di Elena Munafò

[È da poco uscito Il sublime e il modernismo di Elena Munafò. «Il sublime è tradizionalmente legato a una concezione dell’uomo che viene profondamente messa in discussione nel Novecento», si legge nel risvolto, «tanto da spingere alcuni autori a constatarne la morte. Se il sublime eroico di stampo romantico ha esaurito il suo tempo, quello religioso viene messo in crisi dal rifiuto del divino, mentre si allontana anche la possibilità del sublime naturale, basato sull’armonia tra l’essere umano e il mondo esterno». Il sublime e il modernismo cerca invece di mostrare che il sublime è un elemento vivo della letteratura del primo Novecento. Quello che segue è un estratto del libro].

Nel 1920, Ezra Pound dichiara in Hugh Selwyn Mauberley che mantenere il sublime «in the old sense»[1] non è più possibile per un poeta che scriva all’inizio del Novecento. Pound sta raccontando in versi la fine della sua esperienza di artista estetizzante e decadente, inaugurando una nuova stagione della propria poesia. In questo percorso, la rinuncia al sublime, o meglio la sua condanna a morte, riveste un ruolo fondamentale: inseguirlo, scrive Pound, è stato un errore sin dal principio, «wrong from the start», così come lo è stato il tentare di ripercorrere le strade della poesia precedente. L’affermazione di Pound, esplosiva nei toni e provocatoria nei contenuti, può essere interpretata come la pars destruens di un complesso processo di rielaborazione del sublime letterario che prende forma nelle opere degli autori modernisti negli anni Venti del Novecento. Se infatti Pound sembra rimanere, almeno in questa fase, solo a un livello distruttivo, altri autori della sua generazione raccolgono la sfida, dando vita nelle loro opere a una forma specifica e nuova di sublime, profondamente legata al contesto storico del periodo tra le due guerre, che chiameremo il sublime modernista.
A partire da questa ipotesi, il libro studia le forme assunte dal sublime nelle opere di tre autori canonici di quegli anni, T. S. Eliot, James Joyce e Virginia Woolf. L’indagine riguarda quindi la pars construens della rinascita del sublime, andando ad analizzare in particolare cosa succede in tre opere pubblicate tra il1920 e il 1930, scelte per il ruolo esemplare che rivestono all’interno della letteratura modernista: The Waste Land, Ulysses e Mrs. Dalloway. Dal momento che nessuno degli autori presi in esame sviluppa un’esplicita teoria del sublime, mi concentrerò sulle rappresentazioni del sublime che compaiono nelle tre opere e, a partire da esse, arriverò a ipotizzare le caratteristiche principali del nuovo sublime. In questo senso, lo scopo non è quello di delineare una teoria del sublime modernista, ma di seguirne le tracce attraverso i testi, concentrandosi quindi sul fenomeno più che sulla sua definizione.

Baldine Saint Girons, una delle maggiori studiose contemporanee del sublime, fa notare che la riflessione su questo concetto è emersa, nel corso della storia, in fasi caratterizzate dalla messa in discussione dei valori dominanti, momenti nei quali «il narcisismo dell’essere umano si è sentito profondamente umiliato dal progresso del sapere»[2]. In uno dei suoi saggi più recenti[3], Saint Girons sostiene infatti che l’attenzione verso il sublime cresca nei momenti di crisi, evidenziandone quattro in particolare: il I secolo, quando viene composto il primo testo a noi noto dedicato a questo tema, un trattato di retorica intitolato Peri Hypsous (Del sublime)[4] e scritto da un autore anonimo, tradizionalmente identificato con Longino; l’inizio dell’età moderna, con la prima versione a stampa del trattato antico e la sua traduzione in francese da parte di Boileau, che sposta l’attenzione per la prima volta dall’ambito retorico a quello estetico; il Settecento[5], con la diffusione del sublime naturale, ma soprattutto con le due fondamentali riflessioni di Kant e di Burke, da cui nasce il sublime romantico; e infine il periodo in cui scrive Pound, gli anni tra le due guerre del Novecento, che costituiscono l’orizzonte temporale su cui si articola questo libro. Il legame che intercorre tra questo concetto e alcune fasi particolarmente turbolente della storia permette di considerare l’elaborazione di una nuova forma di sublime come una prova della necessità dell’uomo di interrogarsi su sé stesso e sulla propria natura.

