e pervasive, almeno quanto essere francesi o cattolici o comunisti.
Certo anche i diretti interessati hanno spesso contribuito a questo equivoco. Così la tradizione gay moderna si presenta per lungo tempo – almeno fino alla metà del Novecento – anomala rispetto ad altre tradizioni letterarie (quelle nazionali, per esempio), impegnata com’è a denegare la propria esistenza e coprire le proprie tracce: a tradirsi, nel doppio senso di “nascondersi” e “rivelarsi” (e anche di questo riparleremo). Proust, come è noto, disse a Gide che la cosa essenziale era non dire mai “io”, non narrare l’omosessualità in prima persona. Ma le cose non sono semplici. Scrivere la Recherche, con il suo Marcel eterosessuale e i suoi millanta personaggi gay o lesbiche o bi, è nascondersi o rivelarsi? Pubblicare Se il grano non muore o il Diario del ladro è certo rivelarsi – ma non anche celarsi entro una narrazione esemplare, o tra le pieghe di un sipario barocco? Oppure prendiamo il caso di Maurice, rimasto a lungo inedito: il nascondersi, in questo caso, garantisce la schiettezza del dirsi? E non c’era più svelamento in quel romanzo chiuso per più di mezzo secolo nel suo cassetto che in tante opere “a chiave” pubblicate e vendute negli stessi anni, come Il codice di Perelà?
Quanto sono insufficienti i verbi (i verba dicendi e tacendi) di cui disponiamo. E quanto a lungo la letteratura gay si è interrogata sull’alternativa dilemmatica tra una differenza scandalosa e quello che Stephen Spender chiamava «il caldo fiume della vita normale di tutti». Ma attenzione, norma e differenza sono entrambe vissute in prima persona: ovviamente il gay si sente diverso, ma anche normale; e la normale omofobia che lo circonda gli appare in tutta la sua deformità. Materia e antimateria sono intimamente imbricate. Tutto il percorso di Isherwood, per esempio, è un fare i conti con questo chiasmo: indossare la normalità come una maschera per il piacere BDSM di lacerarla; scoprirla propria, modellarsela addosso, e godere e soffocare in essa. Anche il suo amico Wystan Hugh Auden – in altro modo, e in fin dei conti con maggiore successo – pratica una quadriglia che gli permette di replicare, ad ogni nuova minaccia di allineamento, una sua strategia di contrapposizione complice. In 1° settembre 1939 denuncia il «cuore normale» per la sua impossibile smania di «avere per sé solo ogni amore»; però lo colloca nel proprio petto.
Insomma, il tema delle differenze supera la sua occasione autobiografica, o meglio la porta con sé declinandola in risonanze più ampie. Nelle pagine che seguono mostrerò, per esempio, come Proust declina il rapporto tra omosessualità e ebraismo (un rapporto che affronterò anche analizzando, in Altre arche, il lavoro di Alberto Cavaglion). Ma osserverò anche come l’autore della Recherche affronta il tema della gaffe (che è spesso gaffe omosessuale): sorridendo dell’ingenuità del gaffeur, ma mostrando anche che la “brutta figura” – l’opposto delle eleganti figure della retorica – contiene un nucleo prezioso. Un richiamo a quella verità irriducibile dell’io di cui la letteratura si nutre anche quando assembla i manufatti verbali più ostentatamente artificiosi, più raffinatamente formali e metalinguistici, più visibilmente indebitati ai grandi codici (magari per contestarli), come accade spessissimo nelle diverse stagioni della modernità, da Wilde a Gadda, da Gombrowicz a Lezama Lima, da Firbank allo stesso Proust.
Ecco, se c’è un motivo che ricorre in questo libro, è proprio il rapporto tra verità e forma. Non solo nella Recherche. In Colori proibiti Mishima ci offre una variazione sul Ritratto di Dorian Gray che capovolge l’estetismo wildeano, arrivando a instillarci il dubbio che il privilegio di autonomia della forma artistica vada radicalmente ripensato. In Via da me di Mauro Curradi (un grande scrittore, ben degno di trovare posto in questa schiera), il ferreo lavoro sulla forma serve a restituire alla sua verità l’Altro coloniale – che però in questo modo “va via”, marca il confine del libro e costringe a chiuderlo, un po’ come Shunsuke in Mishima e il ritratto di Dorian nel romanzo di Wilde. (Un’estate marocchina che non finisce mai, la bellezza atemporale del kouros giapponese, il ritratto che cattura un attimo per sempre: fermare il tempo è un altro grande tòpos della letteratura omosessuale.) Il saggio sullo scrittore gay oggi, infine, propone che dopo due lunghe stagioni culturali intensamente gay – il modernismo di Rimbaud, Verlaine, Wilde, James, Kavafis, Gide, Proust, Stein, Mann, Forster, Woolf, Saba, Palazzeschi, Cocteau, e l’engagement di Pasolini, Baldwin, Genet, Vidal, Foucault, Capote, Mishima e lo stesso Curradi – siamo giunti a una fase di crisi (ciò che chiamo “la sottise gay”), in cui è facile cedere all’illusione di un superamento della differenza omosessuale (di questo parla anche il breve pezzo sul James Bond gay di Skyfall). La via d’uscita da questa impasse è, credo, mantenere l’enjeu realistico che ha caratterizzato la scrittura dei nostri anni ma sottoponendolo a una deliberata torsione, tornando a lavorare sulla forma.
Forse è ovvio che uno scrittore lavori sulla forma; che racconti il suo tempo e tuttavia non permetta alla forma di realismo (al realismo formale) dominante nel suo tempo di dettargli la pagina. Forse è ovvio, ma è una di quelle verità che ciascuno deve riscoprire da sé, e il percorso che va (non senza correzioni di rotta) dal breve pezzo intitolato Errori alla conversazione con Gian Pietro Leonardi al saggio sulla sottise è per me un possibile resoconto personale dell’itinerario compiuto.
