di Caterina Verbaro

[Esce oggi, per Giulio Perrone, Pasolini. Nel recinto del sacro di Caterina Verbaro. Pubblichiamo l’introduzione].

 

  1. Poesia e sacro

Negli ultimi tempi gli studi pasoliniani sembrano concentrarsi intorno a due ambiti, entrambi cronologicamente riconducibili agli anni sessanta-settanta, quello relativo al cinema e al teatro e quello interessato alla lettura dei fenomeni socio-culturali dell’autore corsaro e luterano. Il Pasolini «piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta»[1] sembra essere del tutto messo in ombra da quel suo più appariscente e combattivo omologo che, pur continuando a praticare la letteratura, a partire dagli anni sessanta ne mette in discussione irrevocabilmente la centralità espressiva e culturale, inaugurando un processo di smottamento e di ibridazione dei codici artistici che avrà da lì in poi un fecondo sviluppo. È d’altra parte l’autore stesso a costruire un’autorappresentazione della scissione, in cui due distinti personaggi, il «poeta delle Ceneri»[2] e l’«autore/ non più indispensabile, carico/ di poesia e non più poeta»[3], si fanno interpreti di due epoche culturali, la cui distanza è enfatizzata oltremodo dal discorso pasoliniano, a conferma di quella che Barberi Squarotti ha definito la «fagocitazione della realtà socio-politica all’interno della propria situazione psicologica»[4]. Nei più diversi generi frequentati, Pasolini sembra raccontare, in infinite variazioni, un’autobiografia della perdita costruita sull’idea della frattura, del mutamento, della disillusione. In questa autorappresentazione della scissione, in un unico canovaccio di drammatica coerenza, la fine degli ideali e dell’armonia tra sé e il reale comportano anche la perdita di ruolo della poesia, che di quell’armonia era sigla ed espressione:

Ero tolemaico (essendo un ragazzo)
e contavo l’eternità per l’appunto, in secoli.
Consideravo la terra il centro del mondo;
la poesia il centro della terra.
Tutto ciò era bello e logico[5].

La fine dell’universo «tolemaico» a cui il testo di Trasumanar e organizzar accenna, smuovendo le tessere di quel disegno cosmologico «bello e logico» in cui il tempo si manifestava come «eternità», esilia la poesia dalla sua postazione privilegiata al «centro della terra». Tuttavia vedremo, percorrendo in questo libro le diverse tappe dell’itinerario poetico pasoliniano, che tale mutamento di prospettiva non mina, ma al contrario conferma, il ruolo cardine della poesia, che fino alla fine resterà per Pasolini l’agente di una ricerca di senso declinata in maniera del tutto peculiare. Se è vero infatti che, come afferma Zanzotto, «Pasolini nelle sue operazioni sui generi letterari perseguì una interscambiabilità sempre sotto il segno del poetico»[6], a partire dagli anni sessanta la poesia, pur perdendo il suo ruolo principe di genere deputato a esprimere direttamente la sacralità dell’esistenza, orienterà una specifica modalità di relazione col reale e uno stile conoscitivo, applicabili ai più diversi generi.

È lo stesso Pasolini a teorizzare negli anni sessanta la necessaria presenza diffusa della poesia fuori dalla versificazione tradizionalmente intesa, e dunque una nozione di poesia translinguistica e transgenerica. Leggiamo da La lingua scritta della realtà:

L’avvento delle tecniche audiovisive, come lingue, o quanto meno, come linguaggi espressivi, o d’arte, mette in crisi l’idea che probabilmente ognuno di noi, per abitudine, aveva di una identificazione tra poesia – o messaggio – e lingua. Probabilmente, invece – come le tecniche audiovisive inducono brutalmente a pensare – ogni poesia è translinguistica. È un’azione «deposta» in un sistema di simboli, che ridiviene azione nel destinatario, non essendo quei simboli che dei campanelli di Pavlov[7].

L’approdo al cinema, enfatizzato nelle ricostruzioni pasoliniane come la rivoluzionaria scoperta di una nuova lingua «transnazionale» perché fondata sul codice stesso della realtà[8], comporta lo slittamento semantico del concetto di poesia, che diventa da ora in poi un modo piuttosto che un genere («un’azione “deposta” in un sistema di simboli»). Lo conferma la teorizzazione, nello stesso 1966, del cosiddetto «cinema di poesia», in cui essa designa, in verità piuttosto oscuramente, una certa modalità procedurale, una tipologia espressiva basata sulla «soggettiva libera indiretta» e sulla dominante dello stile[9]. Al netto di un rischio tautologico sempre in agguato nei ragionamenti pasoliniani[10], la definizione sancisce la mutata natura del concetto di poesia, d’ora in poi in funzione aggettivale piuttosto che di genere tradizionalmente inteso.

