di Gianluigi Simonetti

[Una versione più breve di questo articolo è apparsa sulla «Domenica» del «Sole 24 ore»; una discussione più ampia e dettagliata del Soprannaturale letterario di Francesco Orlando uscirà invece sul prossimo numero della «Nuova Rivista di Letteratura Italiana»]

Chi possiamo considerare il più sottovalutato, isolato e in definitiva inascoltato fra i grandi studiosi di letteratura che hanno operato in Italia negli ultimi decenni? Un nome possibile è quello di Francesco Orlando, francesista prima e poi comparatista, scomparso a Pisa nel 2010; la cui lezione, osservava qualche settimana fa Franco Cordelli sul «Corriere della Sera», «è ormai solo un ricordo». Un po’ esagerato, ma in sostanza giusto. Naturalmente è facile, per chi si occupa di letteratura, associare il nome di Orlando a quello di tanti suoi libri importanti, quali Per una teoria freudiana della letteratura, Illuminismo, barocco e retorica freudiana e Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Naturalmente, Orlando ha lasciato un metodo, e una schiera di allievi. E naturalmente non sono mancate importanti traduzioni straniere delle sue opere più aggiornate e esportabili (come quelle, in inglese e francese, degli Oggetti desueti). Ma l’impressione, oggi, è che non si sia riflettuto abbastanza non tanto sul metodo di Orlando, a volte irrigidito da scommesse un po’ ingegneristiche – quanto sulla qualità delle sue letture testuali, e sulla concezione stessa che aveva della letteratura. Che insomma sia mancato un ascolto attento e profondo, anche critico purché intelligente, delle sue parole.

L’occasione per una verifica della figura di Orlando è offerta oggi dall’apparizione del suo primo saggio postumo, finalmente pubblicato da Einaudi (peraltro nella stessa collana, la Piccola Biblioteca, che aveva ospitato anche alcuni suoi precedenti lavori; e che si spera possa accoglierne altri, inediti, che sappiamo in circolazione). Il soprannaturale letterario condensa una ricerca durata vent’anni, articolata, com’era abitudine di Orlando, in diversi cicli di corsi universitari. I tre curatori del libro – Stefano Brugnolo, Luciano Pellegrini e Valentina Sturli – si sono serviti in particolare delle registrazioni complete di un corso tenuto nella primavera del 2006, integrato con sbobinature dell’anno precedente e appunti dettagliati presi per le lezioni. Il risultato è un saggio che nutre la ambizione di verificare – attraverso l’analisi di singoli testi esemplari – i diversi statuti che il racconto del soprannaturale ha assunto durante i secoli, e più in generale i rapporti che ha intrattenuto con la realtà ordinaria rappresentata nelle opere. Orlando riflette insomma sul modo in cui la letteratura ha reagito alla pressione che le leggi di realtà, in situazioni storiche date, hanno opposto alla tentazione umana di credere all’incredibile. Interrogandosi sui diversi statuti del soprannaturale Orlando cerca evidentemente di emanciparsi da categorie più circoscritte, come il fantastico, il meraviglioso o il fiabesco; cerca insomma di decifrare il funzionamento di un grande codice letterario, capace di attraversare i secoli declinandosi attraverso analogie e differenze, costanti e varianti. Il tutto chiaramente in stretta relazione con l’intuizione teorica di una letteratura continuamente sospesa tra obbedienza alle regole imposte dalla società e trasgressione di quelle stesse regole: una letteratura come «formazione di compromesso» tra ciò che è lecito e non è lecito, di volta in volta, scrivere o dire; tra le istanze imposte da una determinata epoca storica e quelle atemporali della psiche.

Chi scrive è tra coloro che hanno avuto il privilegio di seguire Orlando a lezione, cioè in quello che definirei il suo ambiente naturale – il luogo nel quale la sua intelligenza e il suo fascino intellettuale erano più acuti e per così dire irresistibili. Nel Soprannaturale letterario, sebbene frutto di un assemblaggio a posteriori, ci si imbatte a volte in tratti retorici e stilistici che erano tipici di Orlando: su tutti l’ironia, sempre eloquente (come quando ad esempio, commentando Le Miracle de Théophile di Rutebeuf, il critico si mette dalla parte del diavolo, contro una Vergine «un poco a corto di argomenti»); ma anche certi giri sintattici, certe simmetrie, certe inversioni molto riconoscibili («Quando leggiamo che per don Chisciotte “tutto può essere” risulta difficile dire se tutto si spiega perché non si spiega niente, o niente perché si spiega tutto»)[1].

Quel che più conta, però, è che nel libro postumo tornano le tracce delle principali qualità intellettuali di Orlando, come le ricordano i suoi studenti di un tempo. La prima era ovviamente la quantità e l’eccellenza della cultura letteraria. Un aspetto risaputo, sul quale non mi soffermo, se non per rilevare, con i curatori del volume, che il Soprannaturale letterario contribuisce a quel progetto di una teoria e storia della letteratura occidentale che Orlando concretizza nei primi anni Novanta, soprattutto negli Oggetti desueti. Un modo per saldare la sua ultima stagione al ricodo dei modelli critici giovanili: Auerbach soprattutto, poi Praz e Curtius. Soprannaturale e Oggetti si muovono nello stesso vastissimo mondo culturale e condividono la stessa struttura di indagine (collaudata a lezione): una intuizione teorica sommariamente evocata, una serie di verifiche testuali, un abbozzo di classificazione, infine un’ultima controprova testuale.