Il libro che avete tra le mani esplora soprattutto alcuni momenti di questa tradizione gay moderna. Una genealogia che però – per tornare al tema su cui si sono aperte queste pagine – ci sfida a prolungarla indefinitamente all’indietro, oltre i confini invisibili posti più o meno a metà Ottocento. Operazione legittima? Se ci si spinge nel passato, ogni libro a tema omosessuale si direbbe legato molto più alla cultura del suo tempo che a una vasta, sottilissima, congetturale ragnatela di connessioni tra opere simili. Oppure no? Sembra ovvio che i sonetti di Michelangelo per Tommaso de’ Cavalieri abbiano molto più a che fare con il petrarchismo cinquecentesco (sostanzialmente eterosessuale) che con i sonetti gay degli stilnovisti perugini di due secoli prima. Ma se ci fosse un nesso tra il neoplatonismo michelangiolesco e le dottrine sull’eterogenesi dell’attrazione omosessuale esposte nel Simposio? In questo ambito, esiste certamente un rapporto genealogico – affetto da equivoci di ogni tipo ma non per questo meno stretto – tra Europa cristiana e mondo classico (qualche altro nome: Saffo, Anacreonte, i miti di Orfeo e di Achille e Patroclo). La sua portata può venire determinata solo attraverso un lavoro di analisi dei testi: appassionato e disincantato, laico e intellettualmente onesto. Lavoro che in altri Paesi è già molto avanzato e in Italia assai meno. Ma anche in Italia ci sarebbe molto da scoprire. Sono ancora quasi del tutto assenti, per esempio, gli studi sull’omosessualità non dico nei crepuscolari, che offrirebbero spunti affascinanti, ma – incredibilmente – nello stesso Palazzeschi. È un po’ come se in Francia nessuno l’avesse studiata in Proust.
Certo, se questa strada non è stata finora imboccata, forse è anche perché si presume che per percorrerla occorra munirsi di una rigida tesi identitaria – e in effetti «i crepuscolari sono gay» sarebbe una formuletta improponibile. Così, se molti ancora negano in blocco l’ipotesi di una “tradizione gay” sia pure sui generis, altri (e qui penso soprattutto alla teoria queer, su cui tornerò alla fine) diffidano dell’idea di “classici”, del “canone”, della stessa “omosessualità”, considerandole semplificazioni brutali volte a disciplinare il rapporto con il testo. La differenza tra letteratura e canone, entro quest’ottica, è che il canone è letteratura provvista di cannoni. E la triade omosessualità-eterosessualità-bisessualità è una semplificazione rozza come gli identikit della polizia, che per giunta si riduce subito a una diade norma/trasgressione utilizzabile in mille diverse sedi: dalle primarie di partito agli uffici casting, dalle ricerche di mercato al festival di Sanremo… Di qui il progetto queer di pensare un mondo fuori canone, post-gay, privo di classici e di classici omosessuali. Questa prospettiva dà luogo a un’inedita alleanza con critici-scrittori come Michele Mari o Emanuele Trevi, che pur lontanissimi (a dir poco) dalle preoccupazioni politiche e dal linguaggio poststrutturalista del pensiero queer, contrappongono al canone dei classici e alla tradizione come principio d’ordine, troppo spesso mero strumento didattico e ideologico, la letteratura, quella vera: la singola opera che si svincola da qualsiasi contenuto, genealogia, funzione, e brilla della sua fulgida bellezza: sempre anarchica, scorretta e mostruosa.
La verità probabilmente sta a metà strada. La letteratura non si identifica con nessuno dei grandi mainstream identitari che la attraversano, ma non possiamo capirla senza tener presente questi formidabili catalizzatori di senso. E sta qui l’interesse dei classici gay. Una tradizione che, arretrando e addentrandosi nel passato, sembra accrescere le distanze tra i suoi punti come nella successione dei numeri primi o in quella di Fibonacci – due serie che possono evocare una crescente “solitudine” o, al contrario, un legame segreto e profondo – e così ci pone necessariamente un interrogativo che riguarda l’idea stessa di tradizione, e di classico. Ci suscita il dubbio che i classici siano tali non (o non tanto) per il tessuto di riprese e modulazioni che compongono nel disegnare l’arabesco della tradizione letteraria, ma per le loro qualità intrinseche. Potrebbero dunque esistere dei classici che non pervengono mai a collocarsi entro una tradizione; o che prendono posto in una tradizione che è portatrice di senso, importante, significativa, benché (o addirittura perché) accidentata e accidentale, discontinua, epidermica, involontaria. Una successione di opere che ricorda le sculture rotanti di William Kentridge, assemblaggi di fiocchi e ritagli montati su lunghi stecchi, che solamente visti da una posizione ben precisa si incastrano all’improvviso a formare un volto, una parola.
Come la famiglia omogenitoriale costringe a estendere (e quindi in qualche misura alterare) la precedente idea di famiglia, relativizzando l’importanza dei rapporti genealogici in senso stretto a tutto vantaggio dei legami esperiti e affettivi (cfr. lo slogan «È l’amore che crea una famiglia»), così la tradizione gay porterebbe a ripensare e ampliare l’idea stessa di tradizione, ponendo al centro una condivisione di esperienze, emozioni, condizioni, aspirazioni, esclusioni e fantasie che conta almeno quanto qualsiasi influenza o lettura diretta e empirica (come, per capirci, quelle studiate nella vecchia letteratura comparata di Hazard e Baldensperger). Se la metafora dominante per descrivere la tradizione è quella vegetale (tronco, rami, radici, fecondazione, e reazioni di sconcerto di fronte a «fiori senza gambo visibile» come la poesia di Penna), per la tradizione gay si dovrebbe usare la metafora speleologica: parlare di un lungo dipanarsi di corridoi, gallerie, strettoie, pozzi, camini da risalire in opposizione, cenge su cui sostare a riposarsi, e solo di tanto in tanto l’improvviso aprirsi di una camera, l’espandersi di una sala che sembra priva di vie d’accesso o di fuga (di qui l’illusione del “gambo invisibile”). (Per anticipare un tema che toccherò nel saggio su Flaubert e lo scrittore gay: la letteratura della modernità, con la metafora ricorrente della scrittura come scavo – i cent’anni che vanno dalle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij a Come è di Beckett e Méthode di Francis Ponge, che parla di un farsi strada attraverso e contro il dizionario – ha profonde affinità con il modo d’essere della scrittura omosessuale.)
La grotta, dunque, come casa paradossale, che non viene a definirsi tramite un progetto costruttivo attuato in uno spazio aperto (il contesto della tradizione “ortodossa”), ma viene determinata per sottrazione dal conformarsi della massa dura che circonda il poco spazio abitabile: l’omofobia. In un certo senso, la vera tradizione gay – il principio di continuità dell’esperienza gay nei secoli – è proprio l’omofobia, con le sue variabili e le sue costanti. Per questo, se una tradizione culturale in senso… tradizionale si sviluppa attraverso il ricorso a continue riprese e conferme – se la sua esemplarità non poggia solo sulle poche grandi opere che ne segnano la storia ma anche sul vastissimo corpus di rifacimenti, parodie, volgarizzazioni, trascrizioni in altri media, lavori accademici, utilizzi in ambito ideologico o politico o religioso, citazioni ricorrenti, allusioni nel parlato quotidiano e così via, che per così dire reiterano in mille voci provenienti da tutti i punti dell’orizzonte culturale la centralità del messaggio tradizionale – quella gay è una tradizione sui generis: interstiziale per mancanza di spazio, necessariamente leggera, dinoccolata, friabile, aleatoria. Per nulla impositiva. Niente male: una tradizione senza traccia di tradizionalismo.