Ciò che garantisce alla poesia il mantenimento di un ruolo cardine nell’esperienza pasoliniana è la sua capacità di intercettare ed esprimere quella valenza sacrale dell’esistenza che nelle diverse fasi si è incarnata nell’universo contadino del Friuli, nel sottoproletariato delle borgate, nella ciclicità della natura, nell’arcaica alterità del Terzo Mondo, nella salvifica atemporalità del mito. Il lavoro che qui proponiamo ruota proprio attorno a questa relazione, mutevole ma salda, che poesia e sacro intrattengono nell’opera e nell’esperienza pasoliniana, fin quasi a una totale identificazione tra i due concetti. La dimensione sacrale dell’esistenza non può che essere individuata, espressa e vissuta in forma di poesia: ce lo ricorda, ad esempio, quel libro di Rimbaud, per Pasolini epitome della poesia stessa[11], che tiene in mano il misterioso ospite di Teorema, in cui il sacro, con la sua valenza di devastazione tragica, si incarna[12]. La poesia rappresenta per Pasolini la possibilità e il modo di esperire quel sacro che è motivo fondante di tutta la sua opera, un sacro immanente, celato nel reale, a cui la poesia può dare forma e corpo.

È soprattutto nell’intervista Il sogno del Centauro che il tema del sacro emerge come nucleo essenziale del percorso pasoliniano. Chiarito che tale concetto è ben distinto dalla sua istituzionalizzazione religiosa, Pasolini afferma la propria «nostalgia del sacro»[13] non soltanto come personale fascinazione per il mitico e l’arcaico[14], ma nella sua funzione politica di opposizione alla cultura del Neocapitalismo:

Quanto allo scandalo, deriva anche dal fatto che io sono sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei […]. Ecco, in ogni caso il sentimento del sacro era radicato nel cuore della vita umana. La civiltà borghese lo ha perduto. E con che cosa l’ha sostituito, questo sentimento del sacro, dopo la perdita? Con l’ideologia del benessere e del potere[15].

Così come la poesia, anche il «sentimento del sacro» si declina in termini oppositivi, come alterità rispetto a un’idea di realtà che nel nome della modernizzazione abrade la memoria antropologica e con essa la connessione con le epoche mitiche dell’esistenza. Dunque, come scrive Givone, «non il sacro come ritorno ad un naturalismo arcaicizzante, ma il sacro come disposizione […] ad accogliere l’appello di ciò che resta altro rispetto al mondo dato e al suo ordine»[16].

 

  1. La metastoricità della poesia

Negli ultimi anni, a partire dallo studio di Conti Calabrese del 1994, il topos del sacro si è ritagliato un proprio spazio significativo negli studi su Pasolini. Tuttavia la valenza mitico-sacrale è stata focalizzata perlopiù nell’opera cinematografica, che del sacro realizza in molti casi una tematizzazione diretta: e pensiamo non solo ai film scritturali come La ricotta (1963) o Il Vangelo secondo Matteo (1964), ma anche ai film della fase mitologica come Edipo re (1967), Medea (1969), Il fiore delle Mille e una notte (1974), o anche un prototipo dei nuovi generi cinematografici come Appunti per un’Orestiade africana (1970). Alcune letture critiche individuano nel linguaggio audiovisivo lo strumento ideale per evocare e rappresentare il sacro e considerano quello del cinema come il linguaggio proprio alla sua epifania. Per Fusillo, ad esempio, «nel cinema Pasolini trovò […] la sua idea di linguaggio del mito e del sacro»[17], un linguaggio visivo e antiletterario che esprime una «sfiducia nel logos»[18] e che consente una lettura anticlassicista e barbarica, e perciò stesso sacralizzante, dell’antico. Secondo Faeta invece «Pasolini comprendeva come il sacro, di per sé nascosto, per divenire realtà nel mondo, abbia bisogno di manifestarsi. Come il suo dominio elettivo sia, dunque, quello visivo, come le sue leggi generali attengano all’eidesis, come i suoi strumenti fondamentali siano rappresentati dalle immagini e dai simulacri»[19].

L’idea diffusa che l’indagine pasoliniana sul sacro dimori essenzialmente nel cinema necessita di qualche precisazione, in quanto l’evocazione del sacro presuppone non tanto uno specifico genere o linguaggio, ma piuttosto una serie di scelte stilistiche e tecniche che riproducano nel testo una condizione di metastoricità. Il ruolo della poesia, non più intesa dal Pasolini degli anni sessanta come versificazione ma come qualità espressiva applicabile ai diversi linguaggi, primo tra tutti al cinema, consiste proprio nel riprodurre tale metastoricità, carattere e qualità che da sempre le è congeniale. La poesia si identifica per Pasolini col sacro perché con esso condivide quello che egli definisce un «ralenti metastorico»[20], ovvero la sospensione della temporalità lineare a vantaggio di una configurazione ciclica del tempo. La poesia, anche come qualità del cinema, è perciò l’agente primo del procedimento di sacralizzazione che tanto sta a cuore a Pasolini[21].

Un’ulteriore precisazione riguarda la centralità della dimensione tecnica nel fare emergere la valenza sacrale della realtà[22]. L’epifania del sacro non è pura evocazione di immagini, bensì nasce da una strategia compositiva al centro della quale c’è il montaggio, visto come procedimento antinaturalistico per eccellenza, agente di un disvelamento mitologico capace di far emergere il volto sacro della realtà. Come scrive Bazzocchi, «attraverso il montaggio l’autore rende la realtà capace di esprimersi in tutta la sua dimensione enigmatica e primitiva. Il montaggio è l’operazione tecnica che fa affiorare la realtà nascosta e la rende visibile»[23]. Vedremo nel libro, e in particolare nel primo capitolo, come il montaggio, tecnica deputata a riprodurre la temporalità circolare del mito, non sia però di pertinenza esclusiva del cinema, ma diventi uno degli strumenti fondamentali anche dell’ultima poesia di Pasolini, con la medesima funzione di «ierofania»[24].

