di Guido Mazzoni
[Questo saggio è uscito sul nuovo numero della rivista «Ticontre. Teoria testo traduzione» (VIII, 2017). Appartiene alla sezione monografica curata da Andrea Afribo, Claudia Crocco e Gianluigi Simonetti, intitolata La poesia contemporanea dal 1975. Ricostruzioni e interpretazioni del contemporaneo].
1. Una cosa povera e inascoltata
Nell’aprile del 1994, in una data che retrospettivamente assume un colore ironico, Giuseppe Conte pubblica una lettera in versi intitolata Sullo stato della poesia. Comincia così:
Da tempo mi interrogo.
Che mutazione politico-antropologica
c’è stata? Che cosa è cambiato
in questi anni
non dico nell’editoria, nei giornali,
ma nei lobi cerebrali
nei cazzi, nelle anime
perché la poesia diventasse
questa cosa povera e inascoltata?
Ancora quando ero studente io
Sanguineti e Pasolini
dibattevano sui destini
del mondo, del linguaggio,
della letteratura, come Ministri degli Esteri
di due Stati avversari.
Oggi il poeta non ha diritto di parlare[1].
Nei versi successivi il discorso degenera: ci viene detto che la poesia è la forma più alta di conoscenza, che ha il primato sulla politica, sull’economia e sulla religione, che i poeti sono dei legislatori inascoltati per colpa della più imbecille, della più corrotta borghesia intellettuale d’Europa, amante della televisione, digiuna di letteratura, eccetera. È un testo intellettualmente improbabile, come altre opere di Giuseppe Conte, ma tratteggia benissimo il clima di un’epoca letteraria tramontata. Quando Conte era al liceo, fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, i poeti potevano essere percepiti «come Ministri degli Esteri | di due Stati avversari» che dibattevano «sui destini del mondo, | del linguaggio, della letteratura». Conte si riferisce a Sanguineti e Pasolini, ma le sue parole potrebbero valere per molti degli autori nati fra l’inizio degli anni Dieci e l’inizio degli anni Trenta. Fra il dopoguerra e la seconda metà degli anni Settanta le discussioni sulla storia e sul canone della poesia recente sono state, in modo più o meno mediato, discussioni sui destini del mondo. Imitando le maniere del dibattito politico («come Ministri degli Esteri | di due Stati avversari»), quelle polemiche traducevano in concetti i contenuti rappresi nelle forme della poesia, accorpavano i singoli poeti in tendenze, in partiti, leggevano le scelte estetiche come il segno di scelte etiche, esistenziali, politiche che non potevano coesistere nell’indifferenza. Il genere apparentemente più egocentrico e irresponsabile, la poesia, non sfuggiva a un giudizio ideologico: si poteva discutere sui criteri del giudizio e sulla verità da proteggere, ma tutti, engagés e désengagés, si riconoscevano nell’avvertimento di Brecht: la letteratura sarà esaminata. Chi partecipava a questo esame collettivo, dai toni mortalmente seri e vagamente paranoici, non era disposto ad ammettere che l’attrito fra posizioni diverse si sciogliesse nella coesistenza pacifica, ma esigeva il dialogo e, se necessario, la polemica – in versi o in prosa. La storia della poesia italiana di quegli anni è fatta di discussioni simili: Pasolini contro Sanguineti, Fortini contro Pasolini, Fortini contro Sereni, Fortini contro le nuove avanguardie, Pasolini contro Montale, Montale contro Pasolini, Montale contro le nuove avanguardie, le nuove avanguardie contro il resto del mondo. Anche la critica fatta da chi non scriveva poesia obbediva alla stessa logica. Basta leggere le polemiche che seguirono alla pubblicazione dell’antologia di Mengaldo nel 1978 per capire che la posta in gioco non era la difesa di un gusto o dei poeti amici ingiustamente maltrattati dal critico: la posta in gioco era un’idea della letteratura e della realtà. Per comportarsi così bisognava avere una fiducia solidissima nella propria rilevanza, un’illusio che nasceva, come ogni illusio, da precise condizioni materiali.
Nell’aprile del 1993, un anno prima che Conte pubblicasse la sua lettera, Fortini aveva raccolto i documenti del suo dibattito più che ventennale con Pasolini. Per un attimo, in una pagina dell’introduzione, si era visto dall’esterno con grande lucidità: «quanto in lui e in me si agitò in quelle occasioni non può non apparire alcunché di incomprensibile, quasi al confine della mania per un giovane di oggi»[2]. Nel 1993 tutto questo dibattere su poesia, verità e politica come se la poesia avesse un rapporto con i destini generali e contasse davvero qualcosa poteva suonare anacronistico come il rituale di una civiltà scomparsa. Oggi è con questo spirito che i più leggono un libro come Attraverso Pasolini e, in generale, i dibattiti di quell’epoca. La poesia italiana entra nella stagione contemporanea della sua storia quando un’atmosfera simile finisce, quando comincia la mutazione politico-antropologica di cui parla Conte e la poesia diventa una cosa povera e inascoltata, una forma di letteratura minore[3].
Ci sono due modi per parlare di poesia contemporanea: dall’interno, provando a tracciare la storia e la mappa delle tendenze, o dall’esterno, parlando delle sue condizioni di possibilità, della sua storia sociale. Chi frequenta i dibattiti pubblici che periodicamente agitano il campo sa che la più frequente e praticata delle due maniere, nella forma di lamento per la mancanza di pubblico e di spazi editoriali, è la seconda. Un’insistenza simile va presa come un segno. Ciò che definisce l’ingresso della poesia nella sua stagione contemporanea, prima che un mutamento interno alla letteratura, è un mutamento sociale.
2. 1971, 1975, 1979
È noto che il primo annuncio di questo passaggio si trova in Il pubblico della poesia, l’antologia che Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli pubblicarono nel 1975 per Lerici assemblando testi pubblicati nei sette anni precedenti da poeti che appartenevano per anagrafe, e a volte solo per anagrafe, alla generazione del Sessantotto[4]. Il pubblico della poesia si apre col saggio di Berardinelli che annuncia questa discontinuità in forma di intuizione, Effetti di deriva. Non è uno scritto analitico: è una sequenza rapsodica di idee che tentano di fissare un processo che stava accadendo nel momento stesso in cui veniva descritto. Ripartire da queste idee significa innanzitutto integrarle e renderle esplicite. Significa anche prendere atto di una soglia: in Italia la poesia entra nella stagione contemporanea della propria storia nel corso degli anni Settanta.
La pubblicazione di Il pubblico della poesia si presta a fare da confine in un processo che, come tutte i mutamenti collettivi, è fluido e scivoloso. Volendo scegliere due date di contorno che segnino l’inizio e la fine della fase più vorticosa del mutamento, potremmo indicare il 1971 e il 1979. Nel 1971, a distanza di pochi mesi l’uno dell’altro, escono alcuni libri che annunciano in modi diversi una nuova stagione[5]. In gennaio il più importante poeta italiano del Novecento pubblica un libro sorprendente. Satura rappresenta il tentativo di uscire da una crisi terribile con un rovesciamento. L’autore che aveva adattato al ventesimo secolo la tradizione italiana del lirismo tragico non riesce più a scrivere come negli Ossi di seppia, nelle Occasioni e nella Bufera. Dal 1948 Montale si è trasferito a Milano per lavorare al «Corriere della Sera». L’ultima poesia della Bufera è del 1954; una parte consistente del terzo libro è anteriore al periodo milanese. Per circa sei anni Montale non scrive sostanzialmente nulla, poi scrive a sprazzi: La belle dame sans merci (che in dattiloscritto è datata 1950-1960), Botta e risposta I (iniziata nel 1945 e stampata una prima volta nel 1962)[6], Ventaglio per S.F. (1962), La casa di Olgiate (1963), gli Xenia (1963-67). Solo nel febbraio del 1968 ricomincia copiosamente. Da quel momento in poi la scrittura si fa rapida, continua e molto diversa da quella precedente, prossima allo stile degli articoli che Montale pubblicava in quegli anni sui giornali e al tono della sua conversazione così come si è conservata nelle interviste radiofoniche o televisive. Il lirismo tragico viene sostituito da un registro che oscilla fra la satira e un autobiografismo di tipo nuovo, disincantato e neocrepuscolare.
Negli anni in cui non scrive poesie o scrive poco, Montale fa il giornalista per lavoro. I suoi articoli partono spesso da argomenti di occasione, ma tornano sempre su alcuni temi fissi e, letti come un discorso unitario, sviluppano una riflessione sulla crisi della civiltà nel secondo dopoguerra. Secondo Montale, la società contemporanea ha distrutto le condizioni che permettevano alla cultura umanistica di esistere e ottenere un riconoscimento collettivo: le masse, i consumi, i media, il mercato, la tecnica, la presa di parola generalizzata e dequalificata distruggono «noi, esseri tradizionali, copernicani, classici»[7] e il valore dell’esperienza soggettiva. Le condizioni che avevano reso possibile la grande arte, la grande musica, i grandi testi del romanzo e della poesia novecenteschi, compresi gli Ossi di seppia, Le occasioni e La bufera, sembrano non esistere più. Lo Zeitgeist richiede un altro tipo di cultura, meno mediata, meno raffinata: non c’è più tempo per le «lente e meditate letture»[8], («la letteratura ha quasi cessato di esistere per l’uomo della strada di Milano o di Londra o di Nuova York»[9]), a maggior ragione per il più fragile, elitario e umanistico dei generi («non parliamo del Poeta, figura che assume oggi caratteri sempre più anacronistici»[10]). Montale entra nel canone proprio nel momento in cui il canone gli appare caduco; i suoi riconoscimenti più importanti coincidono con la stagione del suo scetticismo pubblico nei confronti della cultura, uno scetticismo che si esprime anche al momento della consacrazione definitiva, nel discorso che tiene davanti all’Accademia svedese delle scienze quando riceve il Nobel e che si intitola, emblematicamente, È ancora possibile la poesia? Prima che un tentativo di risposta, Satura è il segno di una crisi: il tipo di poesia che ha permesso a Montale di diventare Montale, il classicismo modernista di stile tragico che troviamo negli Ossi, nelle Occasioni e nella Bufera, sembra diventato impraticabile.
Tre mesi dopo Satura, nell’aprile del 1971, Pasolini pubblica Trasumanar e organizzar. Da tempo ha spostato altrove i suoi interessi creativi: si dedica soprattutto al cinema e alla narrativa, scrive saggi e articoli per i giornali. I suoi testi in versi sono sempre più diaristici, occasionali e sciatti; hanno perso quei segni rituali della poesia (le rime, l’allusione alla misura dell’endecasillabo e della terzina, l’aggettivazione abbondante) che nella fase precedente erano le marche dello suo stile. Rispetto ai film e a Petrolio, sembrano opere minori. In questo senso La mancanza di richiesta di poesia, in Poesia in forma di rosa (1964), va letta come una traccia e una testimonianza: «’Nessuno ti richiede più poesia!’ | […] ‘È passato il tuo tempo di poeta…’. ‘Gli anni cinquanta sono finiti nel mondo’»[11]. Fra Poesia in forma di rosa e Trasumanar e organizzar, Pasolini sostanzialmente non scrive versi. Il libro del 1971 è messo insieme a partire dal 1968, proprio come il grosso di Satura; e anche se contiene alcuni testi straordinari come Versi del testamento, nel complesso è un’opera stanca e tirata via. Pasolini continuava a autorappresentarsi come poeta («il cinema di poesia»), e continuerà a essere chiamato poeta nella più solenne e tragica delle circostanze, cioè nell’orazione che Moravia pronuncia il giorno del funerale, ma di fatto non lo era più. «La prima impressione che si ricava dalla lettura di questi versi», scrive Bandini, «è che il poeta abbia rinunciato all’idea della centralità della poesia»[12]. La stessa cosa si può dire di Montale all’altezza di Satura. Due autori che avevano poetiche molto diverse e che si detestavano apertamente escono dagli anni del miracolo economico con la stessa convinzione implicita: la poesia è un’arte del passato.
