di Lorenzo Marchese
È inevitabilmente complesso e non lineare il rapporto fra un prodotto cinematografico (o seriale) e un romanzo che per intero appartiene alle retoriche letterarie – un’opera cioè non concepita sin dall’inizio dal suo autore come appendice di prodotti d’intrattenimento audiovisivo, o composta con un occhio già rivolto a una sua potenziale e vantaggiosa convertibilità. Se nel ‘900 libri e cinema, anche nella produzione non d’intrattenimento, si scambiano strumenti e linguaggi di continuo, e nella letteratura recente possiamo trovare ingenti prestiti letterari contratti nei confronti dei linguaggi massmediatici (non solo il grande schermo, ma anche i format televisivi, la pubblicità, i videogiochi), è quasi impossibile che da un romanzo vero possa uscire una trasposizione cinematografica fedele: i due linguaggi non sono ancora, per adesso, complanari. Ci sono strategie, tecniche e discorsi che rendono unici e poco appetibili per un pubblico di spettatori testi come quelli di Roth, Wallace, Houellebecq o, restando all’Italia contemporanea, Casanova di se stessi di Busi, Via Gemito di Starnone, Il contagio di Siti. Anzi, il fallimentare adattamento di Botrugno e Coluccini del 2017, sin dal trailer che cerca invano di incanalare Siti nella crime series made in Cattleya, è di per sé una grande prova a supporto della tesi dell’irriducibilità.
E poi, naturalmente, ci sono le eccezioni. Una questione privata di Beppe Fenoglio[1], uscito postumo nel 1963, ne è l’esempio più straordinario. Il romanzo, che leggiamo nella sua terza redazione, potrebbe essere descritto senza problemi pescando dal linguaggio cinematografico. La narrazione è fatta di blocchi staccati, una vera e propria serie di riprese, alternati a flash-back raccontati dalla viva voce dei personaggi o semplicemente ricordati da Milton (la sua coscienza è il filtro esclusivo usato dal narratore per raccontarci la storia). Anche l’alternanza di frequenti dialoghi serrati e azioni risolte in modo fulmineo, accompagnate da segmenti narrativi quasi didascalici, va nella stessa direzione. Si tratta di un romanzo essenzialmente visivo, in cui Fenoglio ci porta nel corso della lettura a crearci nell’immaginazione una sorta di “film interiore” della sequenza di avvenimenti, inscritti in un vero e proprio montaggio di spezzoni di racconto che si alternano a blocchi di pensieri angosciati di Milton. Ad arricchire il quadro (senza confutare l’ascendenza cinematografica), l’elemento visivo fa volontariamente attrito con uno dei temi profondi di Una questione privata. Lo sforzo insensato di capire se l’amata Fulvia ha davvero fatto l’amore con l’amico fraterno Giorgio porterà Milton ad abbandonare temporaneamente la lotta partigiana e a far uccidere tragicamente, per rappresaglia dopo che Milton uccide per sbaglio un fascista che aveva fatto prigioniero per scambiarlo con Giorgio, le staffette partigiane Riccio e Bellini. Alla base del libro di Fenoglio c’è un’innegabile spinta tragica, che si riassume anche nella tensione irrisolta fra la volontà di vedere e capire di Milton (che prende il nome dal poeta cieco per antonomasia dopo Omero) e l’ostinazione a non voler vedere alcune evidenze: che probabilmente c’è stato davvero qualcosa fra Fulvia e Giorgio; che Giorgio, catturato dai fascisti, è probabilmente già morto o si è ucciso; che tutta la ricerca della verità da parte di Milton non porterà a nulla se non alla rovina[2]. La nebbia, in questo senso, è una condizione onnipresente e non solo atmosferica: porta la cecità fuori dall’interiorità dei personaggi, si fa elemento scenografico e tematico, preannuncia il senso tragico di una volontà di vedere che non ha alcuno scopo se non la rovina del suo protagonista.