La seconda caratteristica di Orlando, particolarmente ben testimoniata da questo volume, riguarda il suo grande talento didattico: un dato che assume oggi – in una stagione in cui nella facoltà umanistiche s’impongono pedagogie che a Orlando avrebbero fatto orrore – un senso e un valore davvero preziosi. Molto difficilmente mi è capitato di sentire lezioni preparate con la cura con cui Orlando preparava le sue, sempre gremite di studenti (i quali sapevano e sanno benissimo chi vale la pena di ascoltare e con quanta attenzione). Anche questo è un aspetto abbastanza noto, per non dire leggendario, ma vale la pena di sottolineare quanto tipico di Orlando fosse il piacere di insegnare; il desiderio, l’allegria, e il bisogno di farlo; la capacità di comunicare agli studenti quanta passione intellettuale e quanto autentico godimento possa offrire l’ascolto di una grande opera d’arte.

Infine la terza qualità, solo apparentemente scontata per un letterato: Orlando aveva capito cos’è e come funziona la letteratura. Non solo l’aveva capito; lo sentiva nel profondo, nella carne e nel sangue, in virtù di un’adesione e di un investimento personale nell’arte che poi sapeva valorizzarsi al servizio di un’intelligenza critica fuori dal comune. Vale a dire che il nucleo della sua proposta teorica non gli veniva da una somma di letture o di ragionamenti astratti, ma dalla comprensione di una parte profonda di sé; una parte con cui Orlando deve avere, credo, molto battagliato, ma il cui ascolto aveva dato origine all’intuizione di una letteratura, letteralmente, portatrice di desiderio, che è poi il primo passo che conduce al suo personalissimo impiego, in chiave formale, di Freud e Matte Blanco. C’era qualcosa di sensuale nella passione di Orlando per la cultura; un’energia che nasceva dalle opere che analizzava – era uno di quegli studiosi vecchio stile che si occupano pressoché esclusivamente di buona letteratura, e che credevano, ancora, alla centralità del letterario – e un’energia che alle opere, lette da lui, ritornava, come moltiplicata. Dalla percezione di un nesso tra la coerenza formale di ogni grande testo e la presenza, nel testo stesso, di un sottofondo desiderante nasce l’intuizione di un’ambivalenza sovrana della scrittura che si afferma, ancora una volta, nel Soprannaturale letterario, ma che dopotutto era già presente nel primo libro importante di Orlando. In Infanzia memoria e storia da Rousseau ai romantici, pubblicato nel 1966, la nozione di patto col lettore, ricavata dallo studio delle Confessioni di Rousseau, configura già, come ha notato Sergio Zatti, l’idea-chiave della formazione di compromesso, che prelude alle letture di Racine e Molière (1971 e 1979) e a Per una teoria freudiana della letteratura (1973). Risulta quindi precocemente delineata l’idea che la letteratura dia voce a istanze contraddittorie e profonde; che sia la somma di bisogni divergenti, tra dire e non dire – come al giovane Orlando suggeriva una lettura non superficiale di Mimesis. Prima ancora che spiattellare contenuti, l’arte esprimerebbe un’esigenza di tipo formale: l’esigenza di dare voce al mondo com’è, e insieme a ciò che è soffocato dal mondo com’è. La cosa cruciale che Orlando ha capito, e ci ha spiegato, è che – provo a dirlo brutalmente e forzando un poco – la letteratura non è votata al bene, e neppure al male, ma vuole il bene e il male contemporaneamente, e che questo soprattutto la distingue da altri saperi, fino a renderla quella forma di conoscenza specifica e insostituibile che sa essere.

(In questo nuovo Soprannaturale letterario, per inciso, l’ambivalenza è rappresentata dal rapporto, storicamente determinato, tra critica e credito al soprannaturale. Più profondamente, dal rapporto tra il bisogno di pensare razionalmente, o addirittura scientificamente, e il bisogno, opposto, di scappare dalla realtà, di abbandonarsi all’anarchia e all’irrazionalità del desiderio).

Ora, l’idea di una letteratura come congegno espressivo al servizio di un’ambivalenza irriducibile alle leggi etiche e logiche può sembrare semplice, o addirittura elementare, dopo che Orlando ce l’ha spiegata – sulla scia di una tradizione romantica e poi modernista con cui si sentiva in continuità. E in effetti i grandi scrittori l’hanno sempre saputo, che la letteratura non sta mai da una parte sola. Eppure si pensi a quanto pochi siano stati gli studiosi italiani che abbiano saputo spiegarlo con altrettanta chiarezza; soprattutto si pensi a quanto sia in effetti poco diffusa e condivisa quest’idea al presente. La distanza si verifica facilmente se proiettiamo le idee di Orlando non solo sul piano del senso comune, ma anche su quel che resta del dibattito letterario, e della ricerca teorica. L’uno e l’altra monopolizzati da letture che sempre più cercano nelle opere letterarie l’ affermazione pura e semplice di un’ideologia; come testimonianza di una sola matrice identitaria, di un solo ordine simbolico.