Il libro più bello del 1971, Viaggio d’inverno di Bertolucci, esce in maggio, un mese dopo Trasumanar e organizzar. È l’opera di un autore della terza generazione che reagisce allo sconvolgimento del campo letterario generato dalla Neoavanguardia: la stessa cosa vale per Su fondamenti invisibili di Luzi, che esce in autunno. Fra il 1956 e il 1963, fra l’uscita di Laborintus, il primo numero di «il Verri», l’antologia dei Novissimi e il convegno di Palermo, la Neovanguardia spiazza gli autori nati fra l’inizio degli anni Dieci e la prima metà degli anni Venti. Paragonati a ciò che si leggeva nell’antologia dei Novissimi, certi testi di Bertolucci, Caproni, Sereni, Parronchi, Bigongiari, Luzi, Fortini, Zanzotto, Orelli, Pasolini, Cattafi, Erba o Giudici potevano sembrare invecchiati di colpo. Un gruppo di scrittori più giovani stava tagliando fuori la generazione precedente, la stava facendo sembrare anacronistica. L’antologia di Sanguineti, Poesia italiana del Novecento (1969), è un sintomo e un’arma: gli autori della terza e della quarta generazione vengono ridimensionati, quasi annientati («con Luzi, si ha il senso pieno di essere giunti a una stagione terminale, e si volta pagina con assoluta tranquillità»)[13]; le loro opere trattate con sufficienza, come testi epigonali e superati, come «un deprimente tran tran»[14], secondo la formula che Alfredo Giuliani userà nella prefazione a alla ristampa dei Novissimi nel 2003. Ora: la grandezza di molti dei poeti nati fra l’inizio degli anni Dieci e l’inizio degli anni Venti, fra Bertolucci (1911) e Giudici (1924), dipende anche dal modo in cui questi autori seppero reagire a un cambiamento che minacciava distruggere i due fondamenti della loro poetica – l’impianto lirico dei testi e il rapporto dialettico con la tradizione. Il mutamento nasceva sia dalla logica del campo letterario, cioè dall’accelerazione imposta dalla Neoavanguardia, sia soprattutto dalla realtà, dalla metamorfosi di un paese che in venticinque anni aveva vissuto una guerra mondiale, un cambio di regime, una guerra civile, la ricostruzione, il miracolo economico, lo sviluppo di una società capitalistica di massa, la nascita di un’industria culturale moderna, un’unificazione linguistica effettiva e, da ultimo, l’inizio del lungo Sessantotto. La poesia doveva trovare il modo di non sembrare arcaica al cospetto di tutto questo. I libri più importanti di Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi, Fortini, Zanzotto e Giudici sono stati scritti a partire dagli anni Sessanta, e sono molto diversi da quelli scritti prima di quella soglia. Autori partiti da posture tradizionali e da un linguaggio modellato sulla letteratura del primo Novecento riescono ad ampliare il registro, ad adeguare le loro prime persone a un’epoca nuova, ad afferrare la realtà. A volte ne nasce una poesia che va oltre la lirica[15]; nella maggioranza dei casi ne nasce una poesia che adegua la lirica a un tempo potenzialmente ostile all’Erlebnis[16]. Viaggio d’inverno (come IX Ecloghe, Una volta per sempre, Nel magma, Gli strumenti umani, Il congedo del viaggiatore cerimonioso, ma anche La Beltà) è uno di questi grandi tentativi di acclimatare la lirica al nuovo tempo. Si tratta di una soluzione riformistica[17], uguale e contraria alle soluzioni rivoluzionarie della neoavanguardia, ma estranea a ogni conservatorismo o nostalgia. Ha fatto e continua a fare scuola ma è soggetta a crisi, perché richiede una fiducia nella capacità di rendere universale l’esperienza vissuta e un rapporto dialettico con la tradizione, fatto di continuità e di rottura; un rapporto ambivalente, minacciato dalle circostanze e difficile da mantenere, perché più instabile del soggettivismo ingenuo, del conservatorismo puro o della pura distruzione. Dopo Viaggio d’inverno, per esempio, Bertolucci fatica a scrivere poesie liriche: la sua scrittura si sposta decisamente sul romanzo in versi, sulla Camera da letto. Il libro che prosegue idealmente Viaggio d’inverno, Verso le sorgenti del Cinghio (1993), uscirà ventidue anni dopo e sarà epigonale.
Ma un altro libro del 1971 annuncia una nuova stagione letteraria. Oltre a Trasumanar e organizzar e a Viaggio d’inverno, Garzanti pubblica Invettive e licenze di Dario Bellezza. È il primo esordio presso un editore importante di un autore che per anagrafe apparteneva alla generazione del Sessantotto. La poesia di Bellezza poteva assomigliare a quella di Pasolini e di Penna. Era compattamente egocentrica, come quella di Penna, e chiusa in un solo tema (il desiderio personale e il suo risvolto, l’angoscia); aveva la stessa predilezione di Pasolini per certe forme di ornatus (gli aggettivi letterari in posizione epitetica), usate per innalzare un discorso diaristico e trasformarlo in letteratura. Rispetto a Penna, Bellezza non ha un rapporto organico con la tradizione. Rispetto a Pasolini, non possiede né il senso della forma che Pasolini conserva fino a La religione del mio tempo, né la volontà di inserire il personaggio-che-dice-io in una totalità politica, sociale, antropologica. L’intero è uno sfondo, non una presenza reale: a Bellezza non interessano né la tradizione, né la totalità. Per dirla con una formula che pochi anni dopo sarebbe diventata di uso comune presso il movimento femminista, Bellezza parte da se stesso. La sua poesia perlustra il mare della soggettività, come dice il verso più famoso della raccolta. Un’altra poetessa di poco più giovane, Patrizia Cavalli, avrebbe scelto come titolo e divisa di un suo libro una formula analoga, L’io singolare proprio mio.
Il confine inferiore è dunque il 1971. Quello superiore è il 1979. Nel giugno di quell’anno ha luogo la grande scena-madre che funziona come un rito di passaggio, uno psicodramma collettivo e un’allegoria. Il Festival di Castelporziano apparve subito un evento di rottura, come si capisce leggendo la rassegna stampa di quei giorni. Nei quattro anni successivi avrebbe ispirato un documentario[18], un saggio[19] e un testo narrativo[20], e sarebbe rapidamente diventato un topos del dibattito sulla poesia. Ma se il 1971, il 1975 e il 1979 scandiscono i passaggi più significativi del processo, in mezzo cadono altre due cesure. La prima è la pubblicazione di alcune antologie che fanno data: Poesie e realtà ’45-’75 (1977) di Majorino cerca di dare una lettura integralmente politica della poesia italiana del dopoguerra; Poeti italiani del Novecento (1977) di Fortini racconta una storia letteraria alternativa a quella proposta dalla neoavanguardia; La parola innamorata (1978) di Enzo Di Mauro e Giancarlo Pontiggia dà voce e forma alle tendenze neo-orfiche e neoromantiche dei poeti giovani; Poesia degli anni Settanta (1979) di Antonio Porta compendia il decennio. Ma l’antologia più importante di questi anni e di tutto il dopoguerra è Poeti italiani del Novecento (1978) di Pier Vincenzo Mengaldo[21]. Concepita come risposta a Poesia italiana del Novecento di Sanguineti e fortemente voluta dal direttore editoriale della Mondadori, Vittorio Sereni, è un’opera che fissa il canone. Ancora oggi, quarant’anni dopo, l’immagine della poesia italiana del Novecento che si è imposta nella critica universitaria deve moltissimo a Mengaldo, e debbono moltissimo a Mengaldo sia gli autori del classicismo moderno di inizio Novecento sia i poeti della terza e della quarta generazione, cioè quegli scrittori che Sanguineti aveva cercato di cancellare per far posto alla tradizione dalle prime e dalle seconde avanguardie. Ma nel momento stesso in cui fissa il canone, l’antologia di Mengaldo permette anche di misurare una distanza. L’altro confine decisivo di questi anni è l’uscita dei libri che fanno conoscere o che consacrano alcuni degli autori più significativi, a vario titolo, della generazione del Sessantotto: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) di Patrizia Cavalli, Somiglianze (1976) di Milo De Angelis, Il disperso (1976) di Maurizio Cucchi, L’ultimo aprile bianco (1979) di Giuseppe Conte, Ora serrata retinae (1980) di Valerio Magrelli – scrittori molto diversi fra loro, ma che sembrano appartenere a un’atmosfera culturale differente sia da quella raccontata da Mengaldo, sia da quella raccontata da Sanguineti. Sono estranei ai gesti delle avanguardie (o li introiettano in partenza per assimilarli e superarli, come fa Magrelli[22]), e al tempo stesso non sembrano più avere quel senso del passato, quel rapporto organico con la tradizione del Novecento che contraddistingue i poeti nati quarant’anni prima. Sono inoltre estranei ai discorsi che avevano accompagnato la storia della poesia italiana nel secondo dopoguerra, a cominciare da quei dibattiti sui destini del mondo, del linguaggio, della letteratura che nel 1994 Giuseppe Conte si troverà a rimpiangere. «I poeti della mia generazione non erano meno bravi di quelli del Gruppo 63», scrive Berardinelli nella ristampa di Il pubblico della poesia, «ma non si nutrivano di idee»[23].
Il Novecento letterario italiano è un secolo breve: il primo a capirlo è stato proprio Berardinelli in Effetti di deriva. Finisce negli anni Settanta quando la scolarizzazione di massa, la presa di parola, l’età del narcisismo, la crescita della cultura pop e, di lì a poco, la ristrutturazione dell’editoria cambiano i presupposti sociologici che avevano reso possibile la letteratura del ventesimo secolo. Per quanto riguarda la poesia questa transizione si rivela in un acting out incandescente. Il secolo non finisce con un piagnisteo: finisce con l’esplosione di Castelporziano. Benché l’importanza di quei giorni sia stata colta subito, di solito l’evento del Festival viene citato più che compreso. Oggi che abbiamo una trascrizione integrale[24], se ne può parlare da un’altezza nuova. Il discorso sulla condizione sociale della poesia contemporanea non può che cominciare da qui.
3. Come un’allegoria: Castelporziano
Quello che accadde in quei giorni nasce da molte cause, alcune politiche, altre letterarie. Il festival era stato organizzato dai tre animatori del Beat 72, Ulisse Benedetti, Simone Carella, Franco Cordelli, e sostenuto dall’assessore alla cultura del Comune di Roma, Renato Nicolini[25]. Lo spirito del Settantasette era ancora vivo e aleggiava nei comportamenti del pubblico, nel modo di intendere la partecipazione, nell’atmosfera dissacrante e assembleare. Negli anni Settanta si era diffusa la pratica delle letture pubbliche di poesia: il Beat 72, a Roma, ne aveva organizzate molte. Erano il segno di un mutamento culturale: davano espressione alla scoperta del corpo, all’autoesibizione come segno di autenticità, all’autoespressione come diritto primario:
Accanto ai temi del teatro e della musica che erano gli assi portanti dell’attività del Beat a partire dal 70/72, un altro filone che era quello della poesia, anche quello legato strettamente all’avanguardia del Gruppo 63, perché, tra l’altro, quello che succedeva in teatro era successo in poesia molto prima, appunto nel ’63; quindi cominciammo ad affrontare il discorso sulla poesia, ma la poesia come? I poeti soprattutto. Io metto sempre l’accento sul fatto che nella poesia la cosa più importante sono i poeti, sono le persone, come nel teatro è il corpo dell’attore, l’oggetto-corpo, il soggetto-corpo, anche nella poesia, io sempre cercato di estrarre da questo oggetto letterario, da questo genere letterario, il suo senso, che secondo me risiedeva nei poeti, i poeti sono i detentori della parola. S’è venuta sviluppando, in quegli anni lì, tutta la tematica intorno al corpo, nel teatro si cominciava a discutere di gesto, immagine e parola, e quindi chi poteva essere l’inventore, il nuovo autore della parola teatrale, della parola drammatica? Senz’altro poteva essere il poeta, ma inteso come figura di «manipolatore di parole». Uno dei sensi dell’avanguardia è quello di stare sempre al passo con i tempi, non solo di anticiparli, ma di avere le orecchie ben aperte per sentire quello che succede[26].
A creare lo psicodramma contribuisce la voce che al Festival sarebbe stata presente Patti Smith. Il 1979 è l’anno della sua maggior fortuna in Italia: a settembre le piazze e gli stadi di Bologna e di Firenze si riempiranno per lei. Molti arrivano a Castelporziano perché credono che ci sia anche Patti Smith. Non trovarla li delude e li indispone[27].
Fin dall’inizio il pubblico del Festival distrugge le gerarchie. Un’organizzatrice annuncia il nome di uno dei primi poeti, Fabio Garriba; una voce dal pubblico le risponde “Non è vero, è Ugo La Malfa!”; subito dopo parte il primo dei cori “scemo, scemo” che scandiranno la serata[28]. Il pubblico reclama la parola; gli organizzatori assicurano che ci sarà un momento in cui il microfono girerà fra tutti, ma fra il terzo e il quarto poeta ufficiale, fra Milo De Angelis e Aldo Piromalli, una ragazza adolescente che parla un italiano dialettale con l’accento strascicato dei freak sale sul palco e prende la parola. Non è prevista dal programma. Gli organizzatori cercano di fermarla, ma lei rivendica il diritto di esprimersi e la folla la appoggia. La ragazza vuole dimostrare due cose: che una lettura di poesia è uno spazio nel quale vige un’orizzontalità assoluta e che i poeti ufficiali non hanno alcuna delega, alcun mandato. A un certo momento arriva a formulare questa idea in forma di concetto: chiede chi sia il giudice supremo, chi prenda la decisione di lasciar parlare alcuni e di negare il microfono agli altri[29]. In realtà nei giorni del Festival emerge una linea divisoria che Dario Bellezza coglie non appena sale sul palco e viene accolto dal coro “nudo, nudo”:
Non rispettate la poesia, e avete anche il culto della personalità, perché scommetto che se qui ci fosse un altro poeta, per esempio Allen Ginsberg, voi sareste stati zitti in religioso silenzio, dunque siete delle persone volgarissime e immonde. Siete degli stronzi fascisti[30].