 

  1. Il sacro è il reale

In questa volontà di sacralizzazione del reale che guida la poetica e lo stile pasoliniani, possiamo riconoscere due fasi distinte. La prima è quella già definita «tolemaica», in cui, fino alla fine degli anni cinquanta, il sacro sembra trovare dimora nei soggetti e nei luoghi della marginalità – i contadini friulani, i sottoproletari delle borgate – tanto che, per fare di essi i protagonisti della propria poesia, è necessario essenzialmente sottolineare la poeticità dell’impoetico. In questa fase il linguaggio letterario agisce come strumento insieme di rispecchiamento e di trasfigurazione mitica, di documentazione antropologica e di mitizzazione sacrale. Pensiamo a testi come Poesie a Casarsa, Canto popolare, L’umile Italia, Ragazzi di vita[25]: non si tratta solo della mitizzazione di un soggetto collettivo popolare, ma di un intero mondo la cui sacralizzazione passa attraverso la rappresentazione del carattere dell’immutabilità e dell’esclusione dalla storia. In esso, presente nel «ragazzo che cant[a]/ qui a Rebbibbia sulla misera riva / dell’Aniene» quanto nel giovane David che è «coma un toru ta un dì di Avrìl/ che ta li mans di un frut ch’al rit/ al va dols a la muàrt»[26], si coglie la vita fuori dalla sua dimensione storica, fondata su quell’infinito ritorno cifra delle civiltà arcaiche e sacrali, come confermerà da lì a poco a Pasolini la lettura dei maggiori storici delle religioni, da Eliade a De Martino[27]. La poesia in questa fase fa emergere il sacro ancora ospite nei margini del reale, dandogli, come mai prima di allora era stato fatto, voce, volti, lingua e valore[28].

È interessante notare come la sede in cui la sacralità può essere colta vada via via trasferendosi da un soggetto popolare al topos della natura, la cui ciclicità è letta da Pasolini in antitesi alla storia: lo si vede nell’ultima sezione, Poesie incivili, del libro-cerniera tra le due fasi poetiche pasoliniane, La religione del mio tempo[29]. In particolare nel poemetto Il glicine, elogio dolente del «gemello vegetale» che col ritorno di ogni fioritura sancisce insieme l’esistenza della morte, allusa dalla «tinta del cadavere» di questi «bui festoni dei glicini», e quella della vita, trionfante nella dimensione stessa della ciclicità («Maledico i sensi di quei vivi, / per cui, un giorno, nei secoli tornerà aprile:/ coi glicini, con questi chicchi lilla»)[30]. Il glicine pasoliniano è il simbolo stesso del sacro, poiché la sua stagionale comparsa, così come il rito nelle religioni, riattualizza quello che Eliade definisce «un tempo mitico primordiale divenuto presente»[31].

Nella modernizzazione che Pasolini denuncia a partire dagli anni sessanta, assieme alla cancellazione delle culture arcaiche e contadine, si realizza una crescente rimozione del sacro dagli orizzonti della quotidianità. La sua evocazione poetica diventa, da allora in poi, il marchio essenziale dell’opposizione pasoliniana, che a un’idea puramente fattuale ed economicistica della realtà contrappone la necessità di un suo radicamento nel passato eterno del mito. Pasolini elabora un nuovo concetto di realtà («è realista solo chi crede nel mito»[32]) proprio in ragione della necessaria inclusione del sacro nel suo orizzonte. In ciò fa propria la lezione degli storici delle religioni e in particolare di Eliade, per il quale «il sacro è il reale per eccellenza»:

Evidentemente si tratta di realtà sacre, perché il sacro è il reale per eccellenza. Niente di ciò che appartiene alla sfera del profano fa parte dell’Essere, poiché il profano non è stato fondato ontologicamente con il mito, non ha un modello esemplare. Come vedremo in seguito, il lavoro agricolo è un rito rivelato dagli dèi o dagli Eroi civilizzatori, cosicché costituisce un atto reale e significativo insieme. Confrontiamolo con il lavoro agricolo in una società desacralizzata: qui è diventato un atto profano, giustificato unicamente da un vantaggio economico. Si lavora la terra per sfruttarla, con lo scopo di nutrirsi e di guadagnare. Svuotato di simbolismo religioso, il lavoro agricolo diventa “squallido” ed estenuante: non ha nessun senso, non offre alcuna “apertura” verso l’universale, verso il mondo dello spirito[33].

Riformulato dunque il concetto di “realismo” in un’accezione ben distinta da quelle dominanti del tempo[34], per cogliere questo reale sacralizzato diventa sempre più necessario un adeguamento stilistico[35], che in campo poetico come cinematografico, sarà ora fondato sul sistematico ripudio di ogni purezza espressiva e linearità naturalistica e sulla scelta di quel modello espressivo di Stilmischuung che l’autore definisce con la sigla del «magma»[36]. Pasolini ne parla ampiamente nelle sue Confessioni tecniche già nel 1965, sottolineando la funzione sacralizzante di tale uso stilistico e chiarendo che la sua ricerca di «scandalo espressivo» ha come fine proprio il «cercare la poesia»:

[…] mi son sempre più liberato dai miei schemi di ordine, della sacralità tecnica, e mi son buttato nel magma: al 300 ho aggiunto il suo contrario, il 25: e per i primi piani! Cosa che, prima, mi avrebbe fatto inorridire […]. Ho cercato lo scandalo che sempre dà la poesia, attraverso lo scandalo che può dare la sincerità: e invece, ripeto, è chiaro, attraverso il risultato unitario, che non è espressionistico e magmatico, ma a suo modo estremamente ordinato e regolare, che mi servivo dello scandalo espressivo per cercare la poesia…[37]

Parlando qui del mutamento delle tecniche di ripresa sperimentato nel Vangelo, Pasolini ci sta dando delle importanti indicazioni su un intero sistema stilistico fondato sulla contaminazione, di cui parlerà poi ampiamente nelle conversazioni con Halliday e Duflot[38]. A proposito dell’uso contrastivo della musica nel suo cinema, Pasolini cita Auerbach come fonte di questa mischuung: «È l’amalgama (il magma) del sublime e del comico di cui parla Auerbach […]. È quello che Auerbach chiama “scrittura magmatica”, ossia scrittura generata dalla mescolanza degli stili»[39].

 

  1. Il magma, il montaggio e l’epifania del sacro

Dunque, non meno che quello con Eliade, l’incontro con Auerbach e col suo «realismo creaturale» è per Pasolini fondamentale per definire una nozione di realismo sacralizzante – o, come lo chiama Bologna, di «creaturalismo» – opposta a differenti modelli di realismo più convenzionali[40]. L’amalgama stilistico di Pasolini – nella cui sigla comprendiamo una serie di fenomeni compositivi di cui si parlerà nel volume, quali la pratica del frammento e degli appunti e l’uso peculiare dell’intertestualità – è lo strumento con cui egli persegue l’epifania del sacro come fine ultimo della propria opera, in quanto modalità stilistica capace di ricostruire artificialmente nel testo quella dimensione di sincronicità che del sacro è carattere precipuo. Un effetto perseguito da Pasolini nei diversi generi, che è ad esempio motivo di fondo di film come Edipo re o Appunti per un’Orestiade africana, ma è presente in massimo grado in un testo narrativo come Petrolio o, come vedremo nei capitoli seguenti, in vari testi poetici delle ultime raccolte. Avremo modo di indagare nei capitoli seguenti il funzionamento di tale operazione stilistica mirata a produrre una sincronizzazione e una fusione metastorica tra passato e presente. Vedremo ad esempio nel quarto capitolo, a proposito del poemetto Patmos, come Pasolini lavori ad allestimenti testuali capaci di restituire una dimensione metastorica attraverso l’interferenza tra l’arcaico e il presente, e come ciò consenta di conferire sacralità e senso al presente stesso: davanti alla strage di Piazza Fontana, non diversamente che davanti a tutti gli orrori del presente, lo schema testuale concepito da Pasolini costruisce attorno all’evento una prospettiva mitica e sacrale capace di riscattarne la disperante insensatezza. È questo il significato del sincronismo pasoliniano, in cui, non troppo diversamente da quell’umanesimo antropologico che si manifesta nella cultura italiana tra Carlo Levi ed Ernesto De Martino, si rende evidente l’esistenza di un passato rimosso che abita il presente e lo sostanzia di senso[41]. Siamo ben lontani da quell’operazione elegiaca e regressiva che all’epoca molti, equivocandone il senso, rimproverarono a Pasolini; al contrario, nel realizzare questo modello di «montaggi temporali», Pasolini mostra davvero, come afferma Didi-Huberman, una lucidità intellettuale da precursore[42].

Si tratta in ultima analisi di alterare nella rappresentazione la fisionomia del presente, parificando attraverso il montaggio i diversi piani temporali. Pasolini sa bene che, perché la sacralità si manifesti, è necessario moltiplicare, complicare e vanificare il presente:

E che cosa otteniamo con questo montaggio? Otteniamo una moltiplicazione di «presenti», come se un’azione anziché svolgersi una volta sola davanti ai nostri occhi, si svolgesse più volte. Questa moltiplicazione dei «presenti» abolisce in realtà il presente, lo vanifica, ognuno di questi presenti postulando la relatività dell’altro, la sua inattendibilità, la sua imprecisione, la sua ambiguità[43].

In quest’ottica è molto significativa la nota associazione che Pasolini fa tra il montaggio e la morte, entrambi operatori di una sorta di relativizzazione del presente entro una più ampia cornice mitologica del tempo:

È dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (nell’ambito appunto di una Semiologia Generale). Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.

Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita[44].

La morte determina la vita, io sento così, e l’ho anche scritto, in un recente saggio, dove la paragono al montaggio. La vita acquista un senso quando è finita; prima di quel momento non ne ha, il suo senso è sospeso e pertanto ambiguo […]. Per me la morte è il massimo dell’epicità e del mito. Quando le parlo della mia tendenza al sacrale, al mitico, all’epico, dovrei dire che essa può essere completamente appagata solo dall’atto della morte, che secondo me è l’aspetto dell’esistere più mitico ed epico[45].

