di Davide Orecchio
[È uscito da qualche settimana per Minimum fax Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio – una raccolta di racconti, ritratti, biografie e reportage di viaggio intorno alla storia e al mito della Rivoluzione di Ottobre. Pubblichiamo un estratto del libro seguito da una recensione di Carlo Mazza Galanti]
Entra l’anno cinquantasei del secolo d’oro, assomiglia a suo padre che fu il diciassette ed era l’androceo ed era il gineceo quando per gemmazione ebbe il tempo di dargli la vita; avanti a che morisse troppo giovane, quel garofano – l’anno diciassette – partorì un biancospino: il cinquantasei.
Tra le rusalche infuriate nella tempesta petrosa di un mare di ferro e di coke già i bolscevichi istoriavano i fossili finché il garofano cadde e, raccolto da terra, i bugiardi gli ingenui i sofisti i fanatici gli utopisti lo traslitterarono in mummia e mentre il canto funebre si mascherava a leggenda quelli dissero Noi siamo i guardiani del diciassette, noi siamo le guardie della rivoluzione.
Prima dell’acido fenico, dell’imbalsamatura, la rivoluzione ebbe la forza di sorgere, promettere, vendicare, uccidere e dare al mondo tra i tanti l’anno cinquantasei simile a un uomo sui quarant’anni, già successivo alla linea d’ombra ma senile per nulla, anzi vigoroso e coi dubbi risolti, con la forza e la voglia di fare, con una qualche sincerità tra gli zigomi alti e gli occhi più grandi, non interrotta dal battere di ciglia timide, non ridotta da fessure socchiuse delle palpebre, l’anno cinquantasei come un uomo che esclami trasparenza e lealtà persino nel pallore orientale dell’epidermide, nella peluria chiara orientale che non camuffa il suo volto rasato, perspicuo pure nello squarcio piccolo, non minatorio che separa il labbro di sopra da quello di sotto tra i quali si formano adesso le parole forse, mai più, d’ora in poi.
E nella sua voce l’anno cinquantasei – rauco – forgia il giorno sette novembre dei suoi trecento sessantasei e mostra un mattino e porge un villaggio che è Coyoacán, che sta poco sotto Città del Messico, e offre una via che si chiama Vienna e un piccolo fiume che è il Churubusco, così che appaia una villa leggera con le pareti color pastello, le sue finestre le murano mattoni di colore ruggine, le catturano portici che non chiedono ospiti, le ornano volterrane del modernismo e colonne e capitelli di Jugendstil meticcio tenochtitlano, un cancello blinda la casa che verso nord è protetta da un recinto alto, combinato di pietre e mattoncini verdissimi, guscio contro nemici che non accadono più, riparo da visite che non accadono più.
E col suo cenno versatile, onnipotente, l’anno cinquantasei – biancospino figlio del diciassette, nipote dell’anno cinque, postero del settecent’ottantanove, grande russo di aspetto, il volto una steppa, l’occhio destro il Mar Caspio, l’occhio sinistro il Mar Nero, il naso schietto e acuto come il monte Iremel – apre il cancello, anzi neppure lo apre, lo trapassa, lo è, per esibire un giardino dove sta un vecchio.
Quest’uomo è fatto proprio come dev’essere un vecchio, ma non uno dei tanti, lui è il Vecchio maiuscolo e zoppica nel giardino delle vite essiccate, oscilla sul bastone di legno, è incerto come se l’attendesse un plotone, è timido nella sua coppola avana da cui sfuggono capelli morbidi bianchi, è soprappensiero nel giaccone di tela più scuro della buccia di una castagna e largo sulle spalle e sui fianchi e floscio nel bavero addormentato sulla camicia avorio di lino abbottonata alla somma del collo, è maiuscolo ed è minuscolo ed è elegante nei calzoni sformati, a campana, color sabbia, e nei mocassini di cuoio, ha gli occhi ancora vivaci sotto la visiera e dietro al pince-nez e sopra al pizzo.