Il finale del discorso è un topos, ma quello che lo precede è un’osservazione intelligente: le poche star entrate nel circuito dei media vengono ascoltate con indulgenza, gli altri poeti vengono rigettati nella massa, secondo la stessa logica leaderistica, inconsciamente e ferocemente maggioritaria, che governava (che governa) le assemblee. Bellezza è anche il primo dei poeti ufficiali a sfidare il pubblico per rivendicare una separatezza. Quando sale sul palco viene accolto con qualche applauso, qualche fischio, qualche coro ma soprattutto con indifferenza e ironia. Mentre sta leggendo, un tizio sale sul palco e si denuda fra gli applausi. Bellezza si atteggia come se si considerasse importante: per il pubblico è uno qualsiasi. Pensa di ingraziarsi la folla ostentando la propria fragilità e chiedendo attenzione («i poeti vanno incoraggiati, vanno applauditi anche se non vi piacciono le loro poesie. Dovete applaudire»), ma il pubblico è ostile o perplesso. A quel punto Bellezza lo sfida («e allora fischiate!») e viene preso in parola: partono fischi pesanti, si alza il coro «scemo, scemo».
Il secondo giorno entropia e dissacrazione dilagano: il microfono viene preso da poeti non iscritti a parlare; a un certo punto qualcuno prepara un minestrone collettivo che si prende il centro della scena e eclissa le letture. Alla fine della giornata viene letto un documento del gruppo Guida Poetica Italiana, che figura tra i promotori del festival. Si dice che è stato giusto chiamare i poeti stranieri, perché questa era l’occasione per smitizzarli, mentre «i poeti [italiani] annunciati ufficialmente, tranne due o tre, non rappresentano nessuno e questa occasione è stata un’ottima occasione per ricordarglielo»[31]. Poco prima un ragazzo era salito sul palco e si era preso il microfono per dire che il minestrone era pronto, ma poi aveva voluto esprimersi, come tutti («oh, visto che ci ho in mano il microfono voglio dire alcune cose»), ed era stato molto più icastico:
Io son venuto qua perché c’era Patti Smith e non l’ho trovata, e vengo qua e trovo i poeti che mi dicono le poesie. Ma io della poesia non me ne f… Andate affanculo tutti, mi avete rotto il cazzo. Smettela, finitela, stronzi! Non capite un cazzo voi.
Il terzo giorno è il più tranquillo: Allen Ginsberg conduce la serata come un presentatore, placa la folla con la propria autorità, secondo la logica che Bellezza aveva esposto due giorni prima e che assicura una forma di ordine. Le letture procedono in modo relativamente calmo, interrotte solo da documenti politici collettivi. Molti lamentano che gli organizzatori non abbiano previsto «la nostra esigenza di esprimerci ciascuno in questo nostro incontro come e secondo la nostra esigenza di esseri umani»[32]:
Ci teniamo a dire a tutti ad alta voce che i veri momenti creativi più veramente genuini e di ricerca della vera poesia nelle due sere trascorse qui sono stati rappresentati dagli interventi della ragazza napoletana diciassettenne, piccola, bruttina, indosso uno slip e una maglietta bianca, gli occhi fissi e strafatta, che dice: tengo le vibrazioni e devo comunicare le mie vibrazioni! […] La seconda sera, la partecipazione più veramente genuina e collettiva alla poesia si è avuta con l’occupazione del palcoscenico da parte di tutti con il minestrone… atto simbolico… di denuncia… delle contraddizioni più vistose![33].
L’episodio più citato fra quelli accaduti nei giorni del Festival, quello che diventa una facile allegoria, è il crollo del palco. Fin dal primo giorno il pubblico comincia a salirci sopra; gli organizzatori si accorgono subito che non può reggere e più volte invitano il pubblico a scendere, ma ciò non accade – finché la struttura, alla fine, non si accascia placidamente sulla sabbia.
4. La crisi del ruolo
Come una specie di grande scena primaria che avviene in un’unità di luogo, di tempo e di azione, i tre giorni di Castelporziano definiscono il profilo sociologico della poesia contemporanea con una forza sintomatica e anticipatoria che si riverbera sui decenni successivi. Se la si scompone, si ricavano i tratti fondamentali del campo letterario di cui stiamo parlando. Che cosa si rivela a Castelporziano?
Quattro anni prima, nel brano più famoso di Effetti di deriva, Berardinelli rifletteva sulla crisi della poesia considerata come sistema:
Ciò che comunque e irreparabilmente è venuta meno è l’unitarietà di prospettiva: l’omogenea e largamente prevedibile tabella di marcia col conforto della quale gruppi e tendenze si sono fino agli anni Sessanta succeduti e combattuti. Il campo letterario è cioè ormai disgregato. Sta progressivamente venendo meno quella particolare forma di coscienza storica che specificatamente lo strutturava. Gli autori non hanno più sotto i propri piedi un terreno relativamente compatto, per quanto accidentato e qua e là franoso, su cui sfidarsi, combattersi, discutere a partire da qualcosa e in vista di qualcosa. Dare conto più esattamente dell’estensione e della profondità di questo fenomeno di sgretolamento di una tradizione, di un campo e di un ruolo (anche solo ideologico) vorrebbe dire disporre di una serie cospicua di analisi, ancora in massima parte da compiere, sul complesso di dissoluzioni-ristrutturazioni che hanno negli ultimi anni investito da noi l’intera sfera sovrastrutturale[34].
Il più vistoso di questi tre sgretolamenti è quello del ruolo. Si tratta di una crisi esterna e interna. Esternamente la poesia perde importanza nell’economia generale della comunicazione. Uno dei fenomeni culturali più importanti della seconda metà del Novecento è la nascita della cultura pop, cioè di una nuova cultura umanistica, un sistema di autori, opere, canoni e generi nato dalla comunicazione di massa (cinema commerciale, televisione, fumetti, musica rock, giornali, moda, pubblicità, e poi internet, videogiochi, flusso mediatico diffuso) che sovrappone alla cultura umanistica tradizionale generando conflitti e mescolanze. La cultura pop possiede una forma d’arte che, sotto molti aspetti, assorbe e svuota il ruolo della poesia. A partire dalla fine degli anni Sessanta la musica rock si appropria della funzione lirica[35]. Una parte del pubblico del Festival era venuto a Castelporziano per vedere Patti Smith; un’altra parte era venuta per ascoltare delle figure ibride come i poeti beat americani.
Ma se la crisi esterna è l’aspetto più visibile, la crisi interna è altrettanto significativa. Le arti moderne funzionano secondo lo stesso meccanismo triangolare che, secondo Weber, regola il funzionamento delle religioni: come la parola dei profeti viene interpretata dai sacerdoti e giunge ai fedeli, così le opere degli autori vengono mediate dalle istituzioni dell’arte (critica, scuole, musei, editoria, apparati distributivi) e giungono al pubblico[36]. A metà degli anni Settanta diventa chiaro che il campo della poesia non è più fatto in questo modo. Il triangolo è diventato una linea, un sistema dentro il quale vige una logica orizzontale. Per un verso, gli autori e il pubblico sono le stesse persone: i lettori o ascoltatori sono a propria volta aspiranti poeti; gli spettatori di Castelporziano sentono di avere il diritto di salire sul palco. In poesia la distanza che il lettore o l’ascoltatore percepisce fra sé e l’autore diventa minima o nulla. Nella musica rock invece è massima: «nella storia dell’umanità non c’è stato nulla, dopo la divinizzazione dei faraoni nell’antico Egitto, di paragonabile al culto che la gioventù europea e americana dedica alle rockstar»[37]. Per un altro verso, le mediazioni si sono indebolite: i giudizi della critica (o, nel caso di Castelporziano, le scelte degli organizzatori) contano poco o nulla; il filtro dei corpi intermedi sta venendo meno. Il pubblico della poesia si è allargato, si è fatto eterogeneo e ha assunto un atteggiamento nuovo: alla poesia non chiede più comprensione intellettuale, significati e dibattito; chiede soprattutto autoespressione, immedesimazione e spettacolo. Stanno nascendo nuove figure di poeta e nuovi circuiti di divulgazione delle opere.
È stato Benjamin a fissare l’evento che definisce la condizione oggettiva del poeta moderno nelle prime pagine del suo saggio su Baudelaire: I fiori del male sono stati uno degli ultimi libri importanti di poesia ad aver avuto un successo di pubblico, mentre nella seconda metà dell’Ottocento la borghesia avrebbe progressivamente tolto il mandato sociale ai poeti[38]. ‘Mandato sociale’ è una formula che rimanda alla teoria leninista delle avanguardie esterne, all’idea che un gruppo separato di intellettuali possa rappresentare una classe se, e solo se, è investito di un’autorità. Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la poesia, anticipando il destino della letteratura d’essai e della cultura umanistica in generale, perde questa autorità. In Italia i primi scrittori a registrare il nuovo stato di cose sono i poeti della generazione nata negli anni Ottanta dell’Ottocento, la prima autenticamente moderna, come Palazzeschi («Infine io ò pienamente ragione, | i tempi sono molto cambiati, | gli uomini non dimandano | più nulla dai poeti, | e lasciatemi divertire»)[39] e Gozzano («io mi vergogno, | sì, mi vergogno di essere un poeta»)[40]. Ma proprio quando Palazzeschi e Gozzano pubblicano i loro versi, il tasso di analfabetismo registrato dal censimento del 1911 tocca il 46%. Un documento statistico pubblicato sulla «Nuova Antologia» nello stesso anno calcola che circa un terzo degli alfabetizzati sia in realtà semianalfabeta[41]. In un contesto simile, chi è in grado di scrivere e pubblicare un libro conserva un prestigio sociale indubitabile e la perdita di mandato presso il pubblico che legge non scalfisce il suo oggettivo privilegio: quella di primo Novecento è ancora una società dei notabili. E lo è anche quella in cui si sviluppano i dibattiti letterari del secondo dopoguerra: nel 1961 (cioè nel centenario dell’unità di Italia che causalmente è anche l’anno in cui esce l’antologia dei Novissimi) solo il 25% circa degli uomini il 15% delle donne accedeva all’istruzione superiore dopo le medie. Nel 1975 si era intorno al 55% e al 45%; nel primo decennio del ventunesimo secolo la percentuale per entrambi i sessi oltrepassa il 90%[42]. Questo significa che la poesia italiana moderna ha conosciuto due perdite del mandato sociale: quella di inizio Novecento e quella che comincia a emergere proprio nel corso degli anni Settanta. La seconda ha conseguenze molto più profonde dalla prima, nasce una dalla più grandi conquiste democratiche del secondo Novecento, cioè dalla scolarizzazione di massa, e sta ancora avendo luogo. Insieme alla crescita verticale degli accessi alle scuole secondarie superiori e all’università cresce il numero di coloro che hanno accesso al campo sociale della poesia. Fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta una parte consistente di questo nuovo pubblico potenziale si riversa nella politica; poi, nel corso degli anni Settanta, ripiega sul privato e si dedica all’espressione di sé. La fortuna editoriale della poesia a metà degli anni Settanta è anche un effetto di ciò che all’epoca veniva chiamato riflusso[43]. In questa fase chi scrive poesia non può più contare sul prestigio che gli proviene dal possesso della scrittura (ormai quasi tutti sanno leggere e scrivere), né dalla pratica di un genere che viene percepito come alla portata di tutti. È la forma artistica cui sembra più facile accedere, quella apparentemente più semplice da praticare, quella cui molti dei coloro che si interessano anche vagamente alla cultura si sono dedicati una volta nella vita. Questo fa sì che la distanza oggettiva fra autori e pubblico si annulli. Allo stesso modo si annulla la distanza soggettiva: il pubblico della poesia ha un atteggiamento paritario nei confronti degli autori; è composto da potenziali aspiranti poeti, non da lettori o ascoltatori; il dispositivo verticale e gerarchico che faceva funzionare le arti moderne salta e viene sostituito un dispositivo orizzontale e democratico. Se il mandato sociale si basa su una forma di delega simile a quella che vige nella rappresentanza politica, a partire da metà degli anni Settanta la delega viene ritirata e viene sostituita da un meccanismo che assomiglia a quello delle situazioni assembleari e poi dei social network: una massa nebulosa di prese di parola individuali, che si rappresentano come tendenzialmente paritarie, sovrastata da poche star riconosciute. Castelporziano dice questo. La storia dei decenni successivi accentuerà un simile stato di cose.