Alla lettura del testo, una profonda influenza del linguaggio dei film è evidente. In realtà, il libro fu scritto in parallelo a una scrittura cinematografica per un film di Giulio Questi che non vide mai la luce. Ne fa fede una lunga lettera al regista Giulio Questi databile all’inizio del 1960, che non riporto per ragioni di spazio. Bufano, il curatore dell’epistolario fenogliano, nota a riguardo:
Dopo l’uscita di Primavera di bellezza, entusiasta del libro, [Giulio Questi] aveva contattato Fenoglio proponendogli di scrivere insieme un soggetto per il cinema, e per fare la sua conoscenza si recò ad Alba. Anch’egli ex partigiano, ricorda di aver subito fraternizzato con Fenoglio e di aver lavorato con entusiasmo al progetto per alcuni mesi, ottenendo fra l’altro l’appoggio del produttore Franco Cristaldi. […] Si tratta, com’è evidente, dell’embrione di Una questione privata. L’idea del libro è comunque sin dall’inizio complementare, non alternativa, a quella della sceneggiatura cinematografica: alla pagina 5 del dattiloscritto (ottavo paragrafo della lettera) si legge infatti il seguente inciso: «Nel romanzo mi varrò di questa marcia [di avvicinamento a Canelli] per narrare, con inserti e monologhi interiori di Milton, i precedenti di Milton e di Giorgio Clerici»[3].
Dalla natura intrinsecamente cinematografica di QP si trae una spiegazione plausibile per la sua struttura serrata, la sua coesione, la qualità della presentazione delle sue vicende, dove «i personaggi sono totalmente subordinati all’azione, e (…) l’accento, anziché sul soggetto (sulla virtualità di scelte cioè), cade sul predicato»[4]. Insomma, se le trasposizioni letterali in film della grande letteratura sono, tendenzialmente, nocive e appiattenti, per Una questione privata il lettore ha sempre la sensazione che potrebbe accadere esattamente il contrario. Il “film interiore” non è così irrealizzabile, nel caso di Fenoglio: per avere un ottimo adattamento, basta prenderlo così com’è. Non è un libro scritto fuori dalle logiche del cinema.
Per tutte queste ragioni era lecito nutrire grandi speranze sull’ultimo film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (sceneggiato da entrambi ma diretto solo dal primo), «liberamente ispirato al romanzo Una questione privata di Beppe Fenoglio» come recitano i titoli di testa. Sfortunatamente, ne è venuto fuori solo un buon film. Si è scelto di essere fedeli a metà, e la sensazione è che non ce ne fosse poi un grande bisogno. Da una parte, è sacrosanto che dei registi di tale personalità e rigore decidano di imprimere una direzione netta e scelte precise di stile alla loro pellicola; dall’altra, queste scelte talvolta sottraggono forza alla narrazione e sembrano minare la coesione, i temi, i contenuti di un libro di cui fare l’adattamento senza tradire nulla di importante era, in fondo, non troppo difficile – magari allungando di un poco gli scarni 84 minuti finali. Alcune scelte sono compiute nel segno di una comprensione profonda e di una grande sensibilità verso il testo fenogliano, come ci si aspetta da autori che da decenni portano, talvolta con grandi risultati, la letteratura al cinema. Così, abbiamo una fotografia notevole, buone musiche, con l’azzeccata scelta di fare della canzone Somewhere Over the Rainbow, canto dell’Eden amoroso ormai perduto nel libro, un refrain della colonna sonora. Ottima la scelta del trio di attori Richelmy-Bellè-Marinelli (esclusa la patina romanesca dell’ultimo, ma si è scelto di farlo parlare pochissimo: e quando impersonerà il genovese De Andrè per la fiction di Rai1 in uscita l’anno prossimo?). I tre esprimono bene l’irruenza, la malizia e la spontaneità, i tratti da giovanissimi che Fenoglio voleva per i suoi protagonisti: la Resistenza, per lo scrittore, era una cosa da ragazzi, e l’assolutezza dell’esperienza da partigiano aveva molto a che vedere con la poesia e con l’adolescenza. Non va dimenticato tuttavia, tanto per cominciare, che i ragazzi di Una questione privata vengono dal nulla, non hanno famiglia, non hanno legami col mondo di prima – Fulvia è per Milton l’unica eccezione a questa regola, e perciò lo porta a perdersi e a seminare rovina. Appartenendo al mondo tempestoso della Resistenza sulle Langhe, persino le loro famiglie sono un ricordo lontano che non crea rimpianti. Per questo stona un po’ il passaggio pur interessante del film in cui Milton torna in paese e abbraccia per un attimo i genitori senza farsi notare dalle sentinelle fasciste.