È una leggerezza che può apparirci calviniana, o melottiana (del resto Fausto Melotti è stato spesso usato per le copertine dei libri di Calvino). Una leggerezza che, come nella prima delle Lezioni americane, non ha nulla di futile o inessenziale: è anzi grave anche quando scherza, e a volte drammatica. Per dare seguito a questa suggestione vorrei provare a sviluppare il discorso sulla nozione di “classico” con l’ausilio di Perché leggere i classici, il saggio di Italo Calvino del 1981.
Pulsazione
Mi rendo conto che sia strano (in inglese: queer) parlare di cultura gay partendo da Calvino. Certo, un intellettuale dagli amori appassionati, curiosissimo di tutto, politicamente progressista e fedele ai suoi valori anche in ambito sessuale (Scalfari racconta di quando da ragazzi vennero portati al bordello – «Feci il mio dovere. Non ci sono più tornato. Calvino no, uscì urlando»), intransigente difensore della legge 194 contro Pasolini. Ma anche uno scrittore ben radicato nell’establishment letterario del suo tempo, formalmente limpido, premiato da un successo globale, sostanzialmente lontano da ogni forma di radicalismo controculturale, e stranamente cauto sui temi legati alla sessualità: quando li tratta (penso a Viola nel Barone rampante, o al capitolo giapponese di Se una notte d’inverno un viaggiatore) si rifugia nell’ingenuità, nell’ellissi, nella letterarietà. Un autore, infine, che non sembra offrire forti sollecitazioni a chi riflette sulla questione gay. Di questo c’è una controprova aneddotica. Il 4 maggio 1976 Calvino scriveva da Parigi una breve lettera a Angelo Scoffone. Militante del Fuori! (il “Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano”, la maggiore – si fa per dire – organizzazione gay di quegli anni), Scoffone aveva deciso di chiedere a diversi personaggi pubblici italiani quale fosse la loro opinione e la loro esperienza circa l’omosessualità. La minuta della risposta è di una ventina di righe; la bella copia è ancora più succinta. Non ho nessun pregiudizio, dichiara Calvino, e nessuna esperienza diretta. L’impressione è che lo scrittore senta l’obbligo morale di prendere onestamente posizione su una questione che ha gravi ricadute etiche e politiche, ma con la quale non empatizza. Resta un abisso tra la sua vita e quella di Scoffone. A giudicare dal breve ricordo tracciato molti anni dopo da Paolo Rumi, Angelo fu uno dei tanti giovani attivisti gay di quegli anni. Armato di leggerezza e scandalo, consapevole e disperatamente allegro (pasoliniano contre soi); attratto dal centro scena e respinto ai margini, come una trottola. Un altro libertino ucciso dalla siringa più o meno quando Calvino incontrò l’infarto. Sembrano lontanissimi, davvero.
La mia scommessa è che Calvino si dimostri quietamente capace di abilitare e valorizzare una riflessione queer sui classici gay. Vorrei cioè spendere il suo nome per mettere in relazione un pensiero per eccellenza antiidentitario qual è il queer con un trio di concetti usati precipuamente a scopi identitari: classicità, tradizione, canone. Vorrei provare a far scoccare di nuovo la scintilla tra questi due poli, e tracciarne il disegno.
A mo’ di premessa, facciamo un rapido tour guidato nel dibattito sul canone letterario. Un bruttissimo posto, sterile come un uovo sodo e noioso come una fila in banca; ma cercherò di trarne un senso, per quanto mi è possibile.
Il canone dei classici si dà come una realtà inevitabile. Il suo prestigio può variare, certo; e oggi che l’offerta culturale ha una capacità e ampiezza di circolazione (almeno potenziali) senza precedenti, l’idea di canone appare angusta e oppressiva. Ma non può esistere una cultura in cui tutti i testi siano oggetto della stessa attenzione, diano luogo a un uguale numero di letture approfondite, godano di pari prestigio, e vengano poi tutti usati per costruire le antologie scolastiche. È altrettanto chiaro che sul processo di selezione pesano fattori estrinseci. Il canone tende a ignorare i testi scabrosi. Seleziona brutalmente quelli sperimentali. Ripropone ossessivamente una mitologia nazionale apologetica. Insomma, riflette sempre un comune sentire che è in buona parte eterodiretto, rassicurante e conformista. A complicare le cose c’è il fatto che un’opera che venga lodata e letta al di là dei suoi meriti apparenti riesce, proprio per questo, a gemmare riscritture e propaggini che a loro volta ne asseverano la classicità, ora non più immeritata. Questo stesso meccanismo di accumulazione originaria tende a stabilizzare la canonicità delle opere ammesse. Calvino stesso ammette che di fronte a un classico «ogni prima lettura è in realtà una rilettura»: ovviamente detto da lui questo è un giudizio positivo, che evoca il piacere della familiarità, ma per chi invece stigmatizza il carattere oppressivo del canone non sarebbe difficile intendere l’aforisma come una denuncia – il classico visto come guardiano dello status quo, protocollo che seguivamo inconsapevolmente prima ancora di conoscerlo.
Eppure anche nel Gotha letterario più impenetrabile alcuni libri vengono riscoperti come classici, o invece derubricati; si riaprono, o si richiudono. È una mutazione che si sviluppa con un ritmo lento, vegetale. Per non smarrire il senso del classico come processo, non come dato, è importante (anche a costo di metterci un po’ di ottimismo della volontà) accelerare il filmino, vedere i fiori che sbocciano – rappresentare il canone come uno spazio che si espande e contrae, cardiomorfo. In linea di principio nulla impedisce che Orazio e Pascoli seguano un giorno la strada di Stazio e Carducci, o che questi ultimi tornino in auge. Questo senso della vitalità e mortalità dei classici (stimolante perché allarmante, e allarmante perché stimolante, per noi contemporanei che Orazio e Pascoli li amiamo) mi sembra, per inciso, qualcosa di tipicamente gay. Il giovane Christopher Isherwood risponde al vecchio Edward Morgan Forster, che gli aveva chiesto se l’ancora inedito Maurice gli sembrasse «datato»: «E perché non dovrebbe essere datato?». La risposta «rallegrò molto Forster». Questo vitalismo è anche antiintellettualismo e antiformalismo. Rifiuta di apprezzare un libro per ragioni unicamente interne al libro stesso; lo sfida sempre a confrontarsi con la realtà vissuta. È un tratto che appare anche in Gide, Whitman, Comisso, e perfino in poeti come Penna o Kavafis, in cui anche l’alessandrinismo si sporge fuori dal testo, verso i corpi, verso le strade e i giorni. Lo si può considerare una forma di compensazione rispetto al formalismo radicale così presente (l’ho già detto) nella letteratura gay della modernità e riconducibile ai motivi della finzione, del gioco gratuito, della insostanzialità, tutti legati storicamente (con fasi alterne) all’identità omosessuale.