Che la letteratura, quando è davvero tale, sia un tipo di sapere non arruolabile a scopi civili; che ciò che non dice esplicitamente sia altrettanto o forse più importante di ciò che esplicitamente (e volontaristicamente) dice; che non sia mai solamente espressione diretta e coerente di un pensiero o di una morale, ma, sempre, l’esito di un conflitto invisibile – credo sia questa la lezione più importante di Orlando, e, al tempo stesso, paradossalmente, la meno assimilata. La cultura italiana conserva, nonostante tutto, questo fondo idealistico, per cui la letteratura deve stare dalla parte del Bene. Tutto sommato è stato sempre così; ma il guaio è che è sempre più così. La critica e ormai anche la teoria sempre più ridotte a una psicopolizia conformista e ottusa, incapace di tollerare la minima sottigliezza e la minima contraddizione.

[1] F. Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, Einaudi, Torino 2010, p. 52.

[Immagine: Lucas Cranach, Adamo ed Eva (1526),  particolare, Londra, Courtauld Institute].

4 thoughts on “Rileggere Francesco Orlando​

  1. “ Sabato 3 agosto 2013 – « Quando parlavamo, ogni tanto mi colpiva l’ingenuità con cui immaginava ancora una Sicilia lasciata intatta dalla modernità, come se la sua lucidità s’interrompesse a contatto coi ricordi. Un giorno, sicuro di non sbagliare, esclamò: “ Andrea, tu mi confermerai, in Sicilia è una rarità potere assistere a concerti dal vivo all’aperto! “. Mi scappò un sorriso, e per una volta lo corressi io. Solo adesso ho capito come stavano le cose, e non sembri una battuta: il Prof. Orlando era lui stesso un oggetto desueto. » (Andrea Accardi, Ricordo, in Per Francesco Orlando / Testimonianze e ricordi, 2012) “.

  2. Grazie mille a Simonetti per tutto quello che dice su Orlando e sulla letteratura e la critica e l’insegnamento.

  3. Ringrazio con un po’ di stupore Adriano Barra per avermi citato, ma ritagliandomi così mi mette proprio dal lato univoco di una ideologia che non ho. Il testo del mio ricordo infatti era preceduto da un ritratto di Orlando dalla parte, e molto, del progresso. Illuminista, ma desueto; desueto, ma illuminista. Formazione di compromesso, appunto.
    (per chiarezza, una stesura precedente dello stesso testo qui: https://poetarumsilva.com/2012/05/29/ricordo-di-francesco-orlando/)

  4. “ Lunedì 5 agosto 2013 – Scoprire, nel contributo di Sergio Landucci al libro per Francesco Orlando – Uno sguardo dal basso, in Per Francesco Orlando / Testimonianze e ricordi, cit. -, che il saggio Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici (1966), doveva, in un primo momento, intitolarsi Uno sguardo dal basso, e che questo titolo ricalcava un’espressione di Stendhal, se da una parte lusinga, confermandola, la mia convinzione di essere, nonostante tutto – nonostante la mia solitudine, la mia intransitività, la mia follia – un buon lettore – « 13 settembre 1991 – “ J’ai vu tout cela d’en bas comme un enfant. “ (Stendhal) » – un buon lettore, va detto, di Francesco Orlando, piuttosto che di Stendhal, poiché leggo nel mio diario che in quel medesimo giorno di più di vent’anni fa io stavo leggendo Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici -, dall’altra mi induce ancora una volta a interrogarmi sul senso della mia storia. Cioè della storia del mio sguardo. Che è stato, è vero, per molto tempo, uno sguardo « dal basso », ma poi lo è stato « dall’alto » – lo sguardo di chi inciampa, ruzzola, cade, precipitevolissimevolmente -, e poi, dopo quella che a me è apparsa una rovinosa, spaventosa, micidiale caduta, è tornato a essere « dal basso », come in uno strano, imprevedibile, impensabile nuovo inizio. Mi colpisce anche leggere in un altro contributo – Guido Mazzoni, Un intellettuale (elegantemente) desueto – che Orlando « benché fosse nato nel 1934 e si fosse formato negli anni Cinquanta, la sua cultura era legata agli anni Venti e Trenta, al modello di Tomasi di Lampedusa e poi di Auerbach. Si comportava come un intellettuale grande-borghese dell’entre-deux-guerres. ». Che, all’incirca, è quello che, immodestamente?, io ho pensato qualche volta di me – « 1 dicembre 1987 – Sono l’ultimo letterato (toscano) (degli anni Trenta) ancora su piazza? ». Il ché significa soltanto che potrebbe essere vero che lo sguardo della letteratura non può che venire « da lontano », anzi, esattamente da quel « lontano ». Cioè che la letteratura è « datata », cioè irreparabilmente, specificamente « desueta » etc. “.

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