5. Il campo disgregato
La crisi del ruolo si accompagna alla crisi del campo e della tradizione. Per le abitudini della critica italiana, l’antologia come genere avrebbe dovuto produrre una storia o una mappa. Quelle di Sanguineti, Fortini e Mengaldo, per esempio, mantengono ancora l’impianto genealogico o topografico che discende dalla tradizione storicistica: pensano in termini di linee, correnti, tendenze, famiglie. Berardinelli dichiara in partenza che questo schema non si applica ai poeti della sua generazione: la poesia contemporanea è diventata anarchica e segue la logica del ‘tutto può andar bene’:
Tutta una serie di varianti poetiche della nostra storia letteraria recente tornano dunque simultaneamente: in apparenza senza contraddirsi, comunque senza volersi escludere a vicenda in linea di principio[44].
Pochi anni dopo Fortini e Mengaldo pubblicano gli ultimi due tentativi autorevoli di costruire una storia e una mappa della poesia del Novecento; da quel momento in poi sarebbe diventato sempre più difficile proporre letture unitarie. Nei trent’anni successivi abbondano i tentativi parziali, tendenziosi e idiosincratici, gli «elenchi telefonici», secondo una formula di Sanguineti, o i «cataloghi delle letture preferite»[45], mentre i tentativi di mappa o di storia complessiva non si guadagnano l’autorevolezza che si era guadagnata la ricostruzione di Mengaldo[46] – fino a quando, nel 2005, i curatori della più vasta antologia di poesia contemporanea oggi disponibile trovano in Blanchot la formula metaforica che definisce il modo in cui il genere appare oggi: parola plurale[47]. Ma che cosa significa pluralità?
Se la molteplicità conflittuale è la legge interna di ogni sistema, nei domini simbolici le forze si dispongono a comporre un campo. Nel 1975 ‘campo’ era una di quelle parole che giravano nell’aria e davano forma a un’atmosfera culturale. Bourdieu stava elaborando il suo concetto di campo, quello che avrebbe trovato l’applicazione più persuasiva in uno dei capolavori della sociologia di secondo Novecento, La distinzione (1979). «C’è campo quando c’è effetto di campo», scrive Bourdieu: un fenomeno sociale forma un campo quando le parti che lo compongono non si possono pensare separatamente, ovvero quando gli attori del sistema si trovano legati da relazioni oggettive che penetrano nelle loro coscienze e prima ancora nel loro inconscio[48]. È indubitabile che, fino agli anni Settanta, la poesia italiana formasse un campo: il numero relativamente ristretto dei partecipanti, il numero relativamente ridotto dei luoghi in cui si pubblicava e si recensiva rendevano possibile, anzi necessario pensarsi in rapporto a una rete mobile di posizioni. Oltre all’elemento demografico, ciò che faceva della poesia un campo era la battaglia delle poetiche. Fra il 1945 e gli anni Settanta questo conflitto era stato condotto quasi sempre in nome della politica. L’atteggiamento che Brecht aveva fissato mirabilmente in La letteratura sarà esaminata ha dato forma al gesto tipico delle discussioni letterarie di quell’epoca. È talmente inscritto nell’habitus dell’epoca da transitare nei testi: Montale in Piccolo testamento («Ognuno riconosce i suoi»)[49], Pasolini in molti dei suoi testi, Luzi in Presso il Bisenzio («Tu? Non sei dei nostri. | Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta»)[50], Fortini in Traducendo Brecht («Fra quello dei nemici | scrivi anche il tuo nome […]. | La poesia | non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi»)[51], Sereni in Un sogno («Hai tu fatto – | ringhiava – la tua scelta ideologica?») [52] e Un posto di vacanza, Sanguineti in Purgatorio de l’Inferno («perché |vivi, tu? e dicevano: come ti giustifichi? |dicevano: ma ti giustifichi, tu?»)[53] cercano di legittimare la propria posizione e il privilegio di scrivere poesie al cospetto delle differenze di classe, dei conflitti cosmico-storici, della politica e della storia. È un gesto che oggi cogliamo bene anche perché ci suona anacronistico. Uno dei primi a dirlo chiaramente fu Fortini all’inizio degli anni Novanta, nella prefazione a Attraverso Pasolini, come abbiamo visto[54]. L’obbligo di rendere conto al cospetto della politica e dunque della verità rendeva necessario pensare le proprie scelte letterarie in relazione alle altre scelte possibili, nella convinzione che esistesse uno e un solo modo corretto, politicamente giusto, di scrivere poesia. «Aveva torto e non avevo ragione», recita l’incipit di Attraverso Pasolini[55]: le discussioni letterarie di quest’epoca si fondano sull’idea che non esista una differenza incommensurabile di gusti, due idiosincrasie o due mondi entrambi legittimi e parziali, ma un torto e una ragione. E prima ancora che cominciasse l’epoca della politicizzazione della letteratura, l’effetto di campo era generato dallo storicismo normativo implicito nell’estetica moderna, cioè dall’idea che l’arte giusta sia quella che rimane all’altezza dei tempi e si muove insieme allo Zeitgeist. È una logica che vige da quando crolla l’apparato atemporale del classicismo premoderno e che si mostra in modo esplicito a metà dell’Ottocento, fra gli scritti sull’arte di Baudelaire e gli scritti di poetica di Rimbaud. Le prime avanguardie e l’ala radicale del modernismo la trasformano in programma: quando Marinetti rivendica il disinteresse per l’arte del passato[56] o quando Pound sostiene che non si può scrivere con uno stile vecchio di vent’anni[57], il culto estetico della novità trova il suo compimento rigoroso. Negli anni di cui stiamo parlando, la sua riscrittura più radicale si trova nell’Introduzione di Alfredo Giuliani ai Novissimi: la poesia non può essere vera se non è contemporanea; compito della critica è distinguere fra ciò che si mostra all’altezza dei tempi, per usare la metafora su cui si fonda ogni storicismo, e ciò che resta al di sotto di questa altezza[58]; non può esistere una coesistenza pacifica di forme differenti. È ancora scontato per Giuliani che la letteratura si comporti oggettivamente come un campo.
La generazione del Sessantotto sembra invece appartenere a una storia diversa: famiglie poetiche differenti convivono senza contraddirsi; si ha l’impressione che tutto possa andar bene, perché non c’è alcun imperativo etico-politico che trascenda il desiderio individuale di essere come si è e di esprimersi come si è. Nella prefazione del 2004 Berardinelli riscrive le idee del 1975 con altra consapevolezza teorica:
L’idea centrale era questa: non è vero che in ogni situazione storica esista una e una sola tendenza giusta in letteratura, come avevano creduto in fondo sia gli engagés sia gli avanguardisti[59].
È lo stato di cose che Arthur Danto descrive in Dopo la fine dell’arte: sparisce la freccia del tempo, viene meno l’idea che alcune maniere siano autenticamente contemporanee, mentre altre sono arretrate, fuori dalla cinta della storia, vecchie[60]. Si dissolve l’idea moderna di un’arte che insegue con rigore la novità, e a maggior ragione di un’arte che prepara o accompagna la rivoluzione[61]; al suo posto si instaura una molteplicità orizzontale e senza sbocco. A partire dagli anni Settanta la poesia italiana ha progressivamente perduto il legame con gli imperativi etici ed estetici che unificavano la discussione sulla letteratura e la percezione dei testi nei decenni precedenti. Sono scomparsi o tendono a scomparire i negoziati fra ministri degli esteri di Stati avversari, la coesistenza diventa pacifica, non si sente più il bisogno di discutere, si accetta l’eterogeneità senza guerreggiare. Restano sacche di conflittualità avanguardistica (il Gruppo 93, GAMMM, alcune autrici e alcuni autori isolati), ma la nuova legge del sistema è il cuius regio eius religio, la compresenza di nicchie relativamente chiuse e indifferenti. Perché questo passaggio?
La ragione cui finora abbiamo accennato è intellettuale: vengono meno gli imperativi che avevano tenuto insieme il campo rimandando a delle verità che dovevano valere per tutti, e in particolare l’obbligo di giustificare la propria scrittura al cospetto della politica o della storia. La forma del dibattito letterario è profondamente cambiata: se le discussioni degli anni Cinquanta e Sessanta avevano per lo più forme rigide e strutturate (potremmo dire ‘di Stato’ volendo riusare la metafora di Giuseppe Conte), a partire dagli anni Ottanta le discussioni diventano fluide, mobili e aggrovigliate; la fedeltà a un’idea, le amicizie personali, le solidarietà di cordata si sovrappongono, si mescolano e formano insiemi contorti[62]. Continuano a sussistere dei momenti di dibattito costruiti attorno a categorie rigide e imparentate con la tradizione delle avanguardie, come il convegno di Lecce del 1987, i testi di poetica che accompagnano il Gruppo 93 o GAMMM, o l’introduzione di Ostuni all’antologia Poeti italiani degli anni Zero (2010); ma la tendenza prevalente è quella a non discutere, a rimanere nella propria bolla, a non aggredire l’avversario, sia perché le cordate che si confrontano hanno sempre meno elementi comuni per dialogare o anche solo per scontrarsi a parole, sia perché sembra venuto meno l’obbligo di discutere. La letteratura non viene esaminata, non deve rendere conto: è giustificata a priori dalla logica del nostro tempo, per il quale l’autoespressione è un’attività pacifica, un diritto. Non è ovvio che debba tendere a qualcosa se non all’esibizione dell’io al cospetto degli altri, al puro riconoscimento personale. Ma al di sotto e intorno a questa ragione teorica ce n’è una pratica e sociale: il campo si disgrega perché si allarga, perché aumenta la quantità e l’eterogeneità dei partecipanti.
6. Sociologia della poesia contemporanea
Negli ultimi quattro decenni i tratti di fondo della poesia contemporanea considerata come sistema sono rimasti quelli che si rivelano fra il 1971 e il 1979. I mutamenti che hanno avuto luogo in questo tempo hanno rafforzato i processi emersi negli anni Settanta. Le trasformazioni più importanti sono legate alla crisi dell’editoria, alla diffusione progressiva delle letture pubbliche, al rapporto con la musica rock e alla nascita di internet.
La ristrutturazione editoriale che ha luogo a partire dagli anni Ottanta e la crisi delle collane storiche che ha luogo a partire dagli anni Novanta tolgono prestigio e autorevolezza alla sede di pubblicazione di un libro. Oggi il nome dell’editore e della collana conta molto meno di quarant’anni fa. Se fra il 1971 e il 1980 l’uscita presso Garzanti, Einaudi, Guanda, Mondadori o Feltrinelli di due ventisettenni (Bellezza, Cavalli), di un venticinquenne (De Angelis), di un trentunenne (Cucchi) o di un ventitreenne (Magrelli) dava a questi autori un consistente vantaggio competitivo sui coetanei in termini di visibilità e di credito, oggi non è più così. Negli anni Zero e Dieci del XXI secolo Temporelli, Dapunt, Rondoni o Pellegatta (l’età media delle prime pubblicazioni importanti si è alzata per tutti) non hanno tratto lo stesso tipo di vantaggio dall’uscita nella Bianca Einaudi o nello Specchio: qualunque cosa si pensi della loro opera, chi conosce la poesia contemporanea sa che di loro si parla poco. Il campo editoriale è diventato sempre più anarchico e disperso. Anche i circuiti di distribuzione sono cambiati: i volumi che finiscono davvero in libreria sono pochi; pochissime le librerie che ospitano la poesia strettamente contemporanea, e non soltanto i classici o la poesia del repertorio midcult (Gibran, Hikmet, Merini); la compravendita dei libri passa per lo più dal circuito on line, e in generale non viene comprata e venduta: viene distribuita a mano dall’autore all’interno di un circuito fatto di altri autori e di critici specializzati. In questo senso le letture pubbliche, i reading, hanno assunto un ruolo di supplenza. Chi le frequenta sa che sempre più spesso gli autori vengono conosciuti e giudicati sulla base della sola lettura pubblica, come se l’originale fosse il reading e non il testo stampato sulla carta, spesso difficile da trovare, col quale la lettura a alta voce intrattiene un rapporto mediato. E se è vero che alcuni poeti hanno spostato il baricentro della loro opera verso l’oralità e trattano la performance come se fosse il testo vero, il 95% della poesia italiana contemporanea continua a nascere sotto forma di parola scritta. Nella maggior parte dei casi il reading è un derivato, una trasposizione, come il film ricavato da un romanzo.