Tornando ai classici: quello che ho descritto è dunque l’ingranaggio canonizzante (non parlerei di un “dispositivo”, ma di una tecnologia più imperfetta e spannometrica). Esiste, al di là di queste ruote dentate, una qualità intrinseca (o più d’una) che spieghi la peculiare durata di certi libri? Se ci riferiamo al piano dei contenuti, personalmente credo che queste qualità esistano, ma che dobbiamo accennarle appena, con la cautela di chi sa che la prossima generazione ne troverà altre. Attribuire per esempio ai classici una coralità etica, una concordia metastorica, sarebbe davvero ingenuo. Prima di tutto ci costringerebbe a farli convergere su delle “virtù” talmente generiche e contestuali (la “bontà”? il “coraggio”? il “dovere”?), talmente mutevoli di epoca in epoca, da farci pensare che davvero la classicità sia solamente una faccenda di confini da difendere: il canone come convenzione, anzi conventio ad excludendum. In secondo luogo, come tutti sanno i classici sono libri infarciti di omofobia, misoginia, antisemitismo, autoritarismo, militarismo e altri orrori che, se appena sospendiamo le interpretazioni edulcoranti, ci fanno rabbrividire. Eppure non per questo smarriscono una sola goccia della loro esemplarità, così come i classici che vengono scritti oggi (sì, ne vengono scritti anche oggi) faranno giustamente agghiacciare l’umanità futura per le scene in cui i personaggi si nutrono con freddo distacco di ritagli sanguinanti di carne animale. Né si può ridurre l’inattualità dei classici al loro anticipare le prossime tappe di una univoca ascesa verso il Progresso. Se così fosse, presto o tardi – compiuta la loro profezia – cesserebbero di sorprenderci. Ma se un classico perde vitalità – come a volte accade, l’abbiamo visto – non è certo perché il suo programma ideologico sia stato realizzato e sottoscritto, oppure definitivamente smentito, dalla Storia. Un classico è tale non per i suoi contenuti etici ma per la sua etica dei contenuti: per il suo mettersi in gioco, facendosi carico dei propri (pre)giudizi e tematizzandoli senza la stampella dei luoghi comuni. Nella topologia del classico, il limite non viene evitato o trasceso, ma incluso. Una questione di deontologia e metodo, cioè anche di coerenza e profondità estetica – di stile, insomma (che ho cercato di illustrare, in questo libro, nel breve testo su Dante). Quando Jules Renard sentenziava: «I posteri hanno un debole per lo stile», non faceva riferimento all’aspetto puramente formale della scrittura, ma all’incastro a coda di rondine con cui essa fa presa sul contenuto: cioè alla dimensione oggettuale di quello che la teoria queer, interessata come sempre al soggetto, chiama il posizionamento.
Per cogliere in questo modo il principio operativo di un classico occorre fare un passo indietro rispetto alla querelle etico-contenutista. Recuperare un approccio descrittivo, non prescrittivo. Per questo torna prezioso un atteggiamento dissacratorio o almeno giocoso (ma nulla è più serio di un vero gioco) nei confronti dei cosiddetti capisaldi della nostra cultura, uno sguardo che possiamo recuperare dal modernismo e più di recente dal postmodernismo. Dunque appunto da Calvino.
La classica definizione calviniana – un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire – è così soddisfacente, così semplicemente bella, proprio perché riporta il canone alla sua natura di pratica, di habitus. Ciò non disinnesca del tutto i pericoli del conformismo – la lettura abitudinaria, appunto, o anche quella nuova rispetto al passato ma prevedibile e confirmatoria nel contesto del presente. Però è una definizione che ha il pregio di aprirci il cofano e mostrare il motore in azione. E di avere soprattutto un riconoscibile sapore democratico, centrata com’è sul ruolo di chi legge – una lettrice o lettore a cui non si chiede di presentare immediatamente le credenziali, una lettrice indeterminata e un po’ Everyman (o Every woman). La stessa autonomia e persistenza del classico, qualità che nel saggio Calvino dà per assiomatiche e che potrebbero sembrare un antipatico sintomo di una visione centrata sull’auctoritas, derivano in realtà dalla centralità assegnata in quelle pagine all’atto di lettura: per chi legge (molto più che per chi scrive) il libro si presenta come oggetto esterno, dato, durevole (se non altro in quanto è giunto fino alla lettrice o lettore). Insomma, la sintesi dello scrittore Calvino è a parte subiecti (se il “soggetto” è chi legge) più che a parte obiecti. È tutta giocata sul posizionamento – di chi legge; sulla storia della lettura più che sulla storia della letteratura, sull’esperienza della lettura più che sulle ragioni della scrittura o sull’azione delle agenzie che la promuovono e indirizzano (corti, accademie, Minculpop, o in senso più ampio la stessa realtà storico-economico-sociale). E per questo è necessariamente portata a riconoscere quel peculiare fenomeno – imbarazzante o appassionante, discontinuo e fantasmatico – che è la tradizione gay.
Certo, Calvino suggerirebbe di usare (anche) il filtro delle migliori letture critiche. Non intende legittimare qualsiasi possibile opzione interpretativa. Se il numero di cose che il classico “ha da dire” non ha mai termine, non per questo esso può dire ogni cosa. Come tutti i libri, può dare luogo a interpretazioni infondate: ma non è questo il punto. Lo scrittore che ammirava la Breve storia dell’infinito di Paolo Zellini sa bene che l’insieme dei contenuti del classico si srotola senza fine, ma in una direzione ben definita – è un infinito, e può escludere e di fatto esclude altri infiniti (come l’infinito dei numeri pari non contiene nessun numero dispari). Ma è altrettanto certo che questa idea di classico predispone chi legge ad avventurarsi in cerca di nuove dimensioni di senso. In altri termini, non basta constatare che «ogni prima lettura è in realtà una rilettura”; occorre aggiungere, sempre con Perché leggere i classici, che «ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima». E non importa che Calvino probabilmente avrebbe diffidato dei gay and lesbian studies. Il logaritmo su cui fonda la sua idea di classicità è più potente dei suoi eventuali pregiudizi. Una lettura originale non è un effetto collaterale e accidentale dell’opera classica, ma il suo sigillo, il suo segno di riconoscimento. Un buon libro che rivela significati inattesi ci sorprende (piacevolmente); un classico no, perché non ci aspettiamo nulla di meno. Trascende sempre se stesso. Trovarvi solo i contenuti previsti significa tradirne la classicità. Cercare di capire (come farò in questo libro) in che modo I promessi sposi mettano in gioco non solo il genere ma anche l’orientamento sessuale non significa tradirli, ma adempierli. O esaudire il loro invito al viaggio, la loro richiesta di sovrainterpretazioni avventurose. Un classico è un castello in cui c’è sempre ancora una stanza di Barbablù da aprire – per usare la metafora a cui George Steiner affidò il compito di significare il crollo imminente della cultura occidentale, mentre ne è forse la più grande promessa.