L’eco auerbachiana di queste affermazioni è evidente: la prospettiva atemporale è infatti quella capace di produrre il compimento figurale del presente e delle stesse vite individuali, quel compimento figurale letto da Auerbach nella costellazione dei tempi della Divina Commedia e nella conciliazione che in essa si realizza di una cronologia terrena e storica e di una prospettiva dell’eternità[46]. Il sacro può infatti manifestarsi solo a condizione che il presente sia sottratto alla sua dimensione puramente contingente e ricondotto a quella ciclicità dell’esistenza in cui, ad esempio, Accattone morente sente di poter finalmente accedere[47]. Per Pasolini non è altro che questo il compito della poesia: risacralizzare il reale, restituendogli lo spessore del mito, ed in ciò ricondurre l’esistenza umana «nel recinto del sacro»[48].


[1] P.P. Pasolini, La Divina Mimesis, Torino, Einaudi, 1975, ora in RRII, p. 1084.

[2] Poeta delle Ceneri si intitola il poemetto autobiografico, composto in versi decisamente prosastici, che Pasolini compone nel 1966-67 in vista di un suo viaggio a New York, per presentarsi al pubblico americano, uscito postumo in «Nuovi Argomenti», luglio-dicembre 1980, ora in TP 2, pp. 1261-1288.

[3] Id., L’alba meridionale, in Id., Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964, ora in TP 1, p. 1241. Pasolini sembra applicare alla propria autorappresentazione quell’idea che ogni sviluppo narrativo nasca dalla duplicazione, espressa in Petrolio con la scissione in Carlo I e Carlo II e così metanarrativamente teorizzata nel corso del romanzo: «Fu osservando questa sua vita che mi venne voglia di scrivere un Romanzo. Ma un personaggio solo, quell’unico che conoscevo, non bastava a fare una storia: occorreva almeno un antagonista. Feci perciò quello che usano fare in genere i romanzieri: cioè da un personaggio reale, che conoscevo, ne feci due» (Id., Petrolio, Torino, Einaudi, 1992, ora in RR II, p. 1672).

[4] Giorgio Barberi Squarotti, La poesia e il viaggio a ritroso dell’io, in Guido Santato, a cura di, Pier Paolo Pasolini: l’opera e il suo tempo, Padova, Cleup, 1983, p. 209.

[5] Pier Paolo Pasolini, Richiesta di lavoro, in Id., Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 1971, ora in TP 2, p. 13.

[6] Andrea Zanzotto, Pasolini poeta, in Pier Paolo Pasolini, Pasolini, Poesie e pagine ritrovate, a cura di A. Zanzotto e Nico Naldini, Roma, Lato Side, 1980, ora in Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura, vol. II, Aure e disincanti nel Novecento italiano, a cura di Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, 2001, p. 154.

[7] Pier Paolo Pasolini, La lingua scritta della realtà, in Id., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, ora in SLA 1, pp. 1504-1505.

[8] «[…] e fu così che mi colpì come una folgorazione l’idea che il linguaggio cinematografico non è una lingua nazionale, ma piuttosto quella che definirei “transnazionale”» (Id., Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday [1968-1971], Parma, Guanda, 1992, ora in SPS, p. 1302, ed. originale O. Stack [pseudonimo di Jon Halliday], Pasolini on Pasolini, London-New York, Thames and Hudson, 1969). In termini quasi identici Pasolini parla di questo passaggio al cinema in Poeta delle ceneri: «Poi mi accorsi/ che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi/ appartenente alla stessa lingua con cui si scrive:/ ma era, essa stessa una lingua…» (P.P. Pasolini, Poeta delle Ceneri, cit., p. 1272).

[9] «La caratteristica fondamentale, dunque, della “soggettiva libera indiretta” è di non essere linguistica, ma stilistica. E può essere dunque definita un monologo interiore privo dell’elemento concettuale e filosofico astratto esplicito. Questo, almeno teoricamente, fa sì che la “soggettiva libera indiretta” nel cinema implichi una possibilità stilistica molto articolata; liberi, anzi, le possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa, in una specie di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria. Insomma è la “soggettiva libera indiretta” a instaurare una possibile tradizione di “lingua tecnica della poesia” nel cinema» (Id., Il «cinema di poesia», in Id., Empirismo eretico, cit., ora in SLA 1, p. 1477).

[10] «Il “cinema di poesia” è in realtà, dunque, profondamente fondato sull’esercizio di stile come ispirazione, nella maggior parte dei cari, sicuramente poetica» (Ivi, p. 1483).

[11] «[…] verso i diciassette anni ho fatto una lettura fondamentale al liceo, che è stata quella di Rimbaud, dei simbolisti francesi e di Ungaretti, Il sentimento del tempo di Ungaretti. Ora che cosa è significato questo? Questa lettura traumatica, che è un nodo della mia vita, ha avuto due funzioni diverse e in un certo senso contraddittorie. Primo, mi ha fatto diventare antifascista. La lettura di Rimbaud e della poesia simbolista e della poesia del decadentismo, ha fatto sì che meccanicamente, automaticamente, prendessi coscienza che io ero un antifascista» (Id., Pasolini rilegge Pasolini, Intervista con Giuseppe Cardillo, a cura di Luigi Fontanella, con CD, Milano, Archinto, 2005, pp. 37-38).