Anche i flash-back dei momenti felici dell’amore inconcludente di Milton per Fulvia, alla villa, sono rielaborati molto bene: uno solo sembra depotenziare l’originale fenogliano. La sequenza in cui Fulvia si arrampica sull’albero per prendere le ciliegie è, nel romanzo, un incrocio fra la seduzione consapevole di Fulvia («Lui [Milton] arrivò a pensare che Fulvia tardasse apposta perché lui si decidesse a farlesi un po’ più sotto e scoccarle un’occhiata da sotto in sú», QP, 993) e vero e proprio terrore di Milton all’idea della seduzione («Invece indietreggiò di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano», Ibidem). Nel film tutto questo si perde un po’, rimane inespresso allo stadio di una malinconia un po’ generica, con Milton che guarda sotto la gonna di Fulvia ma si limita a sorridere e non dire niente, mentre la ragazza sale a raggiungere Giorgio sui rami.
Sono conservate alcune tecniche in senso lato cinematografiche del romanzo, come l’alternanza fra primi piani di Milton, invischiato nella sua gelosia ossessiva, e i campi lunghissimi dei paesaggi nebbiosi e cupi delle Langhe. Qui si mostrano, però, alcune incoerenze pesanti. I Taviani hanno scelto di girare il film per lo più nella Valle Maira, una valle alpina nel cuneese, a loro dire per la devastazione delle Langhe causata dai troppi vigneti[5]. Però le Langhe di Una questione privata sono quelle della cosiddetta Bassa Langa, fra il Tanaro e il Belbo: colline. Invece una buona parte del film si svolge appunto in scenari alpini, ad alta quota. Prima conseguenza di ciò è che perde di efficacia il paesaggio, non semplice corredo ma elemento incaricato in Fenoglio, secondo i dettami del Romanticismo inglese, di riflettere l’interiorità dei personaggi e anticipare temi ed esiti della narrazione. Per dirla breve, c’è troppa montagna e anche un po’ troppo sole per una storia immersa in una nebbia che priva di coordinate i suoi personaggi, li immobilizza, li separa. Il sole, dopotutto, entra nel romanzo di Fenoglio solo come allucinazione di un fascista condannato a morte: «Ed io al caporale: “Alzati”. “Ma sì, fa lui, – togliamoci dal sole”. E nota che pioveva grosso un dito», QP, 1997. Un passaggio cassato nel film, ma rimpiazzato magnificamente dal personaggio muto del prigioniero fascista che s’improvvisa batterista di jazz, talmente matto che nessuno lo vuole nemmeno per uno scambio. Il suo air drumming di pura follia provoca un rispecchiamento perturbante in Milton, che vede nel prigioniero fascista un compagno di ossessioni distruttive: eloquente, a questo riguardo, la sequenza in cui il suono di batteria jazz rimbomba nella testa di Milton e si dissolve nel rumore analogo di una scarica di mitra. L’unico elemento che si perde, pure qui, è ancora quello del paesaggio cupo, grigio. La nebbia e il freddo, che non si risolvono nella neve («-Non è strano che a quest’epoca non abbia ancora nevicato?», QP, 2016), portano il presagio di un inverno eccezionalmente lungo, che fa da contraltare a una guerra di cui non si vede alcuna risoluzione.