Provocazione
Non voglio nascondere, però, che una simile lettura del capolavoro manzoniano ha anche una funzione provocatoria (del resto dichiarata, come si vedrà). In questa frase l’”anche” ovviamente è cruciale, perché non ho certo intenzione di svendere il contenuto di verità del mio saggio. Ma mi sembra onesto, e soprattutto interessante, affrontare anche la sua dimensione di provocazione. Nata, forse, da un’oltranza che finora è stata costitutiva della condizione gay.
Allarghiamo l’ambito, e dal singolo saggio critico estendiamolo a tutta una serie di pratiche di invenzione della tradizione: dall’antologia pederastica di Stratone di Sardi nel II secolo e.v. alle innumerevoli riprese medievali di miti omoerotici greci, dalla lista di sodomiti celebri nell’Edoardo II di Marlowe all’uso mirato dell’elegia pastorale nel corso dei secoli, dalle biografie di Genet e Rimbaud scritte da Edmund White alla redazione di una vera e propria storia letteraria gay come quella di Gregory Woods. Operazioni molto diverse tra loro, che hanno in comune il fatto di tracciare una linea genetica là dove prima c’erano solo il vuoto, l’allusione, o la condanna di una deviazione scandalosa o eccezionale. Ma in fin dei conti, perché tracciarla, questa riga?
La risposta è meno scontata di quanto si potrebbe pensare. Certo, una genealogia serve anche a nobilitare una materia e un’identità ritenute indecenti e indicibili. «Per un uomo invisibile, qualunque riflesso è una consolazione», ha scritto Graham Robb. E il lavoro archeologico arriverà a costituire un cruciale momento di legittimazione e liberazione. Ma questa funzione non è né scontata né esclusiva. Un pedigree gay può venire ricostruito anche in un testo genialmente omofobico come il canto XV dell’Inferno, con il suo rimando ai «litterati grandi e di gran fama» del passato prossimo e remoto, colpevoli di sodomia. E sul versante opposto (ma lo è davvero?) la più “scrittrice” tra le teoriche queer, Eve Kosofsky Sedgwick, può divertirsi a mimare le ansie eziologiche del ricercatore: «Quali erano la struttura, la funzione e il contesto storico dell’amore tra persone dello stesso sesso nelle opere e nella visione di Omero, Platone, Saffo e che cos’hanno significato per loro? E che dire di Euripide e di Virgilio? Se Marlowe era gay, che dire di Spenser e di Milton? E di Shakespeare? Di Byron? Che dire di Shelley? Di Montaigne, di Leopardi? Di Leonardo, di Michelangelo? E Beethoven? Whitman, Thoreau, Dickinson (Dickinson?!), Tennyson, Wilde, Woolf, Hopkins e Brontë? Wittgenstein e… Nietzsche? Proust, Musil, Kafka, Cather e… Mann? James e… Lawrence? Eliot? E che dire di Joyce? La stessa centralità di questa lista e la sua elasticità potenzialmente infinita suggeriscono che nessuno possa sapere a priori quali possano essere i confini di un’analisi gay.» Insomma, la ricostruzione di una autorevole genealogia letteraria (storica, artistica…) gay può funzionare anche come qualsiasi altra stolida e necessaria rivendicazione identitaria, per esempio quella che fonda le letterature nazionali; ma vi aggiunge molto spesso una sua piega particolare. Il bric-à-brac confirmatorio viene sostenuto con passione e al tempo stesso problematizzato, messo in discussione o addirittura in burletta. C’è il gusto di scandalizzare e di spararla grossa, c’è l’omofobia introiettata, c’è l’ironia camp, c’è il ridere della propria vanità – ovviamente senza nessuna intenzione di rinunciarvi. In fondo, chi è che non ha mai finito di dire quello che ha da dire, se non una vecchia checca pettegola? Ecco: il lettore di un classico gay, e (per induzione) il classico stesso, come vecchia checca.
I motivi di questo doppio registro hanno a che fare (ma è sempre un esercizio politicamente pericoloso, fornire le cause di una differenza!) con tutto ciò che ha costituito l’identità gay così come la conosciamo, e che le ha dato un grado di osmosi identitaria (altro che “ghettizzazione”!) ben più alto di quello, per esempio, che scinde e oppone in modo apparentemente netto (benché mai davvero netto, per fortuna) le esperienze e appartenenze in ambito etnico, oppure religioso. Qui bisognerebbe, lo so, storicizzare e distinguere. Ma una cosa si può dire, credo, senza tema di smentite. Entro un gruppo che, dato il contesto omofobico, fino a tempi recenti ha faticato perfino a costituirsi una socialità minima e una trasmissione di pratiche e saperi, tracciare ascendenze e dinastie – in un perenne outing, insieme affettuoso e pungente – è una specie di sport nazionale gay, una vera e propria tradizione dell’invenzione.
E questo comporta un cruciale spostamento di baricentro. Al cuore della costruzione del pantheon letterario risorgimentale, per dire, c’è la mitologia patriottica risorgimentale stessa – nomi, luoghi, frasi, gesti; l’autore della singola ballata o ode o romanzo storico tipicamente si riduce a pura funzione, si annulla nella grandiosità del processo storico, si fa celebrante o coreuta. Là dove questo non accade, se cioè il poeta (spesso ai margini cronologici del progetto risorgimentale: Foscolo, D’Annunzio) entra in campo con tutto il suo spessore automitobiografico, be’, sta accadendo qualcosa di piuttosto gay. Infatti ho l’impressione – o si tratta di un mio stereotipo omofobico? – che al centro della lista di gay famosi o della raccolta di poesie “a tema” non ci sia tanto l’oggetto-feticcio (spesso fuori fuoco: l’artista gay ma forse no, la poesia allusiva, l’amicizia suscettibile di una seconda lettura), quanto il soggetto: lui, il compilatore, con le sue idiosincrasie, le sue identificazioni, la sua sofferenza, la sua malizia, e sempre la coscienza di star compiendo un gesto che (proprio in quanto gesto, prima ancora che per i suoi contenuti) lo identifica come gay. Nessun tentativo di celare che la ricerca delle radici costituisca anche l’appagamento di un desiderio. Nessuna pretesa di negare che, accanto alle ragioni di una lettura (e senza necessariamente denegarle), freme un arbitrio.