Anche la concorrenza simbolica della musica rock è cresciuta. Ciò che un tempo suonava come una provocazione oggi viene ripetuto in forme iperboliche («De André […], questo artista meraviglioso, che continuo a considerare il più grande poeta italiano degli ultimi cento anni»)[63], mentre capita sempre più spesso che i manuali di letteratura per le scuole secondarie superiori affianchino i cantautori ai poeti. Del resto le generazioni nate a partire dagli anni Quaranta sono culturalmente bilingui: si sono formate sulla cultura umanistica tradizionale e, insieme, sulla cultura pop; anzi, nel corso della vita la cultura pop precede la cultura tradizionale, perché quasi sempre coloro che non provengono da famiglie di intellettuali assorbono la prima con anni di anticipo rispetto alla seconda. Ma l’evento che segna il passaggio più importante nei rapporti simbolici fra poesia e musica rock è il Nobel per la letteratura attribuito nel 2016 a Bob Dylan. Non sempre il flusso di discorsi che l’hanno accompagnato si è soffermato sull’essenziale. Non è interessante discutere sul carattere di arte della musica rock (molto difficile sostenere il contrario nel 2017), mentre è interessante riflettere sul significato sociologico di un riconoscimento simile. Il punto essenziale mi sembra questo: mentre di solito il premio Nobel per la letteratura premia autori conosciuti in nicchie minime (Müller o Tranströmer, per rimanere ad alcuni vincitori degli ultimi dieci anni) o in nicchie di media grandezza (Mo Yan, Munro, Ishiguro), tutti, o quasi, conoscono il nome di Bob Dylan. La scolarizzazione di massa e l’aumento del numero di persone che accedono al consumo di cultura si accompagna alla crescita di una produzione masscult e midcult. Nell’evoluzione del romanzo e delle arti figurative, la nascita di sfere sociologiche relativamente separate ha una storia di lunga durata e assume una forma molto precisa nella seconda metà dell’Ottocento, quando le opere destinate al mercato e le opere destinate al pubblico d’avanguardia finiscono in segmenti opposti e conflittuali del campo letterario[64]. Ma se il romanzo, cioè il genere letterario più popolare e più venduto, sviluppa una filiera masscult e midcult pervasiva e riconoscibile, la poesia non ha séguito presso il pubblico largo e diventa un’arte di nicchia tendenzialmente highbrow. Pur avendo una diffusione più ampia dei testi considerati canonici, gli esempi di poesia lowbrow e middlebrow sono complessivamente pochi e non producono effetti paragonabili a quelli dei loro corrispettivi nel genere del romanzo. In questo senso, i testi della musica pop e rock coprono un vuoto nel sistema letterario: sono l’equivalente del masscult e del midcult in poesia. Considerati come semplici testi, le opere di Dylan rappresentano questo; e anche se li si considera integralmente, la loro posizione nel sistema della cultura non muta.
Ma il cambiamento più importante che la poesia ha conosciuto negli ultimi vent’anni è legato alla nascita di internet. La rete ha modificato profondamente il modo di rendere pubbliche e le opere e di discuterne. Lo ha fatto in due momenti – con la nascita dei siti letterari e con la nascita dei social network. I siti emergono sulla scena pubblica fra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Zero: l’evento decisivo è la comparsa, nel marzo del 2003, di «Nazione Indiana», che, fino alla fine degli anni Zero, è stato il sito più letto e a suo modo il più autorevole[65]. La stagione eroica dei primi siti culturali introduce nel dibattito stili e pratiche che nell’età dell’oro dell’engagement letterario, fra il dopoguerra e gli anni Settanta, sarebbero stati inconcepibili. La seconda ondata, quella cui appartengono «Minimamoralia» (nato nel giugno del 2009), «Doppiozero» (febbraio 2011) e «Le parole e le cose» (settembre 2011), avrebbe in parte disciplinato il flusso che «Nazione Indiana» mostrava in purezza, come se l’orizzontalità assoluta che a Castelporziano si era rivelata a parole avesse preso forma scritta. Molte cose colpivano nei dibattiti on line degli anni Zero. Innanzitutto la mancanza di maniere: accadeva spesso che gli scrittori e i critici si delegittimassero, si insultassero e si trollassero reciprocamente; tutti si davano del tu a prescindere; la discussione procedeva per microconflitti e microaccordi, per fraintendimenti sistematici, per equivoci – scrittori conosciuti discutevano con perfetti sconosciuti, magari eteronimi, e ne uscivano distrutti; persone che avevano una firma si scontravano con personaggi dal nickname idiota che potevano tranquillamente avere sedici anni, e a volte li avevano davvero; le amicizie e inimicizie si formavano e si rompevano in modo fluido e spregiudicato; le affinità letterarie e politiche sembravano contare tanto quanto gli interessi, le convenienze, i legami personali. La dépense era estrema: alcuni dibattiti duravano per giorni, come se gli interlocutori non avessero nulla da fare nella vita. Qualche anno dopo i social network avrebbero normalizzato questo sentimento del tempo, ma all’epoca un simile modo di fare e di sprecarsi era nuovo, era d’avanguardia. È probabile che in nessun’altra epoca della storia culturale di questo paese si siano lette così tante cazzate tutte insieme. Cazzate è un termine tecnico: rimanda alla riflessione di Harry Frankfurt sulla logica della discussione culturale contemporanea, che è destinata a moltiplicare le idee approssimative, i concetti generali rozzi, in un’epoca nella quale la divisione del lavoro, la complessità e l’aumento delle conoscenze specialistiche rendono impossibile cogliere ragionevolmente il senso dell’intero[66]. Nel caso dei primi siti internet, e in particolare di «Nazione Indiana», il tasso di cazzate era mantenuto alto dal fatto che la rete ha dato voce a quella presa di parola generalizzata che è uno dei lasciti permanenti del Sessantotto perché, contrariamente alle ipotesi rivoluzionarie uscite sconfitte nel corso degli anni Settanta, appartiene per intero alla logica dell’individualismo liberale, e in qualche modo la adempie[67]. Sui siti culturali si poteva e si può discutere di Proust, di idealismo tedesco o di Wallace Stevens con chi non ha mai letto Proust, gli idealisti tedeschi o Wallace Stevens, e tuttavia pretende di avere un’opinione: poche cose come internet hanno dato così eloquentemente ragione alle diagnosi di Lasch sul narcisismo come atmosfera psicologica del nostro tempo. Ma tutto questo aveva una sua necessità epocale e una sua barbarica vitalità: era un’illustrazione in vivo dell’utilità e del danno della storia per la vita. Grazie alla propria orizzontalità, la rete ha rivelato la creatività diffusa che intreccia all’approssimazione diffusa formando un insieme indistricabile, ha fatto conoscere alcuni outsider intelligentissimi, ha contribuito a mostrare la debolezza delle gerarchie ufficiali nell’epoca in cui il campo diventava troppo grande perché si potesse anche solo pensare a un canone condiviso.
7. Poesia e verità
Quale valore può avere una forma d’arte così malmessa? La risposta a questa domanda trascende la poesia e coinvolge il modo di intendere il rapporto fra arte e società, fra cultura e democrazia e fra verità e doxa. Se si pensa in termini di efficacia, soltanto la cultura pop ha un seguito di massa, come sanno bene i partiti politici, che negli ultimi decenni hanno estromesso gli intellettuali tradizionali dal novero degli interlocutori, sostituendoli con coloro che esercitano la funzione intellettuale sui mezzi di comunicazione di massa. La cultura highbrow continua ad avere un’efficacia solo perché ha ancora un ruolo centrale nel canone scolastico, perché il corpo docente delle scuole secondarie si è formato sulle materie umanistiche e perché queste ultime conservano, per inerzia, una forma di prestigio. Non si sa quanto uno stato di cose simile durerà, né come si ibriderà con la cultura pop. Fra quest’ultima e la cultura highbrow si è già da tempo formato un territorio intermedio molto vasto che il romanzo può occupare, almeno in teoria, e dal quale la poesia sembra esclusa. La ragione è semplice: se il romanzo cerca ancora di costruire un mondo condiviso appoggiandosi ai dispositivi elementari e oggettivi della trama e del personaggio, la poesia moderna è il più egocentrico dei generi. Nella maggioranza dei casi continua ad avere una forma lirica, raccoglie testi nei quali un io che coincide con la persona che mette la firma sulla copertina del libro racconta frammenti di esperienza soggettiva in uno stile che vorrebbe essere soggettivo, cioè distante dal grado zero della comunicazione ordinaria. Ma nei testi che non hanno forma lirica (nelle poesie dall’andamento narrativo, saggistico o teatrale, per esempio, oppure in ciò che viene chiamato post-poesia) l’egocentrismo è altrettanto pronunciato, perché si trasferisce nello sguardo e nello stile, e prende la forma dello straniamento. Questo rapporto organico con la soggettività come contenuto e come forma dell’esperienza fa della poesia l’arte più praticata, il primo medium dell’espressivismo dilettantesco e della creatività generica[68]. Nella percezione comune si può scrivere poesia senza leggere poesia, senza seguire la poesia contemporanea, e senza possedere alcuna tecnica. Gli altri ci interessano soprattutto in quanto specchi, likers, casse armoniche della nostra storia: quando è il loro turno di esprimere la propria differenza soggettiva, il discorso che tengono non ci interessa quasi mai, perché dà voce a un’idiosincrasia solo privata, non evoca nulla che sia comune a tutti, ci annoia. È la logica della società del narcisismo, certo, ma anche di ogni vita sociale. Che la poesia contemporanea sia l’arte più praticata e la meno letta è perfettamente comprensibile. Qual è dunque la sua verità residua?
La cultura contemporanea vive una doppia tragedia. La prima è quella descritta un secolo fa da Simmel: la modernità fa crescere lo spirito oggettivo, la quantità di conoscenze, la divisione del lavoro intellettuale, mentre la capacità di assorbimento di una singola vita è limitata; di conseguenza la cultura complessiva diventa sempre più vasta, mentre le opinioni degli individui sulle questioni generali sempre più approssimative[69]. La seconda è la tragedia della democrazia. Se l’accesso all’istruzione per tutti è stata una delle più grandi conquiste dei socialismi, delle socialdemocrazie e delle cristiano-democrazie novecentesche, la cultura in sé non è democratica. Ciò che in Occidente continuiamo a chiamare cultura comincia col gesto asociale di Platone che separa la verità dalla doxa: il verdetto che la maggioranza esprime su questioni che riguardano il vero, il bello o il buono ha un’enorme rilevanza politica, ma non ha alcun rapporto con la cosa in sé, nel bene come nel male. Nelle società contemporanee sovrappopolate, altamente differenziate, abitate da un numero crescente di individui e di opinioni, questa doppia tragedia produce l’odierno assetto discorsivo: un proliferare di nicchie specialistiche intorno a un centro mainstream fatto di contenuti intellettualmente poveri. Per descrivere questo centro torna utile rianimare la metafora morta del minimo comun denominatore. Non è un sistema di valori complessi ma ciò che rimane all’intersezione delle nicchie: mitologie globali, frasi fatte, idee comuni, cazzate. Chi guardi il mainstream dalla prospettiva di una delle nicchie cui appartiene sa che il mainstream è banale; d’altra parte, non appena usciamo dalle nicchie e parliamo di ciò che non conosciamo bene, torniamo tutti a essere mainstream. La povertà del dibattito politico contemporaneo, la povertà della discussione sullo spazio comune che dovrebbe stare all’intersezione delle nicchie, dipende anche da questa dialettica senza sintesi che un tempo veniva risolta da alcuni grandi meccanismi collettivi di semplificazione, cioè dalle ideologie.
La poesia è una nicchia. I suoi testi intercettano un aspetto cruciale della condizione contemporanea, cioè la separatezza interiore dei singoli dal gruppo, da ogni gruppo. Adorno la chiamava «individuazione senza riserve»[70] – un’inappartenenza che si manifesta sia in forma soggettiva, cioè lirica, sia in forma antilirica, cioè attraverso il dispositivo dello straniamento. È inevitabile che un genere simile imploda al proprio interno nel modo che queste pagine hanno cercato di descrivere, ed è inevitabile che, se visto dall’esterno, risulti intransitivo, incomprensibile. All’interno come all’esterno, nella sua lotta per bande e nella sua chiusura dentro la nicchia, la cosa che oggi chiamiamo poesia sembra illustrare uno dei versi di Montale più belli e più terribili: «ognuno riconosce i suoi». Quel verso è anche una delle migliori sintesi della vita sociale moderna, e forse della vita sociale tout court. Anche solo per questo la poesia contemporanea ha molto da dire*.