Ovviamente si può ambientare, poniamo, Cime tempestose ai Caraibi, o portare in scena un Macbeth con ambientazione e costumi voodoo (come fece Orson Welles con la sua riduzione teatrale nel 1936), ma la sovversione degli scenari di partenza dev’essere totale e mantenere una sua linea coerente: facendo le cose a metà, con un po’ di pioggia e un po’ di sole, un po’ di collina e un po’ di montagna, il racconto si sgrana. O anche, per citare un’altra incoerenza, i partigiani del romanzo di Fenoglio obbediscono alla logica del sangue-chiama-sangue, non fanno mai prigionieri, tanto che la ricerca di Milton di un prigioniero da scambiare con Giorgio suona molto strana alle orecchie dei compagni («-Io ero venuto per una cosa importante e urgentissima. Avete un fascista prigioniero? -Noi? Noi non ne abbiamo mai. Noi li perdiamo nell’istante stesso che li facciamo. -Noi non siamo più teneri di voi, – disse Milton. – Prova ne sia che non ne abbiamo e siamo venuti a chiederne a voi», QP, p. 1991). I giovani guerrieri uccidono senza troppi scrupoli di coscienza, anche se mai “a freddo” fuori dal contesto della battaglia (e Milton, uccidendo per sbaglio il suo prigioniero, contravviene alla regola non scritta). Nel film tutto questo si disperde e si annacqua: Sceriffo si mostra ben disponibile ad aiutare Milton a trovare un prigioniero (dalla cordialità generale non sembra che i personaggi stiano facendo una guerra), il fascista batterista di jazz è tenuto all’accampamento (quando nulla impedirebbe di ucciderlo, a logica), il furore vendicativo contro i fascisti, nonostante la reiterazione nella pellicola dell’etichetta di «scarafaggi», si attenua. Se di solito il film intensifica i passaggi di un’opera, screma i dettagli, toglie le sfumature a favore delle tinte forti, qui avviene in maniera controintuitiva l’opposto, si smorza.
Il discorso vale a maggior ragione per la scelta degli episodi. I flash-back della villa sono stati ripresi bene, ma non sono gli unici del romanzo. Nella lunga sosta notturna in casa di una vecchia, insieme ad altri compagni (sezione completamente stravolta e diminuita nel film), il partigiano Maté narra di un’esecuzione partigiana per punire una maestra fascista. La donna viene rapata a zero e la visione della sua testa pelata, segno di una sessualità minacciosa e conturbante che permea tutto il libro (sin dall’immagine di Fulvia) provoca nei partigiani un’eccitazione che sfocia in una masturbazione collettiva. Della potenza dell’episodio non rimane nulla: il tono pudico di Fenoglio viene ulteriormente depurato fino a diventare algido, sebbene la sessualità immancabilmente repressa dei giovani eroi di Una questione privata fosse un tema dirompente nel testo scritto. Appena prima del racconto della maestra fascista, Milton difende davanti agli altri l’eroismo di Giorgio, visto con sospetto dagli altri partigiani perché ha modi e usanze troppo borghesi e da studente. Milton riporta di una spedizione di lui e Giorgio al cinema Corino di Alba, dove Giorgio minaccia di «buttarsi a morire» (QP, 2042) per non farsi catturare dai fascisti: il protagonista vuole provare così l’eroismo di Giorgio, ma non riesce a vedere che, involontariamente, sta dando un ottimo argomento all’ipotesi che l’amico catturato sia già morto, evento che lo farebbe crollare definitivamente. Difatti quando termina il suo racconto, Maté commenta: «- Mi sa che Giorgio si scorcia da solo, se già non gliel’hanno fatto loro», Ibidem. La difesa di Giorgio, nel film, passa per un racconto del tutto diverso, in cui Milton ricorda come Giorgio si fosse bruciato dei fiammiferi sul braccio per dimostrare alle nuove reclute che resistere alle torture è possibile. Come si intuisce, il senso dell’aneddoto (Giorgio pur di non cedere ai fascisti è disposto a morire, quindi Milton non saprà la verità) è in parte stravolto e perde la sua carica di netto presagio di morte; lo prova anche la veloce ripresa sulla nuca di Giorgio mentre aspetta, in carcere, di sapere che ne sarà di lui e fuori Riccio viene fucilato per rappresaglia dai fascisti. Nel libro, Giorgio non compare praticamente mai in scena e non dice nulla direttamente – il che rafforza in Milton e negli altri il sospetto che morirà.
Infine, ci sono le scelte che distorcono palesemente il senso di Una questione privata e inducono all’esagerazione di pensare che fra il libro di Fenoglio e il film dei Taviani non ci sia alcun rapporto profondo, ma solo una sconcertante omonimia. Fra le scene aggiunte, una nota di demerito spetta a quella in cui una bambina, che giace insieme ai familiari fuori da una casa appena devastata da una rappresaglia fascista, si alza da terra, dove si ammassano i cadaveri degli altri, entra in casa, beve un bicchiere d’acqua e poi torna a terra e richiude gli occhi. Non stonerebbe in un adattamento dei Promessi sposi questa sequenza che ha parecchio dei toni della manzoniana “madre di Cecilia”. Ma, così enigmatica e scollegata dal resto di una narrazione che, nell’opera di Fenoglio, di enigmatico e frammentario non ha assolutamente nulla, la scena finisce per diventare suo malgrado pretenziosa.