L’affermazione di Saint Girons fornisce un primo spunto per la ricerca: anche se la critica è generalmente concorde nel considerare l’inizio del Novecento un momento di scarso interesse nei confronti del sublime, condannato da molti autori a essere considerato un concetto del passato, alcuni studiosi[6] hanno cominciato a mettere in luce l’implicita centralità del sublime nella letteratura dell’epoca. La mia ricerca si pone, quindi, in continuità con questi studi, andando ad analizzare le forme in cui il sublime si manifesta all’interno del modernismo.

Il nuovo sublime sembra essere profondamente influenzato dal contesto storico nel quale prende forma, ma allo stesso tempo è l’ultima tappa di una lunga storia, antica quanto la letteratura stessa. Per questo motivo, per comprendere la riformulazione proposta dagli autori modernisti è necessario tornare alle origini della riflessione su questo concetto e ripercorrerne le tappe principali, a partire dall’antichità classica fino al Novecento. In questo percorso risultano fondamentali Aristotele e il trattato dello Pseudo Longino, ma anche i modelli biblici ed evangelici, soprattutto attraverso la mediazione letteraria di Dante, che ricopre, nella storia del sublime, un ruolo di primo piano. Allo stesso tempo, non è possibile studiare il nuovo sublime senza tener conto dell’estetica dell’Illuminismo, e in particolare della riflessione che Kant dedica al sublime, dapprima con le Osservazioni[7] giovanili e in seguito con la terza Critica[8], e di quella, diversa, ma complementare, di Burke, la cui inchiesta filosofica sul sentimento del bello e del sublime[9] per la prima volta lega il sublime al terrore e all’istinto di sopravvivenza, trasformandolo nella percezione di ciò che costituisce una minaccia, goduto a distanza di sicurezza.

Kant e Burke rappresentano i due esempi maggiori della teorizzazione del sublime nel Settecento: dopo di loro, la riflessione si concentra nelle due direzioni che essi hanno indicato; da un lato, sulla scia di Kant, si delinea una concezione che vede l’esperienza sublime come un’affermazione della superiorità dell’uomo, mentre dall’altro, sulla strada indicata da Burke, prende forma un’idea del sublime nella quale domina il momento dello stordimento e dell’accecamento dell’elemento razionale. Vedremo in che modo tutto questo verrà ripreso e stravolto nella rilettura del sublime che compare nelle opere dei nostri autori, anche in riferimento al sublime romantico, che nasce dalla riflessione settecentesca e che sarà oggetto di profonde critiche da parte del modernismo.

Un altro termine di paragone essenziale per lo studio del sublime modernista è rappresentato dalla poetica di Charles Baudelaire, cui Eliot riconosce il primato di aver tratto poesia sublime da ciò che è squallido e sordido. Baudelaire è convinto che sia necessario cogliere l’eterno nell’effimero, l’universale nel particolare. Se per i poeti romantici inglesi questo avviene attraverso l’esperienza della natura, per Baudelaire l’intuizione deve aver luogo nello squallido, nel brutto e nel nero: è lì che il sublime va ricercato, perché solo lì può trovarsi la verità. Già da questi pochi accenni si percepisce la distanza di Baudelaire da alcune linee della concezione del sublime dei secoli precedenti: siamo lontani dal sublime luminoso dello Pseudo Longino e dall’esaltazione kantiana, mentre cominciano a delinearsi tratti che ritroveremo nell’elaborazione novecentesca del concetto. In questo libro si parla quindi di continuità, di riutilizzo di categorie passate e di ri-semantizzazione di immagini tradizionali, ma anche di grandi novità: il sublime modernista si presenta come un insieme di rottura e continuità, che permette di studiare i rapporti tra il modernismo e la tradizione.

Il volume si articola in tre parti, ognuna dedicata a mettere in evidenza le analogie e le differenze con il passato nella concezione del sublime che si afferma nelle opere moderniste. In particolare, la prima parte, Cosa muore, tratta degli elementi che vengono scartati nell’elaborazione del nuovo sublime, in alcuni casi perché rifiutati esplicitamente, in altri perché considerati impossibili nel nuovo contesto, ma lasciati andare con nostalgia. L’analisi riguarda il ruolo della ragione (cap. 1), il rapporto tra uomo e natura (cap. 2) e l’impossibilità dell’incontro con il divino (cap. 3). Nella seconda parte, intitolata Cosa resta, vengono invece analizzati tutti quei tratti del sublime tradizionale che sono inglobati nel modernismo, spesso assumendo forme diverse, ma mantenendo un legame con il passato. In particolare, si tratta del valore conoscitivo dell’esperienza sublime (cap. 4), dell’aspetto retorico (cap. 5) e dell’idea di irrappresentabilità (cap. 6). Nella terza parte, Cosa nasce, vengono considerati gli elementi del sublime modernista che presentano delle caratteristiche inedite rispetto alla tradizione: si parla di immanenza (cap. 7), di riscoperta del mondo reale (cap. 8) e di epifania negativa, ma anche di ri-semantizzazione e riscrittura, oltre che di affermazione della creazione letteraria come gesto sublime (cap. 9).