E sfiora sul viale di lastre di pietra le siepi fossilizzate, i cactus espropriati di spine, le buganvillee senza fiori né spine (impotenti come menscevichi nell’anno diciotto), non passa sotto l’ombra dell’eucalipto che non ha più chiome, non ha più foglie tonde, non ha più ombra, che ha una corteccia sterile di ogni resina e olio, le piante che erano grasse ora hanno la magrezza ucraina della carestia dell’anno trentadue e il Vecchio le sfiora, e il Vecchio è in collera e impreca mentre sfiora le conigliere vuote dekulakizzate, quando sfiora il pollaio vuoto di polli deportati, di galli sterminati, dove restano solo tetti di zinco, imbeccatoi, vaschette, reti e il Vecchio le sfiora ed entra nell’ombra della torre di guardia ed è in collera ancora, e impreca ancora.
Forse non si dà pace?, sembra non avere pace tra le baracche vuote dell’anno cinquantasei quando Lev Davidovič varcò il portico della villa che abitava da più di tre lustri e il portico lamentava ancora stipiti crivellati da colpi, nessuno aveva otturato le orme di quei proiettili, anche i proiettili furono sparati da lustri, anche i tentati omicidi avevano l’età delle fanciulle in fiore, erano puberi quando Lev Davidovič sopravvissuto va nel suo studio col fiato grosso e stanco di uno che oggi ne compie settantasette, getta il bastone sulla branda da riposino, sulla coperta bruna mixteca, siede alla scrivania sulla poltrona di paglia ed è arrabbiato ancora, e impreca ancora, si leva il cappello e lo appende alla lampada spenta così che gli si vede la mano bendata e ammalata di troppo scrivere, e gli si vede il cretto che spacca la tempia dove la cicatrice che gli procurò Mercader si apre in due labbra ed è come un canyon dove fuggono i cosacchi a cavallo, Denikin e la sua armata, Kerenskij con tutti gli junkers corrono proprio tra le tempie del Vecchio.
Eppure nell’anno quaranta – che ebbe la forma di una tempesta, di un naufragio della storia con le luci di Turner – il sicario di Stalin fallì, la sua piccozza sbagliò, Mercader non uccise Lev Davidovič, così che adesso il cranio del Vecchio viene a dividersi in una faglia scistosa e brecciata, e la vita del Vecchio è ancora viva, non assassinata, non sepolta, non demolita, nemmeno rimarginata, e il sughero di una ferita vive nel Vecchio.
Nello studio una porta finestra che guarda il giardino getta luce sulla scrivania col filtro di vetri intarsiati in rombi colore smeraldo, in linee incise verticalmente su perimetri di pannelli azzurri, e illumina tutte le cose della scrivania, un portamatite, due calamai, forbici, carta assorbente, una pietra dell’altopiano, una caraffa, i cilindri per il dittafono, un tempo il Vecchio dettava e gli assistenti facevano dalla sua voce parole scritte, ma ora non più.
Di lato sulla scrivania una copia del New York Times – accucciata come un gatto domestico, con le unghie ritratte e il muso tra i polpastrelli più soffici di gomitoli e polpe – mostra i nomi di Chruščёv e Stalin, la copia dice Il rapporto segreto, dice Il testo integrale e Nuovi dettagli sul terrore al governo, dice La cospirazione delle purghe al Cremlino.
Di lato sulla scrivania una copia più fresca del New York Times – coricata come una schiava macchinatrice, pronta a manipolare il padrone, a insinuargli sospetti con la falsa ubbidienza – mostra foto di Budapest, un marciapiede divelto, una folla, bandiere rosse verdi e bianche della nazione ungherese, e dice Gli insorti marciano a Budapest, esclama Barricate contro i carri sovietici, riporta Una dimostrazione verso il Lenin Ring e il Vecchio è arrabbiato e impreca di nuovo.