Il finale del film, da questo punto di vista, è il vero banco di prova. Il libro si conclude, nella sua ultima redazione, in modo indimenticabile, per quanto non sia del tutto chiaro se sia davvero concluso o manchi di un pezzo ulteriore. Milton, tornando alla villa di Fulvia, trova i fascisti, viene visto e inseguito da loro. Si dà a una corsa disperata, un’allucinazione in cui si alternano lo straniamento (corre inseguito da pallottole che non lo colpiscono mai, sembra un fantasma a quelli che incrocia) e la disperazione suicida (tenta di strangolarsi da solo, chiede fra sé e sé che gli sparino in testa). La corsa spettrale di Milton oltre ogni ragione, anche dopo aver seminato i fascisti, è la messa in figura dell’inchiesta disperata che l’ha portato a perdersi per ossessione di Fulvia. Era anche l’occasione per fare delle scelte coraggiose di regia, per rendere questa allucinazione in immagini. Questo non è avvenuto. Il rifiuto di Milton di finire in brandelli, perché lui preferirebbe una morte eroica, è chiaro in Fenoglio: «Ripuntò al ponticello minato. Era una morte identica a quell’altra, ma agli ultimi passi il suo corpo pianse e si rifiutò di saltare in aria a brandelli. Senza l’intervento del cervello, frenò seccamente e saltò nel torrente volando oltre i cespugli tranciati dalla fucileria», QP, 2061. Per qualche motivo, i Taviani invertono il passo e presentano Milton che salta ripetutamente sul ponte nella speranza di esplodere: ma così si mina il significato dell’intero passaggio. Ciò che è meno perdonabile, la corsa di Milton nel film si spezza, intervallata da alcuni punti in cui il protagonista passeggia: non ha nulla dei caratteri stravolti che rendevano unico il finale fenogliano. Che la lettura “negativa” del finale fenogliano (ormai accettata da buona parte degli studiosi) non sia condivisa dai registi, lo prova il finale. Milton, un po’ correndo e un po’ a passo svelto, è arrivato in vetta, su una radura. Esce dalla nebbia, in una nuova chiarezza non solo metereologica, si gira indietro e dice agli spettatori, con uno sguardo sorridente sospeso nel vuoto «Fulvia, a momenti m’ammazzavi!». Nel divario di un imperfetto sta tutta la differenza di prospettiva sull’intera opera. Nel romanzo, Milton è attraversato da pensieri sconnessi e veloci come i proiettili che lo stanno inseguendo, fra cui l’incredulo «Fulvia, a momenti mi ammazzi!», e poco dopo crolla nei boschi, ormai accecato dalla sua pazzia e separato da tutti. Nel film, il verbo al passato e il sorriso di Marinelli aprono a un’interpretazione ottimista: l’ossessione per Fulvia ha portato Milton vicino alla morte, ma ora è finita, lui è guarito, può andare avanti da qualche parte oltre l’arcobaleno. Una lettura a dir poco insoddisfacente, che perde la radicale negatività del finale. Il suo aspetto aperto, a rigore, sarebbe stato facile da rendere in immagini, magari con un campo lunghissimo sul bosco entro il quale Milton crolla, certamente non con questa sordina che apre a un inverosimile lieto fine.
I Taviani hanno scelto di evitare la strada più facile, cioè prendere il libro e trasporlo così com’è: non è detto che sia stato del tutto un bene. Il risultato è felice quanto più si avvicina all’essenza di un libro già così intimamente cinematografico. Lo è meno nel momento in cui si è deciso di interpolare la narrazione con scelte che minano la coerenza di una storia, quella fenogliana, che, persino senza il placet finale di Fenoglio (morì prima della pubblicazione, e non è certo che volesse farla uscire), è talmente rigorosa, unitaria e coesa da poter essere reinterpretata, ma non rimanipolata senza guastarla.