[12] «Il giovane non si accorge dunque di essere guardato, completamente e quasi innocentemente immerso nel suo studio – che davanti agli occhi di Emilia è un privilegio quasi sacro. Tanto più che ora, anziché le dispense – forse per riposarsi un poco – sta leggendo un piccolo volume in edizione economica delle poesie di Rimbaud. E questa lettura lo prende ancora di più che la precedente» (Pier Paolo Pasolini, Teorema, Milano, Garzanti, 1968, ora in RR II, p. 908). Nell’intervista a Duflot, a proposito della valenza allegorica dell’opera, Pasolini afferma che «in Teorema, per esempio, il giovane ospite non è solo un ospite venuto a soggiornare in una famiglia di amici milanesi, è l’allegoria di Dio» (Id., Il sogno del Centauro. Incontri con Jean Duflot [1969-1975], a cura di Jean Duflot, prefazione di Gian Carlo Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1983, ora in SPS, p. 1495).

[13] Ivi, pp. 1447.

[14] «Io sono propenso a un certo misticismo, a una contemplazione mistica del mondo, beninteso. Ma questo è dovuto a una sorta di venerazione che mi viene dall’infanzia, d’irresistibile bisogno di ammirare la natura e gli uomini, di riconoscere la profondità, là dove altri scorgono soltanto l’apparenza esanime, meccanica, delle cose» (Ivi, pp. 1421-1422).

[15] Ivi, pp. 1479-1484.

[16] Sergio Givone, Pasolini e il sacro, in «Antologia Vieusseux», Pier Paolo Pasolini, I, 2, maggio-agosto 1995, p. 221. Sull’antitesi tra sacralità come dimensione della gratuità e assetto capitalistico dell’ordine sociale, scrive La Porta che il sacro è «l’unica cosa che si sottrae alla logica utilitaristica dello scambio, all’economia monetaria» (Filippo La Porta, Il sacro è la realtà stessa. Un concetto pasoliniano dalle implicazioni fortemente politiche, in Angela Felice – Gian Paolo Gri, a cura di, Pasolini e l’interrogazione del sacro, Venezia, Marsilio, 2013, p. 35). Sulla questione si veda Giulio Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori, 2005.

[17] Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, Roma, Carocci, 2007, p. 14.

[18] Ivi, p. 103.

[19] Francesco Faeta, Dare immagini alla manifestazione del sacro, in A. Felice – Gian Paolo Gri, L’interrogazione del sacro, cit., p. 19.

[20] Pier Paolo Pasolini, La volontà di Dante a essere poeta, in Id., Empirismo eretico, cit., ora in SLA 1, p. 1387.

[21] Nell’intervista a Duflot Pasolini afferma: «è contrario alla mia natura profonda dissacrare sia le cose che la gente. Tendo invece a risacralizzarle il più possibile» (Id., Il sogno del Centauro, cit., p. 1423). E parallelamente a Jon Halliday: «Ma io non volevo far questo, perché non sono interessato alla dissacrazione: è una moda piccolo-borghese. Io voglio riconsacrare le cose per quanto possibile, voglio rimitizzarle» (Id., Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, cit., p. 1336). Sarà questa la chiave del suo dissenso da Satura di Montale (Milano, Mondadori, 1971), un libro letto come esempio di «quell’operazione di moda che viene chiamata trionfalmente dissacrazione», fondata sull’idea che «non bisogna fare della delusione una tragedia» (Pier Paolo Pasolini, Recensione a Satura, in «Nuovi Argomenti», n.s., gennaio-marzo 1971, ora in SLA 2, pp. 2561-2562).

[22] Pasolini conia l’espressione «sacralità tecnica» per alludere ad alcuni artifici di espressione del sacro propri della sua prima fase cinematografica; cfr. Pier Paolo Pasolini, Confessioni tecniche, in Id. Uccellacci e uccellini. Un film di Pier Paolo Pasolini, Milano, Garzanti, 1966, ora i n PC 2, p. 1269.

[23] Marco Antonio Bazzocchi, La parte nascosta del mito, in A. Felice-G.P. Gri, L’interrogazione del sacro, cit., p. 60. Ad esempio sul trattamento del sacro nell’Edipo re, si veda Giorgio Patrizi, La periferia nel (del) romanzo: Pasolini e il caso «Petrolio», in Paolo Martino – Caterina Verbaro, a cura di, Pasolini e le periferie del mondo, Pisa, ETS, 2016, pp. 57-66.

[24] P.P. Pasolini, Il sogno del Centauro, cit., p. 1480. Su questo termine e concetto, Pasolini dice a Duflot: «È proprio strano, vede, ero convinto di avere inventato io l’aggettivo, e invece mi sono imbattuto in questa terminologia in un’opera di Mircea Eliade, che tratta della storia dei miti» (ivi).

[25] Id., Poesie a Casarsa, Bologna, Libreria Antiquaria Mario Landi, 1942, ora in TP 1, 5-159 (ma inserita in La meglio gioventù); Id., Ragazzi di vita, Milano, Garzanti, 1955, ora in RR I, pp. 521-771; Id. Canto popolare, Milano, Edizioni della Meridiana, 1952, poi in Id., Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1957, ora in TP 1, pp. 784-786; Id., L’Umile Italia, in Id., Le ceneri di Gramsci, cit., ora in TP 1, pp. 800-806.

[26] Id., rispettivamente Canto popolare, cit., p. 786 e Id., David, in Poesie a Casarsa, cit., p. 17.