[1] G. Conte, Sullo stato della poesia, in «Poesia», VII, aprile 1994, 72, p. 72.
[2] F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p. X.
[3] Sulla poesia contemporanea come forma di letteratura minore, cfr. A. Cortellessa, Introduzione: la lingua minore. in Id. La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi. Roma, Fazi, 2006, pp. XXI-LII.
[4] A. Berardinelli, F. Cordelli, Il pubblico della poesia, Cosenza, Lerici, 1975. I più vecchi fra gli autori inclusi erano nati nel 1936 (Ferruccio Brugnaro, Cesare Greppi, Attilio Lolini, Raffaele Perrotta), i più giovani nel 1951 (Eros Alesi, Milo De Angelis).
[5] Sull’importanza del 1971 come confine, cfr. F. Cordelli, Introduzione a Pier Paolo Pasolini, Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti, 2002, p. VI ss. e G. Simonetti, Mito delle origini, nevrosi della fine, in «L’Ulisse», 11, 2008, pp. 51-56, in particolare p. 53.
[6] R. Orlando, D’après Botta e risposta I (Montale, Satura), in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Filosofia, Serie IV, Vol. 2, No. 2 (1997), pp. 735-781.
[7] E. Montale, Mutazioni, in «Corriere della Sera», 13 agosto 1949, poi in Id., Auto da fé. Cronache in due tempi (1966); ora in Id., Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 90.
[8] E. Montale, I libri nello scaffale, in «Corriere della Sera», 24 ottobre 1961, poi in Id., Auto da fé, cit., p. 97.
[9] E. Montale, Odradek, in «Corriere della Sera», 7 agosto 1959, poi Auto da fé, ora in Il secondo mestiere, cit., p. 125.
[10] E. Montale, L’età del discredito, in «Corriere della Sera», 22 dicembre 1963, ora in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, t. II, p. 2610.
[11] P.P. Pasolini, La mancanza di richiesta di poesia, in Poesia in forma di rosa (1964), ora in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003, vol. I, p. 1157.
[12] F. Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, cit., vol. I, p. LIII.
[13] E. Sanguineti, Introduzione a Poeti italiani del Novecento (1969), a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1997, vol. I, p. LX.
[14] A. Giuliani, Prefazione 2003 a I novissimi (1961), Torino, Einaudi, 2003, p. V.
[15] È la tesi di Enrico Testa. Cfr. Dopo la lirica, a cura di E. Testa, Torino, Einaudi, 2005, Introduzione.
[16] Cfr. D. Frasca, Posture dell’io, Pisa, Felici, 2014.
[17] Cfr. G. Simonetti, Mito delle origini e nevrosi della fine, cit., p. 53 e G. Mazzoni, In dialogo, «Ulisse» 11, 2008, p. 78.
[18] A. Andermann, Castelporziano. Ostia dei poeti, 1980.
[19] A. Barbuto, Da Narciso a Castelporziano, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1981.
[20] F. Cordelli, Proprietà perduta, Parma, Guanda, 1983.
[21] Su Parola innamorata e sulle antologie di Porta e di Mengaldo, cfr. C. Crocco, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, Roma 2015, pp. 147-56 e Ead., «Come credersi autori?». Le antologie di poesia italiana degli anni Ottanta (1978-1990), in Poesia ’70-’80. Le nuove generazioni. Geografia e storia, opere e percorsi, letture e commenti. Selezione di contributi dal Convegno (Torino, 17-18 dicembre 2015), a cura di B. Manetti, S. Stroppa, D. Dalmas, S. Giovannuzzi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2016, pp. 65-77.
[22] Il giovane Magrelli frequenta un liceo sperimentale in cui l’avanguardia è diventata già programma scolastico. Cfr. Ibridazioni. Intervista a Valerio Magrelli, a cura di F. Santucci, in «Le parole e le cose», 6 maggio 2015 https://www.leparoleelecose.it/?p=18861.
[23] A. Berardinelli, Cominciando dall’inizio, in Il pubblico della poesia. Trent’anni dopo, a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, Roma, Castelvecchi, 2004, p. 6.
[24] S. Carella, P. Febbraro, S. Barberini, Il romanzo di Castel Porziano. Tre giorni di pace, amore e poesia, Viterbo, Stampa Alternativa, 2015.
[25] Ivi., p. 7.
[26] Castelporziano, quei tre giorni sulla spiaggia, intervista a Simone Carella, a cura di A. Vanzi, «il manifesto», 1 novembre 2014. Sul corpo nella poesia italiana contemporanea, cfr. A. Cortellessa, Touch. Io è un corpo, ora in Id., La fisica del senso, cit., pp. 61-86.
[27] «Si era creato questo equivoco di Patti Smith», ricorda Carella, «perché tra gli altri poeti io avevo invitato anche lei, come poeta, l’altro giorno ho ritrovato una sua lunghissima e bellissima lettera (indirizzata a me al femminile perché firmandomi io Simone aveva pensato che fossi una donna) in cui mi diceva ‘Dear Madame mi dispiace ma non posso venire perché sono impegnata in un tour’, insomma alcuni protestarono perché volevano sentire lei, noi non volevamo prendere in giro nessuno». Castelporziano, quei tre giorni sulla spiaggia, cit.
[28] S. Carella, P. Febbraro, S. Barberini, Il romanzo di Castel Porziano, cit., pp. 15 ss.
[29] Ivi., p. 22.
[30] Ivi, p. 27.
[31] Ivi, p. 115.
[32] Ivi, p. 138.
[33] Ivi, p. 139.
[34] A. Berardinelli, Effetti di deriva in A. Berardinelli, F. Cordelli, Il pubblico della poesia, cit., pp. 15-16.
[35] Ne ho parlato estesamente qui: G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 221 ss.
[36] Cfr. N. Heinich, Le triple jeu de l’art contemporain, Paris, Gallimard, Paris, Minuit, 1998, p. 56 ss. Nathalie Heinich si richiama all’analisi della sociologia weberiana della religione sviluppata da Bourdieu (P. Bourdieu, Une interprétation de la théorie de la religion selon Max Weber, in «Archives européennes de sociologie», XII, 1971, n. 1, pp. 3-21). Cfr. anche E. de La Fuente, La filosofia weberiana del profeta e il compositore d’avanguardia, in «Rassegna italiana di sociologia», XLII, 2001, n. 4, pp. 513-540.
[37] M. Houellebecq, Les Particules élémentaires (1998); trad. it. Le particelle elementari, Milano, Bompiani, 1999, p. 85.
[38] W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire (1939-40); trad. it., Su alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi, C. Härle, Vicenza, Neri Pozza, 2012, p. 853-54.
[39] A. Palazzeschi, E lasciatemi divertire! (Canzonetta), in Id., L’Incendiario (1910), ora in Id., Tutte le poesie, a cura e con un saggio di A. Dei, Milano, Mondadori, 2002, p. 238. Cito dall’edizione 1910 di L’Incendiario. La poesia verrà leggermente riscritta a cominciare dal titolo, che diventerà Lasciatemi divertire.
[40] G. Gozzano, La Signorina Felicita ovvero la Felicità, in Id. I colloqui (1911) ora in Id, Tutte le poesie, testo critico e note a cura di A. Rocca, Milano, Mondadori, 1980, p. 178.
[41] Suffragio universale e analfabetismo. Appunti statistici, in «Nuova Antologia», Quinta Serie, Vol. CLIII, fasc. 946, 16 maggio 1911, pp. 330-338. Il calcolo è fatto in vista delle elezioni a suffragio universale maschile che si sarebbero tenute nel 1913 e riguarda gli uomini, non le donne. Alla fine il risultato complessivo del calcolo è «3 milioni e mezzo di elettori istruiti contro più di 5 milioni di elettori analfabeti o quasi». Ma poi si aggiunge «Ed è questa l’ipotesi più favorevole: in realtà il rapporto fra istruiti e non istruiti sarà peggiore». Ivi, p. 333.
[42] Istat, L’Italia in 150 anni. 7. L’istruzione.
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[43] Guanda apre una collana di poesia molto prolifica, diretta da Giovanni Raboni; le collane dei editori grandi e medi si aprono agli esordienti o ai semiesordienti: Bellezza pubblica per Garzanti, Cucchi per lo Specchio, Cavalli per la collana bianca Einaudi, Magrelli per Feltrinelli.
[44] A. Berardinelli, Effetti di deriva, cit., p. 25.
[45] G. Palmieri, Antologie poetiche allo specchio e saggi sulla poesia, in “Il Verri”, XLII, giugno 1997, 2-3, pp. 162. Cfr. anche C. Crocco, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, cit., pp. 154 ss.
[46] Per una storia delle antologie recenti, cfr. G. Palmieri, Antologie poetiche allo specchio e saggi sulla poesia, cit.; S. Verdino, Le antologie di poesia del Novecento. Primi appunti e materiali, in «Nuova corrente», LI, 133, 2004; Scaffai, Altri canzonieri. Sulle antologie di poesia italiana (1903-2005), in «Paragrafo», I, 2006, p. 90; C. Crocco, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, cit. e Ead., «Come credersi autori?». Le antologie di poesia italiana degli anni Ottanta (1978-1990), cit.
[47] Parola Plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di G. Alfano, A. Baldacci, C. Bello Minciacchi, A. Cortellessa, M. Manganelli, R. Scarpa, F. Zinelli, P. Zublena, Roma, Sossella, 2005.
[48] Cfr. P. Bourdieu (avec L.J.D. Wacquant), Réponses. Pour une anthropologie réflexive, Paris, Seuil, 1992, p. 76.
[49] E. Montale, Piccolo testamento, in Id., La bufera e altro (1956), poi in Id., L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 267.
[50] M. Luzi, Presso il Bisenzio, in Nel Magma (1963), ora in Id., L’opera poetica, Milano, Mondadori, 1998, p. 317.
[51] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre (1963), ora in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2014, p. 238.
[52] V. Sereni, Un sogno, in Gli strumenti umani (1965), ora in Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1995, p. 159.
[53] E. Sanguineti, Purgatorio de l’Inferno. XVII poesie, 1960-1963, 17, in Id., Segnalibro. Poesie 1951-1981, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 90.
[54] F. Fortini, Attraverso Pasolini, cit., p. X.
[55] F. Fortini, Attraverso Pasolini, cit., p. VII.
[56] «Ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria». F.T. Marinetti, Manifesto del Futurismo (1909), in Id., Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 1990.
[57] «No good poetry is ever written in a manner twenty years old». E. Pound, A Retrospect (1913-18), in Literary Essays of Ezra Pound, New York, New Directions, 1968, p. 11.
[58] A. Giuliani, Introduzione (1961) a I novissimi (1961, 1965), Torino, Einaudi, 2003, p. 15.
[59] A. Berardinelli, Cominciando dall’inizio, cit., p. 7.
[60] A. Danto, After the End of Art (1997), trad. it., Dopo la fine dell’arte, Milano, Bruno Mondadori, 2008. La «cinta della storia» è una citazione di Hegel.
[61] L. Jenny, Je suis la révolution. Histoire d’une métaphore (1830-1975), Paris, Belin, 2008.
[62] Cfr. T. Ottonieri, Interventi preordinati e discussione (III), in «Moderna», III, 2, 2001, pp. 167-69. Sulle discussioni letterarie più recenti, cfr. G. Policastro, Polemiche letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog, Roma, Carocci, 2012.
[63] F. Pivano, The Beat Goes On, Milano, Mondadori, 2004, citato in A. Cortellessa, Il più grande poeta italiano degli ultimi cento anni?, in «alfabeta2», II, 13, ottobre 2011, p. 31; ripreso il 26 ottobre su «Le parole e le cose» col titolo Il più grande poeta italiano degli ultimi cento anni? Il culto per Fabrizio De André nell’Italia contemporanea. https://www.leparoleelecose.it/?p=1630.
[64] Cfr. P. Bourdieu, Les Règles de l’art (1992 e 1998), trad. it Le regole dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 2005, pp. 116 ss. Su masscult e midcult in un regime di consumo culturale di massa, cfr. D. MacDonald, Masscult and Midcult (1960), trad. it., Masscult e midcult, Roma, E/O, 2002.
[65] F. Guglieri, M. Sisto, Verifica dei poteri 2.0. Critica e militanza letteraria in Internet (1999-2009), in «Allegoria», 61, XXII, gennaio-giugno 2010, pp. 153-174; G. Policastro, Polemiche letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog, cit.; G. Bortolotti, Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete, in «Nuova Prosa», 64, 2014, pp. 77-146, poi in «L’Ulisse», 19, 2016, pp. 12-46; A. Lombardi, L’esperienza di «Nazione Indiana» nella storia del web letterario italiano, in «L’Ulisse», 19, 2016, pp. 47-66.