Per indulgere a una digressione: è un po’ come per le nozze tra persone dello stesso sesso. Oggi che questi matrimoni sono pubblicamente riconosciuti, è facile dimenticare che hanno alle spalle una millenaria storia segreta. Per limitarci all’era moderna, sono stati celebrati nella Firenze medicea, nella Roma dei Papi, nella Francia del Re Sole, nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, nella Napoli di Serao e Di Giacomo, nella New York di Scott Fitzgerald… Precedenti che commuovono, ma in modo paradossale. Perché non sono riducibili a una mitologia positiva, una secolare battaglia contro il pregiudizio, un moto ascensionale verso i lumi della giustizia e della libertà. Si scrive molto di più sul matrimonio gay che sulla sua storia così lunga e così poco celebrabile. A rigor di termini, forse non è neanche una storia. L’idea di sposarsi dev’essere passata da una generazione omosessuale all’altra in forma di passaparola, o più semplicemente è rinata in ogni epoca ad effetto di urgenze stancamente simili, la repressione, la passione, la devozione, il bisogno di affermarsi contro l’istituzione e nell’istituzione. Non ci sono (almeno fino a tempi molto recenti) empiti civili o coscienza politica in questa trafila: il giovane marchigiano del Quattrocento che confessa tremante di aver scambiato gli anelli con un altro uomo; i due frati napoletani del Cinquecento sposati a due adolescenti secondo un rito composto da «don Priapo de Rumpiendis, Marchese delle Piaghe, Conte dei sodomiti e dei gomorrei»; i portoghesi che negli stessi anni, come racconta Montaigne, si impegnano di nascosto in una chiesa romana convinti che «anche la loro unione sarebbe divenuta legittima se consacrata dalle cerimonie e dai riti della Chiesa», e finiscono arsi vivi; le nozze celebrate nella «Cappella» di un’osteria inglese del primo Ottocento, e subito consumate in mezzo agli astanti; le unioni tra detenuti che negli stessi anni le autorità carcerarie francesi, come racconta il capo della polizia Vidocq, permettevano di celebrare «con una certa pompa»; gli sposalizi nella Napoli umbertina tra «ricchioni» e camorristi «maschi», che appena coniugati diventano magnaccia delle «mogli»; la cerimonia con cui si uniscono nel 1893 due amici di Wilde, Charles Mason e Alfred Taylor, con Mason in abito lungo, e il poeta Pierre Louÿs che confida a Gide: «Sanno come circondare tutto di poesia!»; la cantante blues degli anni Venti, nera, obesa, in smoking bianco ghiaccio, che pubblicizza oculatamente il suo matrimonio con un’anonima donna bianca…
Insomma: amore, questo sì, e sprezzo del pericolo e desiderio di chiarezza, ma anche paura e ingenuità e incoerenza e stereotipizzazione, e una promiscuità meravigliosa e obbligata, e il venire giocati dall’ideologia invece di appropriarsene, e a volte le meschinità degli esclusi. Si arriva con sollievo alla seconda metà del Novecento, quando le nozze gay diventano rivendicazioni lucide e strategicamente provocatorie, come non era quasi mai accaduto nei secoli precedenti. Ma io mi tengo stretta quella preistoria, anzi storia: perché allo sguardo contemporaneo non può che apparire, nonostante tutto, come una storia anche troppo tragicamente lineare, nel suo garbuglio di contraddizioni e contrattazioni spesso concluse e illuminate dall’oscurità del carcere e dai bagliori dei roghi. Essere gay coerenti è anche essere eredi di quella incoerenza. Vergognarsene, questo sì sarebbe tradirla. Mi sento legato alla breve storia della consapevolezza gay, ma almeno altrettanto alla lunghissima pre-storia della nostra inconsapevolezza, fatta di corpi, tremori, ricatti, e di una venerabile tradizione di tradimento. Tradire i sentimenti propri, gli altrui, le istituzioni, la nostra tradizione stessa. Oggi che sono un gay monogamo e magari rispettabile, a questo passato, a tradimento, io resto fedele.
Ecco: una certa modalità di lettura – irrispettosa, traditrice, fedifraga – appartiene storicamente al lettore gay, a prescindere dal giudizio che di volta in volta si potrà dare sulla credibilità dei suoi esiti. (Giudizio che non appena si ipotizza un coefficiente omosessuale in un autore, in un sottotesto, in un richiamo simbolico, si trova sottoposto a condizioni di verifica anomale, eccezionalmente stringenti. Ma questo è un altro, e lungo, discorso.)
Queering
Classici gay, dunque. Ma perché letture queer?
La teoria queer è una scuola di pensiero (filosofico, critico-letterario, critico-culturale, psicologico, sociopolitico…) nata negli anni Novanta dal lavoro di studiose come Teresa De Lauretis, Judith Butler, Eve Kosofsky Sedgwick, e centrata sulla critica dell’identità (soprattutto sessuale e di genere). Critica, non negazione, e tantomeno valorizzazione. Si mettono in discussione la stabilità e la naturalità dei paradigmi identitari esistenti; se ne evidenziano i paradossi; ma non si finge certo che questi paradigmi siano fondati sul nulla, o al contrario che siano dotati di una verità oggettiva e esaustiva. Le filosofe queer mostrano come l’identità conduca a impegnare battaglie sacrosante, ma anche a subire strumentalizzazioni. Ne osservano le variazioni e mutazioni; ne svelano il sottofondo, fatto di identificazioni e appartenenze molto più complesse; ne auspicano, all’occorrenza, un semiutopico superamento. (Ma la categoria del superamento non è la più appropriata a descrivere la proposta queer.) Per fare tutto ciò devono appunto muovere da una conoscenza approfondita del fenomeno identitario. Che non è né liquidabile come una faccenda di etichette, né idealizzabile come realizzazione del sé. E a me questa posizione critica sembra quella giusta, giusta perché particolarmente ragionevole – anche se non ama descriversi con questo aggettivo.