[27] Sulle letture antropologiche di Pasolini cfr. Id., Mircea Eliade, «Mito e realtà». Elias Canetti, «Potere e sopravvivenza», in Id., Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Torino, Einaudi, 1979 (nuova edizione Milano, Garzanti, 1996, prefazione di Giampaolo Dossena), ora in SLA 2, rispettivamente pp. 2113-2118 e 2134-2137.

[28] Sul nesso sacro-periferia, oltre che il capitolo a ciò specificamente dedicato in questo libro, si veda P. Martino – C. Verbaro, Pasolini e le periferie del mondo, cit.

[29] Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, ora in TP 1, pp. 889-1060.

[30] Id., Il glicine, ivi, pp. 1054-1059.

[31] Mircea Eliade, Das Heilige und das Profane, Hamburg, Rowohlt Tachenbuch Verlag, 1957, trad. it. Il sacro e il profano, Torino, Bollati – Boringhieri, 1967, p. 63.

[32] Pier Paolo Pasolini, Il sogno del Centauro, cit., pp. 1461-1462.

[33] M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., p. 63.

[34] Sulla qualità del realismo pasoliniano e sul suo rapporto col sacro, si rimanda a Corrado Bologna, Le cose e le creature. La divina e umana «Mimesis» di Pasolini, in Ivano Paccagnella – Elena Gregori, a cura di, Mimesis. L’eredità di Auerbach, Padova, Esedra, 2009, pp. 445-466. Scrive Bologna che «il “creato” non è semplicemente “la realtà”, il “mondo” […] non coincide con il mondo delle “cose” descrivibile “realisticamente”» (ivi, p. 463).

[35] Afferma Pasolini che «lo stile è un prodotto diretto di questo mio sentimento della realtà come apparizione del divino» (Pier Paolo Pasolini, Pasolini rilegge Pasolini, intervista con Giuseppe Cardillo, a cura di Luigi Fontanella, con CD, Milano, Archinto, 2005, p. 47.

[36] Il termine entra nel vocabolario pasolinano con la massima evidenza nel poemetto Una disperata vitalità, per il quale si rimanda al terzo capitolo di questo libro. A proposito del nuovo modello stilistico, Fantuzzi parla di una vera e propria «conversione stilistica»: «Dato che il regista, nel parlare del suo nuovo stile, usa con frequenza l’immagine del magma, a me è venuto in mente di usare la stessa immagine, ma in maniera diversa. In quella notte di Viterbo si è rotta la crosta di pietra (l’impianto ideologico) che teneva prigioniero il magma. La fenditura nella roccia provocata dal terremoto […] ha consentito la fuoriuscita del magma. Pasolini è passato, quasi senza rendersene conto, dalla volontà di restare fuori dalla dimensione religiosa del testo di Matteo all’impossibilità di non cascarci dentro» (Virgilio Fantuzzi, La conversione stilistica di Pasolini durante le riprese del «Vangelo», in A. Felice – G.P. Gri, L’interrogazione del sacro, cit., p. 161). Di Fantuzzi su questo tema si veda anche Pasolini e il sacro, in «La Civiltà Cattolica», 167, febbraio 2016, pp. 316-331.

[37] P.P. Pasolini, Confessioni tecniche, cit., pp. 2771-2776.

[38] «E stilisticamente sono un pasticheur. Adopero il materiale stilistico più disparato: poesia dialettale, poesia decadente, certi tentativi di poesia socialista; c’è sempre nei miei scritti una contaminazione stilistica […]; la mia natura di pasticheur (pasticheur per passione, cioè, non per calcolo) è constatabile nel cinema come nelle altre forme espressive» (Id., Pasolini su Pasolini, cit., pp. 1300-1301).

[39] Id, Il sogno del Centauro, cit., p. 1510.

[40] Su questo si veda C. Bologna, Le cose e le creature, cit. Secondo Bologna, Pasolini trae da Auerbach la sua «poetica della pietas creaturale come fondamento di un’arte realistica non più religiosa, ma umanistica e problematica, laica e tragica, simbolica perché patetica» (ivi, p. 449). Il rimando è a Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Bern, Franke-Verlag, 1946, trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Introduzione di Aurelio Roncaglia, 2 voll., Torino, Einaudi, 1956. Sul rapporto con Auerbach si veda anche Silvia De Laude, Pasolini lettore di «Mimesis», in I. Paccagnella- E. Gregori, Mimesis. L’eredità di Auerbach, cit., pp. 467-482.

[41] Su questa «compresenza dei tempi» si veda la lettura che Calvino fa di Carlo Levi: «egli è il testimone della presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore d’un altro mondo all’interno del nostro mondo» (Italo Calvino, La compresenza dei tempi, in «Galleria», 3-4, 1967, ora in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, tomo primo, Milano, Mondadori, 1995, p. 1123).

[42] Didi-Huberman Georges, La survivance des lucioles, Paris, Éditions de Minuit, 2009, trad. it. Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. 44. Il filosofo francese connette Pasolini a quelle interrogazioni delle sopravvivenze che caratterizzano un certo filone intellettuale, che da Benjamin e Aby Warburg arriva fino a Giorgio Agamben, laddove ad esempio quest’ultimo scrive che «fra l’arcaico e il moderno c’è un appuntamento segreto» (Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma, Nottetempo, 2008, p. 43).

[43] Pier Paolo Pasolini, Osservazioni sul piano sequenza, in Id., Empirismo eretico, cit., ora in SLA 1, p. 1556.

[44] Ivi, pp. 1560-1561.