– L’anno cinquantasei ha una famiglia di peripezie, i suoi fatti esplodono hors ligne, fanno sensazione, illudono i popoli, le oligarchie sbottonano appena il corpetto, s’intravede un capezzolo, i popoli a guardare si eccitano, gli intellettuali guardano e sognano, le oligarchie li schiaffeggiano: Vi abbiamo mostrato fin troppo, siete i cani di sempre; è noto che per le oligarchie il mondo è fatto di cani, al cane intellettuale si metta la museruola, al popolo cane si spari, così era risorto il sole dell’avvenire nell’anno cinquantasei ma subito seguì un disavvenire, una specie d’eclissi di luna; E in questo – argomenta l’anno cinquantasei con la sua voce di slavo diafano – si vede una parentela con mio padre il diciassette, anche se lui ormai è storia, anzi è una mummia, non parla più, ha i portavoce, invece io parlo coi miei carri armati, col presente mio. –
– L’anno cinquantasei s’avventurò appena lattante in un congresso sovietico dove sputi sovietici colpirono Stalin che è morto, e le sue statue scomparvero, e i simulacri sparirono, poi venne l’estate della pubertà e l’anno era fertile quando si levarono gli operai di Polonia per dire Abbiamo tradotto i vostri sputi su Stalin che è morto, qui da noi significano essere liberi, e vogliono dire giustizia sociale; ma gli sputi sovietici colpirono anche gli operai di Polonia, e quelli abbassarono il capo, poi venne l’autunno quando l’anno restava forte della sua ambiguità, e mostra le rughe dell’esperienza quando si levarono gli operai di Ungheria per dire Abbiamo tradotto i vostri sputi su Stalin che è morto, qui da noi significano autonomia, democrazia, libertà di votare; ma gli sputi sovietici colpirono anche gli operai di Ungheria, e quelli abbassarono il capo. –
E il Vecchio lesse gli eventi, si disperò, studiò, sottolineò gli articoli del New York Times col blu, col rosso, mise nota bene ed esclamativi e accanto ai giornali crescono le bozze di un manoscritto sulla vita di Stalin, e accanto alle bozze cresce una risma di fogli a righe non rispettate da una calligrafia pulita, elegante ma cancellata da squarci violenti, segni diagonali, scarabocchi, il nuovo lavoro del Vecchio, fogli su fogli di pensieri raschiati, censurati, da ripensare, qualcosa negli ultimi mesi dell’anno cinquantasei non è andato come doveva?, è per questo che Lev Davidovič è arrabbiato?
Invece questa casa è deserta nel compleanno della rivoluzione che nacque nell’anno garofano – il diciassette: non si dimentichi –, poi oggi in un anno più antico nacque anche il Vecchio, le circostanze sono incredibili, le opportunità della storia, la potenza della cronologia, vada negli annali che il Vecchio fece la rivoluzione il giorno del suo stesso natale, ma vada negli annali che la casa è deserta, non c’è la moglie del Vecchio, non i suoi figli, non il nipote, non le segretarie, non i giovani americani assistenti, non i giovani assistenti europei, non il cane, non i conigli, non i polli, nessuno fa la guardia al cancello, nessuno imbraccia un fucile, nessuno chiama nessuno e nessuno ride né litiga.
È triste che sul tavolo da pranzo non poggi la decorazione di rose rosse e garofani che Frida Kahlo portava per il sette novembre, ed è triste che non ci sia Frida Kahlo che morì due anni fa, che dipinse nel suo ultimo quadro un ritratto di Stalin: anche questo è triste ed è triste che nessuno festeggi il Vecchio e la rivoluzione e vada negli annali che Stalin smise di inviare assassini, che Stalin eroe della guerra antifascista smise di odiare Lev Davidovič, vada negli annali: Stalin eroe antifascista, vada negli annali che la storia è crudele, che l’umanità crede alle favole.