Un discorso a parte andrebbe fatto per quella recente evoluzione degli studi queer che va sotto il nome di «svolta antisociale» ed è rappresentata da figure come Leo Bersani, Judith (ora J. Jack) Halberstam e Lee Edelman. Qui la critica (di matrice foucaultiana) all’identitarismo visto come produzione di soggettività funzionali allo status quo si amplia in un rifiuto radicale di una cultura in cui capitalismo, liberaldemocrazia e egemonia eterosessuale si incardinano su una stessa mitologia politica del futuro che ha alcuni punti fermi: produttività, crescita economica, progresso, famiglia eterosessuale, differenza di genere, fecondità, domesticità, “lavorare per i nostri figli”; al centro appunto l’immagine del Bambino come ipostasi di purezza e valore assoluti, a cui sacrificare tutto. Da questa architettura ideologica gay e lesbiche sarebbero ovviamente esclusi (benché il recente boom delle famiglie omogenitoriali ponga un problema anche politico alle teoriche queer). A tutto ciò il queer antisociale contrappone una serie di prassi (sessuali, politiche, culturali) all’insegna della negatività, delle contingenza, della frammentazione spaziale e temporale, dell’irresponsabilità, dell’oblio, della violenza, della deliberata sterilità e stupidità.
In questo ribaltamento c’è un elemento di provocazione, di marca nichilista o batailliana o punk. Non dobbiamo quindi banalizzarlo riducendolo a un invito a non fare figli o a non chiedere parità di diritti. Però non si tratta neppure semplicemente di ricerca dello scandalo. La «svolta antisociale» va presa sul serio. Se la retorica della vita come valore assoluto (scrive Halberstam sintetizzando il pensiero di Edelman) ha escluso chi non rientrava nella sua ortodossia, consegnandolo entro la sfera di ciò che è negativo, insensato, improduttivo, incomprensibile, questo soggetto queer invece di andare in cerca di riconoscimento dovrebbe «abbracciare quella negatività che si trova comunque a rappresentare strutturalmente». È una vera e propria proposta politico-culturale, analoga all’«approfittiamo della differenza» di Carla Lonzi. Difficile da diffondere, ma orgogliosamente marginale e fiera della centralità del margine, e per certi aspetti condivisibile: penso alla denuncia del familismo antipolitico, della retorica della memoria, del mito della crescita. Ma gravata anche da evidenti punti deboli. Il capitalismo neoliberista, quello del precariato e del mercato del lavoro globalizzato, sembra ben più intonato alla flessibilità queer che a un modello sociale borghese tradizionale. E poi non si può liquidare il desiderio di avere figli e di costruire un futuro per loro, o la necessità di garantire ai bambini un contesto formativo relativamente stabile, come meri effetti della retorica liberalcapitalista. Esiste del resto (soprattutto in Halberstam, che qui si distacca da Edelman) una opzione antisociale ma non apolitica, una negatività che comporta un agire positivo. E questa ipotesi va articolata meglio, se non vuole tradire la profondità del proprio progetto tralasciando ogni riflessione realmente propositiva sull’omogenitorialità. Quanto a me, penso che le famiglie fondate da gay e lesbiche possano essere un luogo di innovazione socio sessuale: negli scritti che seguono si troverà anche qualche accenno in questo senso.
A volte la critica della positività comporta anche una denuncia del mito del parlar chiaro e del pragmatismo comunicativo. Halberstam scrive per esempio: «Credo che l’illeggibilità possa essere considerata un modo per sfuggire alla manipolazione politica alla quale sono soggette le discipline accademiche.» Questo è un riferimento al pensiero di matrice anarchica del politologo e antropologo James C. Scott, secondo cui è pericolosamente «leggibile» l’ordine ambientale e epistemico imposto e strutturato dal potere. È significativo che qui «illeggibilità» sia esso stesso un termine tecnico, illeggibile per il profano… Il pensiero queer spesso si traduce in un scrittura difficile, affondata in una terminologia tecnica che ostacola il dialogo. Ne sono stato testimone occasionale: uno spettacolo desolante – un linguaggio che gira a vuoto perché non è abituato a tradursi. Naturalmente molte discipline altamente specialistiche risentono di difficoltà analoghe, almeno in parte inevitabili, ma nei confronti della teoria queer c’è più impazienza, per l’autorevolezza che si è guadagnata ma anche per l’assoluta centralità e attualità dei temi trattati (politiche identitarie, conflitti culturali, femminismi, sessualità, status dell’arte e altro ancora). Temi, tra l’altro, così sensibili che una divulgazione non perfettamente calibrata rischia di fare danni. L’identità è in gran parte una questione di nominazione, ed è comprensibile che chi la studia con rigore non voglia fare concessioni a prassi lessicali disinvolte. So anche, però, che la lingua è materia viva: se la fermi la uccidi. Non mi sono mai posto l’obiettivo di “divulgare” la prospettiva queer, ma sono convinto che una metafora pertinente e suggestiva sia meglio di un termine tecnico pertinente e basta; o almeno possa affiancarsi ad esso, in modo che chi legge non abbia l’impressione di sprofondare in un manuale di diritto romano. Ricorro con parsimonia al linguaggio tecnico queer, anche per una scelta di metodo che predilige la pratica di lettura rispetto alla riflessione teorica.
E la centralità della lettura non è forse un tratto calviniano? Un classico produce interpretazioni sempre nuove e si porta addosso «la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra», però non si ferma qui: «provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso». È più forte delle interpretazioni a cui temporaneamente si assoggetta e di cui (questa è una visione da scrittore) volta a volta si sbarazza, come di detriti o parassiti. Non esistono letture definitive. Anche le più autorevoli arricchiscono il testo senza incorporarsi ad esso, ed è proprio questo che permette ad altre letture di prendere il loro posto. Il classico è un libro che non può non dirsi, non può cessare di dirsi; pur restando sempre uguale continua a proporre nuove versioni di se stesso; pur avendo un’identità ben definita la traduce in performance sempre nuove. Quella di Perché leggere i classici è una visione profondamente queer. A dimostrazione del fatto che questa prospettiva di pensiero è intimamente in sintonia con il processo creativo.