Per sua stessa natura, nel seguire lo sviluppo di un tema attraverso la storia e in opere diverse, il lavoro si inserisce all’interno della comparatistica, di cui segue modi e obiettivi. L’analisi comparata è condotta sia sull’asse sincronico che su quello diacronico: in particolare, sul piano sincronico, i tre testi vengono studiati non solo in relazione l’uno con l’altro, ma anche nei rapporti con altre opere composte negli stessi anni in altri contesti nazionali. Sul piano diacronico, invece, vengono letti a confronto con alcune opere della tradizione letteraria particolarmente rilevanti dal punto di vista del sublime.

Senza pretendere di esaurire l’argomento, il volume si propone quindi l’analisi della specificità del sublime nelle tre opere scelte, in rapporto alla tradizione, o più esattamente alle tradizioni, che questa categoria ha generato nel corso dei secoli, dall’antichità al Novecento.

 

Prima parte. Cosa resta

Negli anni Venti del Novecento il sublime è ormai considerato un concetto superato, legato a una fase della letteratura che si è conclusa intorno agli anni Cinquanta del secolo precedente con la morte degli ultimi poeti della generazione romantica. Non sembra esserci più posto per il sublime egotistico alla Wordsworth, con le sue odi all’immaginazione umana, o per l’esaltazione eroica della grandezza dell’uomo che, pur nella sua limitatezza, sfida i misteri dell’universo rivolgendo gli occhi alle stelle. Il poeta vate che, all’inizio dell’Ottocento, invocava il vento dell’ovest, pregandolo di usarlo come strumento per rinnovare il mondo[10], ha lasciato il posto a Prufrock, il protagonista eliotiano che, alla fine della sua Love Song, si chiede timoroso se avrà il coraggio di mangiare una pesca[11]. Non più profeta e non più eroe, il poeta novecentesco si muove nello squallore della città, inetto in un mondo di inetti, rimandando continuamente il momento dell’azione: «There will be time»[12] ripete Prufrock quasi ossessivamente, parodiando l’Ecclesiaste, tempo per porsi domande, per esitare e per prendere decisioni «which a minute will reverse»[13]. L’esperienza sublime, nella quale il momento è forzato alla sua crisi[14], è vista come irrealizzabile e, allo stesso tempo, è temuta, perché comporterebbe uno sconvolgimento potente nella situazione di paralisi che caratterizza il mondo contemporaneo. Oltre a essere pericoloso, il sublime appartiene a un passato ancora troppo recente, legato a valori nei quali gli scrittori degli anni Venti hanno smesso di riconoscersi. Anche per questo, come scrive Pound, il sublime non va più perseguito: bisogna percorrere strade mai esplorate prima, liberarsi dalla poesia della generazione precedente e dare vita a una nuova letteratura. In questo senso, non ci sono dubbi sul fatto che il modernismo si proponga come anti-sublime: alcuni degli elementi che avevano caratterizzato la riflessione sul sublime nel passato sono in netto contrasto con il clima culturale all’insegna del quale si apre il nuovo secolo. Il sublime è legato a un’idea dell’essere umano che viene profondamente messa in discussione già dalla fine dell’Ottocento, portando a un calo di attenzione nei confronti di questa categoria. Durante l’età dei lumi, esso rappresenta il fulcro di una visione dell’uomo basata sull’esaltazione dell’elemento razionale e sulla fede nelle magnifiche sorti e progressive del genere umano. I romantici riprendono questo concetto attenuando l’aspetto razionale, ma presentando comunque il sublime come un’esperienza nella quale l’essere umano arriva a riconoscere il proprio valore, nel suo rapporto con il mondo esterno e con l’universo.