[66] H. Frankfurt, On Bullshit (1986); trad. it. Stronzate. Un saggio filosofico, Milano, Rizzoli, 2005.
[67] Sulla presa di parola come tratto di fondo del Sessantotto, cfr. M. de Certeau, La Prise de parole (1968); trad. it. La presa della parola e altri scritti politici, Meltemi, Roma 2007, p. 37. Ne ho parlato più diffusamente in G. Mazzoni, I destini generali, Roma, Laterza, 2015, pp. 27 ss.
[68] Sulla nozione di creatività generica, che è centrale nella logica dell’arte contemporanea, cfr. G. Guercio, Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione, Macerata, Quodlibet, 2017.
[69] G. Simmel, Der Begriff und die Tragödie der Kultur (1911); trad.it. Il concetto e la tragedia della cultura, in Id. Metafisica della morte e altri scritti, a cura di L. Petrucchi, Milano, SE, 2002.
[70] Th.W. Adorno, Rede über Lyrik und Gesellschaft (1957); trad.it. Discorso su lirica e società, in Id., Note per la letteratura I, Torino, Einaudi, 1979, p. 47.
* Questo saggio accorpa e riscrive alcune idee esposte in Per un bilancio, in Genealogie della poesia nel secondo Novecento, «Moderna», III, 2, 2001, pp. 225-9, In dialogo, a cura di I. Testa, in «L’Ulisse» 11, 2008, pp. 68-79; In dialogo, a cura di A. Broggi, in «L’Ulisse», 13, 2010, pp. 190-194; La poesia italiana degli anni Settanta, relazione tenuta a Pisa il 20 maggio 2013 in occasione del Seminario per Francesco Orlando, Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, e nei corsi universitari sulla poesia del Novecento tenuti all’Università di Siena fra il 2005 e il 2016.
[Immagine: Foto di Guido Mazzoni].
“ 4 maggio 1984 – L’intervento di Fortini al convegno sulla poesia? Dormiva e russava. Quando toccava a me si era fatto tardi. Intanto la vecchia professoressa zittella riceveva nel retrobottega le attenzioni di quel sadico del pizzaiolo. (Un sogno) “.
“ 1 ottobre 1995 – All’8° chilometro di Castelporziano in circa mezz’ora ho contato 57 pizzetti (oltre a 14 cazzi, 72 tette, 23 copie di Repubblica , 8 cani, 1 fregna. Di colore rosso) “. [*]
[*] Caro Guido Mazzoni, cara LPLC, leggo con grande interesse questo scritto sulla Storia sociale della poesia contemporanea in Italia. Troppo ci sarebbe da dire. Per intanto, io, che a Castelporziano c’ero – a quei tempi ero ancora sufficientemente giovane per volere “ esserci “-, mi limito a fare notare che Castelporziano è dalle parti di Torvajanica, nonché di Fiumicino, nonché di Ostia. Che sono tutti postacci, non so se mi spiego.
Ottima analisi, come sempre. Grazie a Guido Mazzoni e a LPLC. Ho apprezzato soprattutto il collegamento tra le analisi teoriche e i dati della scolarizzazione di massa: non si capisce niente della nostra società se non si vedono questi enormi cambiamenti nell’accesso alla lettura, alla scrittura e alla cultura. Se non si fa questo, si cade nel solito piagnisteo sulla fine di una inesistente società “più umana”.
Due osservazioni, da lettore esterno e incompetente.
La “caduta” della poesia in un paesaggio pulviscolare di esperienze soggettive forse esprime semplicemente una verità umile della poesia, ora: l’espressione di esperienze particolari, che parlano ad altre esperienze particolari. E demistifica l’ambizione di essere qualcosa di più.
Il minimo comun denominatore della nostra cultura non è solo quello delle “cazzate”, ma, secondo me, anche una eticità più profonda, legata alle ovvietà moderne e democratiche a cui nessuno di noi riuscirebbe a rinunciare: la libertà individuale, il rifiuto delle gerarchie, il soggettivismo, l’espressione dell’io, il culto della vita quotidiana e della vita privata affettiva ecc. In forma banale, non raffinata intellettualmente, questo è il collante che ci tiene uniti, più di quanto ci sembri, e oltre i confini di classe.
Guido Mazzoni sempre impeccabile !
Se ci fossero poeti in grado di scrivere poesie così evidentemente belle com’ è bello questo saggio, forse la situazione sarebbe diversa. Il problema della poesia di oggi, da semplice lettore, mi pare proprio quello di una evidenza e di una memorabilità perdute, e non soltanto a vantaggio della cultura pop.
Anch’io, “da semplice lettore”, ringrazio Mazzoni per il suo saggio e anche Piras per il suo commento. Sarebbe bello se, in un prossimo intervento su LPLC, Mazzoni ci dicesse chi riconosce come “i suoi”.
Invidio chi come lui riesce ancora a catalogare fatti, idee, testi e persone in una prospettiva dotata di senso.
Mi domando perché si debba affrontare la ricerca sulla poesia contemporanea eludendo la domanda fondamentale relativa al valore e al significato del cosiddetto “sottobosco letterario”. Non trovo in fondo che le poetiche dominanti come riferimenti concettuali. Se la critica al sistema è proposta da chi ne fa parte allora possiamo ammirare la profondità dell’erudizione, ma non condividere una ricerca della verità che appare pur sempre timida e parziale. Applaudo alla logica, ma sarebbe ora di porsi il problema dei rapporti per lo meno discutibili tra poesia e politica, della mancata sistematicità della lettura, soprattutto dei contemporanei meno noti. Appare troppo spesso evidente il ricorso a categorie concettuali che sanno di una diffusa eppure ad un tempo dubbia autoreferenzialità. Manca la passione controcorrente per la verità! Per esempio dove sono gli studi sulla rivista Quinta generazione, sugli scrittori rimossi o dimenticati? Voci fuori dal coro che attendono la riscoperta di una critica che si passeggia da Conte a Mengaldo e trova tempo per rassicurarci in merito all’indubbio genio di Zanzotto. I trecentomila che scrivono in Italia possono stare tranquilli, non saranno letti mai neanche per sbaglio. Marzia Alunni, figlia di Maria Grazia Lenisa
Molti problemi seri pone l’abbozzo di «storia sociale della poesia contemporanea in Italia» di Guido Mazzoni. La cronaca dei decenni esaminati mi pare completa. Le foto di gruppo dei notabili di una volta e della folla confusa dei *moltinpoesia* di oggi sono ben scattate. Anche la «facile allegoria» del «crollo del palco» (e della Poesia) a Castelporziano mette bene a fuoco, secondo me, una restaurazione e il ritorno in forme mascherate ad una ben solida e antica separatezza tra élites e masse (nel linguaggio di Mazzoni: «nicchie» e «mainstream»).
Le prime rispolverano l’etica montaliana dell’ «ognuno riconosce i suoi», le seconde – « potenziali aspiranti poeti» o oscurati o mugugnanti o allo sbando – si abbandonano all’anarchico rifiuto della poesia (« Ma io della poesia non me ne f… Andate affanculo tutti, mi avete rotto il cazzo.») o tentano la via dell’arrangiarsi, del *fai da te*. Una «dialettica senza sintesi» (cioè una non dialettica). Il quadro storico è questo, preciso.
Manca – o non l’afferro io –da parte di Mazzoni un chiarimento sulla sua collocazione di poeta e critico; e l’indicazione di una prospettiva possibile.
Egli descrive minuziosamente, constata il cambio di regime («la poesia perde importanza nell’economia generale della comunicazione»; «Il pubblico della poesia si è allargato, si è fatto eterogeneo e ha assunto un atteggiamento nuovo», ecc.), ma resta – sempre a mio parere – paralizzato dal suo sociologismo statico ed amletico.
Leggendolo, a me verrebbe di stabilire un’ analogia (rozza per certi palati di LPLC, lo so…) col campo della politica. E chiedermi: il fallimento del sistema politico/culturale della Prima repubblica (e con esso della prima ambivalente e poi falsa opposizione del vecchio PCI, a cui facevano comunque riferimento molti dei poeti pre-anni Settanta nominati da Mazzoni) ha davvero prodotto in poesia quello che egli definisce «un dispositivo orizzontale e democratico»?
Ne dubito. E di fronte agli autori di «Parola plurale», che tale dispositivo sembravano accogliere come ovvio o persino liberatorio, fa bene a chiedersi: « Ma che cosa significa pluralità?».
Non ci saranno però mai risposte illuminanti e benefici scossoni, se continueremo a ripeterci che prima (fino agli anni Settanta) con quel « numero relativamente ristretto dei partecipanti [e] dei luoghi in cui si pubblicava e si recensiva» era possibile «la battaglia delle poetiche» e che dopo sono spuntate (dal nulla?) solo «famiglie poetiche differenti [che] convivono senza contraddirsi», per cui «si ha l’impressione [!] che tutto possa andar bene, perché non c’è alcun imperativo etico-politico che trascenda il desiderio individuale di essere come si è e di esprimersi come si è».
E un’impressione sbagliata. Ci sarebbero, sì, tante domande scomode a cui tentare di rispondere. Del tipo:
Perché sono venuti meno «gli imperativi che avevano tenuto insieme il campo rimandando a delle verità che dovevano valere per tutti»? Sono venuti meno da soli? E chi ha esonerato i poeti e i critici dall’«obbligo di giustificare la propria scrittura al cospetto della politica o della storia»?
E ancora: È giusto rifugiarsi nelle « sacche di conflittualità avanguardistica» (ammesso che tali siano e non epigoniche)? O adeguarsi alla « nuova legge del sistema [che] è il cuius regio eius religio, la compresenza di nicchie relativamente chiuse e indifferenti» (compresa LPLC, mi pare)? Oppure: la «logica dell’individualismo liberale» non può essere proprio più contrastata?
Se, invece di divagare tra la rava della « diagnosi di Lasch sul narcisismo come atmosfera psicologica del nostro tempo» e la fava della «sua necessità epocale» o addirittura di una « sua barbarica vitalità», chi ha ancora un po’ di salda memoria e non volge la mente lontano dalle tragiche immigrazioni e dalle continue guerre “umanitarie”, contrastasse – anche (e non solo) – in poesia l’etica davvero «terribile», e per me quasi oscena in senso politico e sociale, di quell’«ognuno riconosce i suoi»?
Non è «quel verso […] una delle migliori sintesi della vita sociale moderna, e forse della vita sociale tout court…». É la pigra giustificazione dello starsene nelle nicchie, a cui si è giunti per meriti conquistati o ereditati. Il compito vero sarebbe quello di uscirne, di balbettare nuovamente su «ciò che non conosciamo bene», di stare nel «maenstream» senza « essere mainstream», di far dialogare – come diceva Fortini – il filosofo e il tonto, di non scimmiottare in piccolo il « gesto asociale di Platone che separa la verità dalla doxa», di far reagire le «nostre verità» politiche e poetiche che conserviamo nella memoria con la «doxa» dei *moltinpoesia* dovunque sia possibile (Web compreso) per scardinarla.
*Nei versi successivi il discorso degenera:*
perché prima?
E’ un saggio bellissimo. Tiene insieme tanto, parlando del fatto che tanto non riusciamo più a tenere insieme quasi nulla. Mi pare che performativamente affermi quel che nega (è un po’ sofistico, lo so).
Io però penso che l’orizzontalità di oggi non sia solo quell’arrogante chiasso narcisistico che Bellezza rintuzzò. Oggi se porti un poeta a scuola magari i ragazzi non se lo aspettano, è vero, e gli pare un animale strano, ma certo stanno zitti e lo stanno ad ascoltare. Se poi legge Sedici soldati siriani (ma non solo), la parola del poeta passa eccome. Lo so perché poi se ne riparla.
Insomma, oggi i ragazzi sono molto più rispettosi dei loro nonni a Castelporziano. (No scusate, è una scemenza, non si confrontano passato e presente così: mio padre, che ha poco meno dell’età dei nonni dei miei studenti, lavorava, era serio, aveva una vita piccolo-borghese, come quasi tutti gli altri. Certo non andava a fare il facinoroso con Bellezza. Senza negare l’importanza dei movimenti giovanili, la cui portata di rinnovamento certo non è valsa solo per chi li ha fatti, io ho sempre il sospetto che la maggior parte dell’umanità abbia vissuto, viva e vivrà la sua decente zona grigia ben al di qua degli -ismi di quelli con la cui azione visibile poi identifichiamo la Storia).
Anche sul dibattito sui social, mi sembra che almeno metà delle volte vengano fuori cose interessanti anche nella discussione sotto i post. Sono però d’accordo con l’osservazione che si tratta di tempo in pura dépense per chi vi si impegna. Ne resterà poco. Serve per lo più solo a quelli che vi hanno preso parte o che hanno voglia di leggere. Loro imparano (io ho imparato molto). Ma non sono cazzate, o almeno non solo.