[45] Id., Pasolini su Pasolini, cit., pp. 1318-1319.

[46] Cfr. Erich Auerbach, Dante als Dichter der irdischen Welt, Berlin-Leipzig, De Gruyter, 1929, trad. it. Studi su Dante, Introduzione di Dante Della Terza, Milano Feltrinelli, 1963.

[47] La scena finale di Accattone è la perfetta conferma dell’idea pasoliniana di epicità sacrale della morte: «Sulla strada, da cui si vede un’ampia curva del Tevere, sotto il sole livido, la motocicletta è fracassata contro la parte anteriore di un camion e Accattone è lì, riverso sul marciapiede, sul posto dove poco prima lui e gli amici avevano tanto riso. Cartagine si butta su di lui, impressionato e piangente come un ragazzino. cartagine “‘A Accatto’, ‘a Accatto’… Che ciài… che ti senti?” Accattone è morente. Ha appena la forza di voltare il collo verso il Cartagine e il Balilla. accattone “Aaaah… Mo’ sto bene!” Sono le sue ultime parole. Il Cartagine guarda stravolto e pieno di lacrime verso il Balilla, che si fa il segno della croce, passandosi davanti alla sua faccia di scimmia le mani e i polsi stretti dal ferro delle manette» (Pier Paolo Pasolini, Accattone, Prefazione di Carlo Levi, Roma, FM, 1961, poi in Id., Accattone, Mamma Roma, Ostia, Introduzione di Ugo Casiraghi, Milano, Garzanti, 1993, ora in PC 1, p. 142).

[48] Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 1692.

 

[Immagine: Ernest Pignon-Ernest, Pasolini]

 

7 thoughts on “La poesia come forma del sacro

  1. Giustissimo. Seguendo tutto il ragionamento (ma occorrerà leggere il libro per intero), pasolini è un precursore del “romantico”, cioè un reazionario. È da un po’ che si è capito: Rivolta e Malinconia. Ed è la strada dell’Epica

  2. AL VOLO

    “La maggiore sventura che abbia potuto colpire l’opera di Pasolini? Che già nel decennio antecedente la sua morte e poi nel decennio che l’ha seguita, sia stato possibile leggerla come uno dei supporti ideologici della reazione politica; sul che non possono concordare, va da sé, coloro che non accettano di chiamare con tale nome il periodo 1976-85”

    (F. Fortini, Attraverso Pasolini, pagg. 211-212, Einaudi 1993)

  3. AGGIUNTA

    A vantaggio dell’autrice di questa introduzione, premetto che, non avendo letto il libro, le mie obiezioni sono provvisorie e rivedibili. Né vorrei farmi scudo di Fortini (precedente commento) contro certe interpretazioni ormai del tutto a-marxiste e reazionarie (che non è, malgrado il cambio delle mode, un termine così apprezzabile, eh!) dell’opera di Pasolini. E perciò ad una sua studiosa, mi sento almeno di porre alcune domande:

    1. Che giudizio dà – lei e non Pasolini – di quella «valenza sacrale dell’esistenza» che caratterizzerebbe (interamente?) la poesia di Pasolini?

    2. Che la poesia rappresenti per Pasolini « la possibilità e il modo di esperire quel sacro che è motivo fondante di tutta la sua opera, un sacro immanente, celato nel reale» non lo discuto, ma questa sua “fede” o “credenza” va o no messa a confronto con altre “credenze” o concezioni della funzione della poesia coeve o successive? E che ne risulta? Davvero questa « volontà di sacralizzazione del reale» può essere una prospettiva conoscitiva valida rispetto ad altre (io, ad es., penso a Leopardi, Fortini, Bloch, Adorno)? Davvero «è realista solo chi crede nel mito»? ( Allora Leopardi non sarebbe “realista”? Non ci sarebbe altro “realismo” se non questo metastorico pasoliniano?)

    3. Si può oggi accogliere senza batter ciglio l’idea che il linguaggio audiovisivo sia « lo strumento ideale per evocare e rappresentare il sacro»?

    4. «Quando le parlo della mia tendenza al sacrale, al mitico, all’epico, dovrei dire che essa può essere completamente appagata solo dall’atto della morte, che secondo me è l’aspetto dell’esistere più mitico ed epico» (Pasolini).

    Accantonando il fatto indubbio che non è la morte o l’atto della morte a «produrre il compimento figurale del presente e delle stesse vite individuali», ma semmai la capacità poetica o interpretativa dei *vivi* che riescono a immaginare cose ed eventi *fingendosi* morti, perché il «compimento figurale» alla Auerbach dovrebbe essere pensato solo al passato, come tendeva a fare Pasolini?

  4. Vorrei porre alla Verbaro [e ad Abate] l’autrice di un saggio metapoetico che pone domande d’importanza capitale per fare poesia oggi,[ autore di pseudodomande le quali già in sé contengono le risposte dello stesso interrogante], a mia volta per bocca di Zbigniew Herbert:

    “Dove passerai l’eternità?”

    E l’altra, sia alla Verbaro sia ad Abate, che mi proviene dal poeta che più ho amato, Charles Simic:

    “Quante parole servono a creare il silenzio?”

    GR

  5. @ gino rago

    Ma perché perdere tempo con uno come Abate, se è “autore di pseudodomande le quali già in sé contengono le risposte dello stesso interrogante”?

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