Seppur con le dovute differenze, in entrambi i casi, il sublime è visto come un momento nel quale un soggetto, inteso come un insieme di sensibilità, immaginazione e intelletto, vive un’esperienza nella quale, attraverso il confronto con il mondo esterno, passa da uno stato di smarrimento a uno di elevazione. Questo movimento lo porta alla consapevolezza della propria grandezza, al di là dei limiti fisici, e a instaurare una relazione momentanea, ma potente, con una realtà metafisica, che può essere identificata con la Ragione (come in Kant), con la divinità o con un ordine metafisico di diversa natura. Come scrive Thomas Weiskel a proposito del sublime romantico:

L’assunto principale del sublime è che l’uomo possa trascendere l’umano, tanto nel sentimento quanto nella parola. Se esista qualcosa oltre l’umano – un Dio o gli dei, un demone o la Natura – è oggetto di grande disaccordo. Se qualcosa, e che cosa, definisca l’ambito dell’umano è quasi altrettanto incerto.[15]

Alla base di questa concezione dell’esperienza sublime si trovano tre costanti fondamentali: il soggetto che vive l’esperienza, il mondo esterno (spesso inteso come naturale) e la realtà metafisica con cui il soggetto entra in relazione attraverso il sublime. Come vedremo, ognuno di questi aspetti assume all’inizio del Novecento un carattere problematico, determinando la convinzione che il sublime non sia accessibile, né realizzabile, nel mondo contemporaneo.

Le pagine che seguono si concentreranno sugli elementi del sublime tradizionale che vengono messi in dubbio nelle opere degli autori modernisti, comparendo come oggetto di rifiuto, nostalgia, parodia o ironico capovolgimento, e che in questo modo contribuiscono alla causa poundiana della morte del sublime, andando a costituire gli argomenti sulla base dei quali la definizione di sublime modernista viene intesa – seppur con le dovute eccezioni illustri – come sostanzialmente ossimorica.


[1] E. Pound, Hugh Selwyn Mauberley, il Saggiatore, Milano 1982, vv. 3-4.

[2] B. Saint Girons, Fiat Lux. Una filosofia del sublime, Aesthetica, Palermo 2003, p. 14.

[3] Id., Il Sublime, il Mulino, Bologna 2006.

[4] Pseudo Longino, Del sublime, Rizzoli, Milano 2000.

[5] Cfr. su questo aspetto S. H. Monk, Il sublime, Marietti, Genova 1992, che ricostruisce la riflessione sul sublime durante il Settecento.

[6] In particolare, a partire dagli anni Ottanta, Lyotard riporta questo tema al centro della riflessione estetica, come vedremo brevemente nel cap. 6. Per una ricostruzione del sublime nel postmoderno, cfr. P. Shaw, The Sublime, Routledge, Oxon 2006, pp. 115-47. Dal punto di vista della critica letteraria, interesse per le dinamiche del sublime compare anche in Kermode e, in particolare, in Romantic Images, Routledge, London 2003, e nei critici della scuola di Yale, a partire da Bloom, che ha dedicato il suo ultimo saggio al sublime nella letteratura americana (H. Bloom, Il canone americano, Rizzoli, Milano 2016). Sul fronte italiano, cfr. M. Paino, D. Tomasello (a cura di), Sublime e antisublime nella modernità, Edizioni ETS, Pisa 2014.

[7] I. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Bur, Milano 1989.

[8] Id., Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1997.

[9] E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, Aesthetica, Palermo 1985.

[10] Cfr. P. B. Shelley, Ode to the West Wind, in The Major Works, Oxford University Press, London 2009 (trad. it. in P. B. Shelley, J. Keats, G. G. Byron, I ragazzi che amavano il vento, Feltrinelli, Milano 1996).

[11] T. S. Eliot, The Love Song of J. Alfred Prufrock, in Id., The Poems of T. S. Eliot, Faber and Faber, London 2015, v. 122 (trad. it. in Id., Opere, vol. i: 1904-1939, Bompiani, Milano 2001).

[12] Ivi, v. 26 («Ci sarà tempo»).

[13] Ivi, v. 48 («che un attimo solo rovescerà»).

[14] Ivi, vv. 79-80.

[15] T. Weiskel, The Romantic Sublime. Studies in the Structure and Psychology of Transcendence, John Hopkins University Press, Baltimore-London 1976, p. 3 (trad. mia).

 

[Immagine: Egon Schiele, Quattro alberi]

 

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