Poi Stalin è morto e il Vecchio non ha nemici né amici, poi il Vecchio è una capsula della storia, del tempo, è un quanto della storia che non avanza, non indietreggia, non irradia più storie.
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Vite nella Storia. Su Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio
di Carlo Mazza Galanti
Il nuovo libro di Davide Orecchio è un oggetto letterario difficilmente identificabile, e in quanto tale avvincente e degno di attenzione. Lo stesso valeva per suoi libri precedenti. Roba di nicchia, certo, e forse un po’ troppo impegnata a marcare continuamente la propria alta letterarietà, ma è in una tensione continua a sperimentare e forzare i confini del linguaggio che fiorisce la scrittura di questo autore, e pazienza per qualche affettazione di troppo. Mio padre la rivoluzione conferma il valore di uno scrittore tra i più interessanti, dotati e seriamente votati al proprio lavoro emersi in Italia negli ultimi anni. La vocazione più profonda di Orecchio è quella biografica: Città distrutte fu un esordio rivelazione per la sapienza con cui aveva confuso immaginazione e documentazione storica in brevi racconti di vite esemplari, tra Borges e Schwob e Michon. Stati di grazia ha espanso il modello della “biografia infedele” alla misura del romanzo. Con Mio padre la rivoluzione si torna al pezzo breve e alle storie di vite incapsulate dentro bolle di Storia manipolata e mutante. Questa volta il filo conduttore è tempestivamente la rivoluzione russa, in un’accezione molto estesa. I personaggi sono Trockij, Plotkin (un sindacalista americano che si reca in Germania nel ’33 per imparare l’arte della socialdemocrazia e si ritrova davanti all’incendio del Reichstag), Gianni Rodari (e il suo viaggio sovietico), Stalin, Bucharin e la moglie Anna Larina, Bob Dylan, il personaggio Kim de Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, altre figure secondarie intrecciate a questi ritratti in cui l’autore si concede la massima libertà di connessioni, cortocircuiti, tangenti fantastiche. Dove il recinto della più documentata referenzialità (Orecchio è di formazione storico e alla fine di ogni racconto una bibliografia viene a suggellare lo zoccolo documentale del racconto) conduce imprevedibilmente verso dimensioni molto più volatili, dove l’inquieto e capriccioso umore – e humor – del narratore forza i dati nudi e crudi come a spremerne, a furia di contorsioni, qualche goccia di umida verità. Ed è così che la temporalità collassa nel mito, la cosmogonia greca o la discesa negli inferi si sovrappone alla rivoluzione bolscevica, i protagonisti del 1917 diventano bambini o creature fantasy, i fiori chiamano i mesi e danno loro un destino, persino lo spazio geopolitico impazzisce nell’ucronia e nei what if del narratore, fino a formare un gigantesco “sprawl” metaforico e metageografico dove Stalin e Hitler appaiono come capi di opposte fazioni in una grande guerra civile. Tra i pezzi migliori è senza dubbio il primo, dove vediamo un Trockij sopravvissuto alla piccozza di Mercader, in Messico nel ’56, fare i conti con il rapporto Chruščëv. Interferenze, contaminazioni, controfattualità. Mio padre la rivoluzione è uno sforzo intellettuale, ma soprattutto immaginario e stilistico, per salvare il salvabile di un’esperienza fallimentare, il comunismo sovietico, il socialismo reale: per fornire alla coscienza di sinistra un’eredità che non sia autodenigratoria, per lottare contro la censura del pensiero rivoluzionario, onestamente, tra mille reticenze, mani avanti, verità ineludibili. Questa almeno sembra l’intenzione. Quel che resta è poco, ma forse quanto basta: nel mare del disincanto si salva appena un barlume, un filo sottilissimo di senso tra le connessioni e gli sfasamenti del linguaggio, nelle testimonianze, nell’innocenza della passione, nel sacrificio di chi fu in prima linea, nella nostalgia di una prima linea, nella pienezza utopica delle motivazioni.
[Immagine: El Lissitzky, CCCP].