[1] Le poche citazioni del libro di Fenoglio in questo pezzo vengono da Beppe Fenoglio, Una questione privata in Opere, edizione a cura di Maria Corti, Torino, Einaudi, 1978, I, 3, e sono fatte a testo con la sigla QP seguita dal numero di pagina.
[2] V. Maria Grazia Di Paolo, Beppe Fenoglio fra tema e simbolo, Ravenna, Longo, 1988 e Gabriele Pedullà, La strada più lunga. Sulle tracce di Beppe Fenoglio, Roma, Donzelli, 2001. Ho parlato di alcuni di questi temi nel mio Tragico e tragedia in Una questione privata, nel fascicolo Beppe Fenoglio cinquant’anni dopo, a cura di Alberto Casadei, «Italianistica», XLIII, 2, 2014.
[3] Commento di Luca Bufano a Beppe Fenoglio, Lettere 1940-1962, edizione a cura di Luca Bufano, Torino, Einaudi, 2002, p. 127. Nel volume c’è anche la lettera qui non citata. V. anche la testimonianza recente di Questi in un’intervista: «Arrivai ad Alba. Ci incontrammo in trattoria. Avevamo storie molto simili alle spalle. Simpatizzammo. Disse che stava lavorando a un racconto: Una questione privata. Sulla tovaglia di carta buttammo giù una scaletta. Poi si fece tardi. Mi disse che doveva rientrare. Ci ripromettemmo di restare in contatto. Che anno era? Era il 1960. Ci scambiammo alcune lettere. Poi non ebbi risposta», Antonio Gnoli, Giulio Questi: “Tra la Resistenza e i film western, la mia vita è un’eterna incompiuta”, «La Repubblica», 27 aprile 2014, qui: http://www.repubblica.it/cultura/2014/04/27/news/giulio_questi_tra_la_resistenza_e_i_film_western_la_mia_vita_un_eterna_incompiuta-84617961/.
[4] Elisabetta Soletti, Beppe Fenoglio, Milano, Mursia, 1987, p. 186.
[5] Clara Caroli, I Taviani portano Fenoglio sullo schermo, ma non nelle Langhe, «La Repubblica», 1 novembre 2017, qui: http://torino.repubblica.it/cronaca/2017/11/01/news/i_taviani_portano_fenoglio_sullo_schermo_ma_non_nelle_langhe-179948014/.
[Immagine: Paolo e Vittorio Taviani, Una questiona privata]
“ Lunedì 26 gennaio 2004 – Ripenso al film tv dei fratelli Taviani: è del tutto evidente che la colpa essenziale dell’aristocratico democratico che poi finisce bruciato insieme ai suoi libri è quella di avere parlato dall’alto – tutto il contrario del fratacchione sanfedista che aizza la plebe restando « a vascio ». (Il film, in ogni caso, « dice » questo) “.
Pezzo ottimo e assai opportuno, ne condivido pressoché tutti i rilievi. A monte dei quali, e a parte l’accento in effetti assurdo del per altri versi azzeccatissimo interprete protagonista, la vera debolezza di un film per altri versi commendevole mi è parsa essere la distanza degli autori cinematografici da quello letterario cui si ispirano. Distanza in termini, più che “rematici”, stilistici. Il racconto lungo di Fenoglio è sintatticamente in tensione continua con la dromomania cui è coatto il suo personaggio (per questo forse l’unico rilievo di Marchese che non condivido è quello del ritmo ineguale del finale – col quale forse si tenta di “rispondere” a questa ambivalenza stilistica di Fenoglio), alternando momenti di stasi torturante (come all’incipit) a momenti vorticosi (come appunto nel finale). Ma il linguaggio dei Taviani, prendere o lasciare, è un linguaggio fondamentalmente statico, meditativo più che contemplativo. Poi ci sarebbe da discutere dell'”impossibilità” del finale del racconto, preterintenzionalmente o meno ma oggettivamente “aperto” (Milton muore o sopravvive? è la medesima ambiguità del finale di Johnny – almeno nelle edizioni Mondo e Isella), che il film deve necessariamente (necessariamente?) sciogliere. Ma qui ci sposteremmo in sede di teoria comparata dei media e non era questo, verosimilmente, l’oggetto del pezzo.