Quanto a me, se ho scelto di descrivere il mio lavoro come ”letture queer” è per due motivi. Il primo è che questa paroletta mi ricorda costantemente che non devo presupporre l’oggetto del mio studio (e in particolare le categorie identitarie), ma interrogarne i caratteri e l’esistenza stessa. La frase di Sedgwick che ho citato in precedenza è tratta da una sezione di Epistemology of the Closet dal titolo esplicitamente assiomatico: «La relazione tra i gay studies e i discorsi sul canone letterario è, e deve essere, tortuosa». Anche per questo motivo ho sottolineato qui il carattere non lineare del nesso (che pure esiste e può venire indagato) tra identità e scrittura – una tradizione gay, per esempio, non è una tradizione scritta solo da gay o solo per i gay; e di conseguenza, quello che chiamerei il tratteggio di ogni discendenza culturale gay: una forma di continuità che si produce in un contesto di discontinuità, come le linee tratteggiate che negli alberi genealogici segnalano la filiazione illegittima. Il queer come invito al dubbio, insomma. Come predisposizione alla sorpresa. Che trova il suo oggetto naturale in libri che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire. Oggi che molte opere contemporanee danno la stura a letture confirmatorie, i classici devono tornare a essere oggetto di letture imprudenti; e Calvino, con la sua idea vitale di classicità, può aiutarci a pensare letture simili.
Il secondo motivo è che sono io stesso un lettore molto prima che un teorico della letteratura. Il queer per me, ma forse oggettivamente, è una pratica di lettura di testi specifici prima ancora che una teoria. È vero che il pensiero queer è naturaliter teorico, sia perché di matrice filosofica, sia per la sua vocazione autoriflessiva: un approccio critico dotato di un’identità forte che si propone di riconsiderare lo statuto delle identità non può che rivolgere le proprie armi contro se stesso! Ma è anche vero che una critica del pensiero statico e paradigmatico – identitario, appunto – non potrà che essere innanzi tutto un fare. Di qui il fortunato neologismo to queer, queering: appunto un verbo, un’azione.
Ho fatto ricorso a questo approccio con intensità variabile da saggio a saggio. Meno presente negli scritti più lontani nel tempo (Isherwood, Auden, Proust), è più riconoscibile in quelli su Manzoni e Dante, che sono tra i più recenti e parlano di tradizione, di classicità, di omofobia, di Italia – tutte cose apparentemente solide e ovvie che possono trarre buon frutto dall’energico queering che ho almeno tentato. È anche un’occasione per mostrare come la riflessione sull’identità abbia ricadute politiche immediate e concrete. I due pezzi che ho raccolto nell’Appendice, Altre arche e Altri diluvi, vogliono fornirne un esempio. E costituire un ultimo omaggio alla lezione di Calvino, che chiudeva Perché leggere i classici proprio parlando del presente. Bisogna attualizzare i classici leggendoli senza mai perdere di vista l’epoca da cui li si legge: «altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo».
[Immagine: W. H. Auden and Christopher Isherwood, 1937, photo by Howard Coster].
La riproduzione della specie è questione negoziabile?
Sì. Il valore di “specie” non è autoevidente e “la specie” in sè non esiste, al di là dei confini della sua definizione. E’ con tale definizione che si influenza direttamente la “riproduzione”, facendole acquisire la sfumatura semantica di “missione divina”; il che equivale ad una mistificazione. Nessuno si “riproduce per la prosecuzione della specie” (a meno che non si faccia parte di una setta?)
@tommaso
non ho ancora nemmeno visto materialmente la tua antologia.
volevo chiederti se includi anche goffredo parise, soprattutto “il ragazzo morto e le comete” dove si staglia la figura queer di zeno (aborrita notoriamente da gadda che proprio a causa di essa alla fine rinunciò a prefare la seconda ed. del ragazzo morto) e “gli americani a vicenza” i cui capitoli centrali sono addirittura un trionfo queer (se avrai modo, cfr. il mio saggio sull’ultimo “acme”).
sì, “classici gay” (come del resto “classici viventi”) è un ossimoro, anzi un “”ossimoro vivente” (una traduzione italiana consona di queer?)
e sempre a prop. di parise, forse saprai che nel deuteragonista del ragazzo morto goffredo ritrasse il suo amichetto e coetaneo di strada raul rossetti (ci sono lettere giovanili incandescenti tra i due conservate nel fondo comisso alla biblioteca comunale di treviso)
goffredo & raul: un chiasmo vivente, voyou entrambi, il primo voyeur, il secondo gay:.
raul infatti a metà anni cinquanta emigrò in belgio e nelle sue memorie (“schiena di vetro”) non a caso il sesso è legato, non solo ambientato in minier, nelle viscere della terra (ciò mi richiama la “metafora speleologica” che tu citi e che in raul è ben più di una metafora).
Rispondo a Stefano.
Non intendevo nè intendo porre questioni di appartenenza né analisi specifiche ma solamente una prospettiva: la riproduzione dell’uomo prescinde dalla sua specificità de quo ma non può prescindere dal proprio riprodursi che, sappiamo, essere effetto di un incontro tra i due sessi.
La mia domanda voleva e vuole porsi in senso malthusiano.
Ove peccassi di soffice polemica questa deriva proprio dalla constatazione della crescente popolazione omosessuale.
Questa sede per cultura, per padronanza di senso mi ha persuaso a porre la mia perplessità.
Grazie.
@tommaso
parli di “condizione gay”, ma condizione ha un’accezione statica che contrasta col nucleo del tuo discorso. meglio secondo me sarebbe parlare (anche in ambito letterario) di pratica queer.
spesso si dice di uno che è più avanti della sua teoria: mi sembra il caso tuo, di conduttore almeno, nel senso che a fahrenheit non ti ingabbi in una condizione di giustizia formale, ma muovi i confini anche temporali secondo un’ottica di giustizia sostanziale. ad es. qui
http://www.fahrenheit.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-74fa200c-d39c-4f15-ab16-bf412f0bcc0e.html#p=0
@db
Grazie per le informazioni, che non conoscevo, su Parise. “Non aver mai finito di dire” non è un’antologia, ma una raccolta di saggi con un filo conduttore; Parise purtroppo non vi compare.
Grazie anche per ciò che scrivi gentilmente sulle mia conduzioni radio. Non mi è chiaro il tuo discorso sulla giustizia formale e sostanziale. Quanto alla “condizione” gay, comprendo la tua obiezione, e altre se ne potrebbero fare, ma parlare di “pratica” o “pratiche” gay non mi ha mai convinto, sia perché in molte esistenze gay non si pratica affatto, sia perché il termine evoca una dimensione di scelta deliberata, mentre l’esperienza gay è stata ed è ancora più o meno spesso vissuta come una necessità o addirittura unì’imposizione. “Condizioni”, al plurale, andrebbe meglio (ciò che è plurale è meno statico), ma purtroppo la grammatica non ci aiuta: le “condizioni” sono i presupposti o i vincoli contrattuali. Forse “esperienze”, appunto, o “esistenze” (un uso in voga nella teoria queer), potrebbe funzionare. Prometto che ci penserò.
Segnalo questo libro d’amore gay di un attivista LGBT che a me è piaciuto molto:
Il gatto nero e l’amarillys
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