Caro Andrea Cortellessa, la ” teoria comparata dei media ” mi interessa moltissimo. That’s the question, oserei dire.
piacere di conoscerla (si fa per dire) Adriano Barra, leggo spesso con ammirazione i frammenti infiniti del suo infinito testo. Beh, arduo solo impostarla, the question. Direi che per cominciare bisognerebbe riprendere, e ridiscutere, quello che dice Pasolini, in «Empirismo eretico», sul cinema come «lingua scritta della realtà». Si diceva una volta, in gergo semiotico, che la presenza (altri, post-idealisticamente, avrebbe detto «astanza») del «profilmico» costringe il cinema a un’aderenza oggettiva al referente che, per dirla con Peirce, è frutto della natura «indicale» del medium (la questione è stata più dibattuta, mi pare, in ambito di teoria della fotografia). Ma oggi, in epoca post-digitale, tutto ciò sarebbe da ripensare. O no?
“ Lunedì 1 settembre 2008 – « Passo vicino a un cinema. Faccio di tutto per non guardare i cartelloni. Li sento dietro l’occhio sinistro i cartelloni: cercano di calamitarmi la vista, i cartelloni. Ci resisto. Ogni volta che passo vicino a un cinema è una battaglia che faccio per non guardare i cartelloni… Non guardare… È bello entrare nel cinema senza sapere che cosa danno… I cartelloni cercano di attrarmi la vista con violenza… Dai, che ce la faccio… Entro nel portone. Qui la lotta coi cartelloni si fa più dura; da una parte e dall’altra dell’androne, i fotogrammi mi richiamano. Accelero il passo, attraverso il cortile, dove, anche qui, i cartelloni vogliono farsi vedere… Quando entro nell’atrio tiro un sospiro di soddisfazione. Anche nell’atrio ci sono cartelloni, ma sono in alto, sono di film futuri, non mi fanno niente… » (Lucio Mastronardi, Il meridionale di Vigevano, 1964) [*]
[*] Piacere di leggerla, Andrea Cortellessa. L’ammirazione, mi creda, è tutta mia.
“ Domenica 22 giugno 1997 – « Gadda trovava spesso occasione di scrittura nelle illustrazioni delle riviste alle quali collaborava. Diversi articoli gaddiani non si comprendono appieno se non si ricostituisce l’interazione profonda tra l’immagine e lo scritto, che in questi casi si può considerare quasi una sua didascalia. » (Andrea Cortellessa, Del più e del meno. Sulla scrittura d’occasione nel Novecento italiano, in «Inchiesta», a. 26, n. 114, 1996, fascicolo sul tema: Il prezzo del reale: denaro e romanzo) “.
@Andrea Cortellessa
la ringrazio per la lettura e i commenti. In generale, è vero che c’è un conflitto fra il movimento impazzito di Milton e la stasi ossessiva che sta alla base della sua ricerca (e che si riflette in un paesaggio che è assenza di visione – nebbia – e mancato scorrimento del tempo, con questo autunno che sembra non finire mai). E sono d’accordo, la corsa finale di Milton ha un che di statico, lui corre ma a vuoto, come se, dopo aver seminato i fascisti, corresse su una superficie scorrevole, con i piedi che non toccano più terra, dimenandosi nel vuoto della sua follia amorosa: ma a maggior ragione bisognava rendere la cosa in modo appropriato, per esempio insistendo sui primi piani del volto di Milton che mugugna “Nella testa, sparatemi nella testa” mentre corre, per dire di una sequenza del film che funziona davvero. Il raccordo con lui che cammina nel bosco, secondo me, proprio non va.
Il finale. Già l’idea di rovesciare un’immagine centrale di Fenoglio (Milton che non va sul ponte minato perché rifiuta di andare in pezzi) dà la sensazione che i Taviani abbiano deciso di essere fedeli a metà e quindi abbiano rovinato un finale di cui tutto si può dire, meno che non sia estremamente coeso e chiaro. Tanto chiaro che, alla fine, sono d’accordo con lei sul finale oggettivamente “aperto”: non c’era bisogno di chiuderlo e mostrare una “morte” di Milton, ma di certo quel “crollò” finale è inconciliabile con Marinelli che guarda il panorama, sorride e si avvia all’orizzonte lasciando alle spalle la sua ricerca fallimentare. Il problema è proprio che il film non doveva sciogliere nulla, ma lasciare intatta l’apertura. C’erano tutti i mezzi per farlo, non so, un campo lungo fisso su Milton che entra nei boschi e dopo qualche secondo si sente il crollo, qualsiasi cosa, ma non un fraintendimento così marchiano di uno dei finali più belli della letteratura italiana del Novecento. Peccato, perché il film è anche buono per altri versi.
D’altronde, devo riconoscere che “Una questione privata” è un cimento per la tentazione irrinunciabile di valutare gli adattamenti cinematografici dalla letteratura, che di solito funzionano tanto più distano dall’originale (Kubrick, giusto per). Il libro di Fenoglio nvita il lettore a vedere le scene nella sua mente, si presta perfettamente al fatto che il critico si sbilanci e rinfacci con una certa gelosia a un film, con tutta l’ingiustizia di cui si è capaci, di non essere, appunto, letteratura, o di non corrispondere allo spettro di un film interiore che è possibile sognare soltanto. C’è una bella citazione di Iser dall'”Atto della lettura” (me l’ha segnalata Anna Stella Poli, che ringrazio), la metto a suggello del pezzo, chissà che non torni utile anche a Barra per il suo diario:
“La fotografia non solo riproduce un oggetto esistente, ma anche mi esclude da un mondo che io posso vedere ma che non ho contribuito a creare. La sensazione che la versione filmica non è ciò che avevamo immaginato non è la ragione reale della nostra delusione; è qualcosa di più di un epifenomeno. La ragione reale è che noi siamo stati esclusi, e ci risentiamo del fatto che non ci è concesso di trattenere le immagini che abbiamo prodotto e che ci consentono di essere in presenza dei nostri prodotti come se essi fossero un possesso reale”.
Pezzo molto interessante, e analisi pienamente condivisibile. Vorrei contribuire alla conversazione con un pensiero ispirato ai lavori di alcuni critici letterari e cinematografici sulla trasposizione di testi letterari al cinema:
“… In analyzing the filmic adaptation of a book, it must be kept in mind that every adaptation necessitates a new écriture, a dynamic materialization of a pre-existing idea : the re-writing process therefore requires the filmmaker to appropriate the original discourse that pre-existed the literary story, and re-shape it into a new form, the screenplay, which is not an end in itself, but looks ahead to its fulfillment in the cinematic medium.”
“ 28 maggio 1995 – Il mio torto è stato di andarmene. Quando ero via, ogni volta che tornavo mi stupivo di trovare tutto così tranquillo, ordinato, quasi festaiolo. Io, che me n’ero andato come si scappa dal luogo di un disastro, che come uno sfigato Enea credevo di fuggire avendo qualcuno sulle spalle, ogni volta mi scoprivo più solo. Non c’era nessun disastro. Nessuno da salvare. Era soltanto, direbbe Fenoglio, una questione privata. “
“23 novembre 2017 – « e ben perciò andrebbe taciuta. », P. Celan, a novantasette anni dalla nascita.”
@Melisenda
grazie mille. Da dove viene la citazione?
adaptation: sbaglio o il conte l’appellava imitazione?
Mi è capitato solo di ieri di vedere il film dei Taviani, e a monte delle condivisibili osservazioni di Marchese – certe scene come il tamponamento dei genitori sotto i portici di Alba, il massacro della famiglia di contadini (tutti lindi e intonsi) e il fascista pazzo sono al limite del comico involontario – vorrei aggiungere l’improbabilità estrema del cast, che rende il romanesco di Marinelli l’ultimo dei problemi. D’accordo per la Resistenza come età della giovinezza, ma tutti i giovanissimi attori (scarafaggi compresi) hanno intonazioni (e facce) troppo parrocchiali (intendo, da teatro di parrocchia) per risultare credibili: un livello recitativo insospettabile. Al punto da farmi pensare, senza ironie, non solo che l’interprete migliore della pellicola sia la nebbia, ma che l’ingranaggio cavalleresco di passioni su cui il romanzo si basa meriterebbe forse un adattamento completamente muto.
Grazie per il bel pezzo