La mia ultima osservazione è collegata a quello che ho appena detto. Oggi possiamo tutti imparare molto più di quanto non sia mai stato possibile, in termini di quantità, libertà, possibilità di ibridazione e sperimentazione. Ma a che serve, se ce ne accorgiamo solo noi?
I nostri studenti non giocano a fare i rivoluzionari, non surfano sulla Storia. Hanno scoperto il qui e ora e si prendono cura di sé. E’ una bella conquista. In questo ha ragione Mauro Piras.
Dove secondo me invece ha torto, e dove invece ha ragione, oh se ha ragione, Guido Mazzoni, è che l’io singolare mio proprio è anche una brutta bestia. Il bisogno di sensi generali e collettivi (pieni però, non vuoti come l’autonomia dell’individuo liberale, che è un principio formale) è incancellabile nell’essere umano. E oggi questi sensi immediati, pregiudiziali, approssimativi, non ci sono, o almeno non costituiscono un tessuto coerente, immediatamente percepibile. Oggi ti devi costruire tutto da solo (o anche assumere una maschera messa a disposizione dalla cultura di massa. In verità la maggior parte di noi ibrida le due cose, ha un’identità pot-pourri). Ma immaginando che sia vero che tutti abbiamo la possibilità di sceglierci il nostro senso, la maggior parte delle persone semplicemente non avrà tempo per auscultarsi fino in fondo e “diventare quel che si è”, come voleva quello che ha descritto le conseguenze della modernità fino in fondo, ma quando ancora la cultura era aristocratica e svincolata dalla fatica del dimostrarsi utile e si poteva vivere di filosofia (più o meno). Prima o poi la maggior parte di quelle persone dovrà piazzarsi in qualche casella non troppo disfunzionale e guadagnarsi la pagnotta. Altro che prendersi cura di sé.
E in questo senso io penso che i ragazzi di Castelporziano fossero, certo, l’inizio del narcisismo a venire, ma forse anche l’ultima rappresentazione di cosa significhi vivere pensando di essere dentro un senso storico collettivo (quello della rivoluzione facinorosamente umbilicale). Tra uno che grida “nudo nudo” a Bellezza e uno che ascolta Guido Mazzoni in silenzio facendosi compenetrare dalle sue parole, è molto più fragile il secondo.
Sono le sei del mattino, è ancora buio fitto, ma, quando guardo se c’è qualcuno che, da qualche parte nel mondo, mi sta leggendo, scopro che uno, effettivamente, c’è. E dove sta quest’uno solitario, mattiniero, inspiegabile? Sta in un paese piuttosto piccolo, che quasi nessuno conosce, dove non sono mai andato e non andrò mai: l’Oman. E non ho detto Onan, e, anche stamani, non c’è niente da ridere. [*]
[*] Caro Ennio (anche il mio babbo si chiamava Ennio), scrivi sempre delle cose molto belle, ma io, francamente, non so di che parli. Sì, mi sembra di sentire qualcosa, una specie di eco, lontana, ma niente di più…
@ adriano barra (se così si chiama e non *bara*)
Non è importante sapere subito di *che* io parli. Sì, ascolta quella «specie di eco» (il mio, non quello di Eco). I poeti hanno sempre saputo ascoltarlo e non se ne sono mai pentiti.
P.s.
Sto leggendo “Quaderni di Voronež” di Osip Emil’evič Mandel’štam e in una poesia intitolata “Roma” leggo:
….
la città modellata in vicoli e spifferi
dalla rondine della cupola –
l’avete ridotta a un vivaio d’assassini,
voi, mercenari del sangue bruno,
italiche camicine nere,
feroci cuccioli di cesari morti…
(pag. 171, Mondadori 1995)
Senti che eco qui, eh?
Ciao
“ 2 dicembre 1975 – La poesia devi rendermela / le lettere sono perdute / e i due cappotti anche. / Com’ero vestito all’epoca / dell’undicesimo congresso? / Dagli atti non si deduce / gli atti sono perduti. / Ma la poesia devi rendermela / bada sono capace di tutto / ormai. // I due cappotti erano strabilianti / da fare perdere il capo alle donne / eleganti / autentici / inaspettati / anticipati sui tempi / anche per me che li ho ripudiati / come un genio bizzoso / i primi versi / ma – davvero! – / tremavo al vedermeli / davanti. // Ogni qualvolta qualcuno / mi parla di loro / mi mangio un altro poco / di mani. “ [*]
[*] Caro Ennio, volemose bene. Ché siamo tutta gente che non conta un cazzo.
Errata corrige: ” Tutti gente “
Mi è capitato recentemente di assistere a qualche serata di Poetry Slam (gare di poesia più o meno estemporanea tra giovani abbastanza agitati).
In quelle occasioni mi ha confortato ricordare il titolo del discorso di Eugenio Montale per il premio Nobel: E’ ancora possibile la poesia. Senza il punto di domanda.
“Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? E’ ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se si intende la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia. (…) Ciò prova che la grande lirica può morire, rinascere, rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana” (Eugenio Montale, dal discorso per il conferimento del Nobel)
Due passi di Fortini su “ognuno riconosce i suoi”:
1) a partire da una celebre frase con la quale, nel secolo XIII, durante un massacro di Albigesi, un vescovo avrebbe risposto a chi gli aveva fatto presente che la strage indiscriminata avrebbe colpito, oltre agli eretici, anche dei buoni cattolici: “Uccideteli tutti, Iddio riconoscerà i suoi” (nota a “Piccolo testamento” in F. Fortini, I poeti italiani del Novecento, p. 140)
2) A me quella declinazione, quella attitudine mentale ha sempre suonato come una bestemmia. «Ognuno riconosce i suoi» non è che l’affermazione centrale di tutte le antropologie reazionarie. […] Questa empietà pseudosacrale e pseudoreligiosa (mai Leopardi o Baudelaire, avrebbero così bestemmiato la comune impronta umana, la «prole dell’uomo» o la «multitude vile»), tanto più grave quanto si veste di pietà ossia di commiserazione per sé o per altri […] È il coerente inviluppo mentale e morale, nell’Italia e nell’Europa d’oggi, di chi fu antifascista a Firenze trenta o quarant’anni fa, dell’antifascismo di destra, quello per il quale il fascismo non era, come Croce diceva, che una emersione di bestialità maleducata, di scherani e di sterco. (F. Fortini, Satura nel 1971, in Nuovi saggi italiani, pp. 119-120)
Differenti comunita’ giocano allo stesso gioco con regole ed obiettivi differenti ma la freccia temporale le incasella per indole, prima che per censo o cultura: pionieri, precursori, affaristi, masse, legislatori, becchini sono gli invariabili agenti della catena entropica della vita per come la conosciamo su questo pianeta. “Ognuno riconosce i suoi”, “posizione di vantaggio” e “cazzate” significano cose differenti per ciascuna delle comunita’ in ciascuno degli stadi progressivi sopra detti ed ora e’ il tempo dei becchini.
se è come dice ilfugiusco sto a cavallo: 4 librini a firma
“nino becchi” (ed. del ragazzo ubiquo) non son pochi…
@ Lo Vetere
Alcuni appunti:
1.
Purtroppo le visite dei poeti nelle scuole restano, malgrado le buone intenzioni, semplici comparsate. La poesia non può entrare nei cuori e nelle menti di studenti che, come i rematori di Ulisse, sono alle prese con la fatica di “svolgere il programma” e hanno le orecchie turate dalla cera dei mass media. Resta e resterà «dispetta e scura». Parlerà sempre più a pochi “francescani” o “rivoluzionari” o “matti” E forse più in qualche bettola che nei luoghi deputati alla sua “fruizione”. (Fortini, «Che cos’è la poesia» RAI Educational (1993): ««Aurelio Saffi, combattente della Repubblica Romana del 1849 e compagno di Mazzini, va con Herzen in una misera osteria londinese di profughi e di esuli a leggere le poesie di Leopardi»)
2.
« Oggi i ragazzi sono molto più rispettosi dei loro nonni a Castelporziano». Sembra anche a me «una scemenza». Non perché, come scrivi, non si possa confrontare passato e presente, ma perché nella tua affermazione si insinua l’ideologia che il presente (che non è fatto solo di ragazzi «molto rispettosi»!) sia migliore del passato dei « loro nonni a Castelporziano».
3.
Lungi da me tessere le lodi dell’anarchia di Castelporziano, ma sono vecchio e sono stato più di te dentro i discorsi degli anni Settanta per farmi sfuggire la verità (poi repressa e smarrita) di quell’evento simbolico. Tranne poche eccezioni, l’intellettualità politicamente autorevole di allora la respinse. Un esempio: «Le due società» (1977) di Asor Rosa. Standosene nella sua nicchia di oppositore di regime, al pari del Lutero alle prese con la guerra dei contadini del ‘500, aizzò contro gli improvvisati Thomas Müntzer dell’Autonomia, la «rude razza pagana» operaia del PCI, che avrebbe dovuto «farsi Stato» mettendo a frutto – come scrisse Fortini – il consenso «di una massa imponente di operatori intellettuali» e quello di «milioni e milioni di filistei, fra i quali i milioni di lavoratori che [una] politica trentennale, al governo o all’opposizione, [aveva] trasformato in piccoli borghesi assetati di ordine e desiderosi di farla finita con quei lazzaroni dei giovani che non rispetta[va]no il lavoro»(Disobbedienze). Parafrasando la frase del ragazzo salito sul palco e che si era preso il microfono, di cui parla Mazzoni, potrei riassumere la sostanza dell’elaboratissimo libro di Asor Rosa, in un: « Ma io della *seconda società* non me ne f… Andate affanculo tutti, mi avete rotto il cazzo». Asor Rosa si adoperò insieme a molti per il *respingimento* di quelle masse con la stessa protervia cinica e mellifua che oggi ha usato Minniti nei confronti dei migranti.
4.
Tu rimuovi la relazione gerarchica tra la condizione di quelli come tuo padre, che « aveva una vita piccolo-borghese, come quasi tutti gli altri», e la condizione dei i “facinorosi”, che ingrosseranno poi le file del cosiddetto «popolo delle partite IVA» o del «precariato» odierno. (Altro esempio di «maenstream», da cui tu Mazzoni e altri prendete le distanze).
5.
Oh, sì, non «il sospetto che la maggior parte dell’umanità «abbia vissuto, viva e vivrà» in una «zona grigia ben al di qua degli –ismi» devi avere. Abbi la certezza che questa è e sarà chissà per quanto tempo ancora la situazione reale di milioni di uomini e donne. Ma, per favore, non definirla «decente». Non lo è più manco per l’ex piccola borghesia in Occidente. Figuriamoci per gli abitanti dei paesi dove ci sono guerre e fame.
6.
No, dal «dibattito su social» o «sotto i post» non vengono fuori un tanto di «cose interessanti». Vengono fuori, proprio come a Castelporziano, brontolii, urla, invidie, invocazioni, lamenti, rabbie represse. Il fatto grave è che quelli che stanno nelle «nicchie» (di ogni tipo) non vollero e non vogliono udire. Anche tu mi sembri – scusa la franchezza – uno di quelli che non vuole udire, se te la cavi con il latinorum di oggi: « si tratta di tempo in pura dépense per chi vi si impegna» o con un ottimismo progressista («Oggi possiamo tutti imparare molto più di quanto non sia mai stato possibile, in termini di quantità, libertà, possibilità di ibridazione e sperimentazione»).
7.
È una posa che mi fa riconoscere in te una versione aggiornata ai nostri anni del «cretino», di cui Fortini fece una paradossale difesa *. (Se andrai a rileggere con attenzione quel testo, ti accorgerai che la mia – lo giuro! – non è un’offesa né una gratuita provocazione).
8.
Certo, se le cose resteranno stagnanti, se questo «mainstream» non riuscirà neppure a lambire le «nicchie», se quelli che in esse *nicchiano* troveranno i loro Minniti, se non si riuscirà a rimettere in relazione il bisogno di «guadagnarsi la pagnotta » con il bisogno di poesia e anche del «prendersi cura di sé», avrai “ragione” tu: «Ne resterà poco». Ma insito a ricordare che a quei tempi non tutti giocarono a «fare i rivoluzionari» o a “surfare sulla Storia”, anche se furono sconfitti. E che tessere le lodi del «qui e ora» o della «cura di sé» resta (per pochi, certamente) atteggiamento odioso. Perché è discorso in difesa di quelli che stanno nelle «nicchie», che da liberti si godono la «bella conquista». I ragazzi di Castelporziano hanno finito per simboleggiare nella memoria dei *salvati* « l’inizio del narcisismo a venire» anche perché gli altri difesero – e non solo in poesia – le «nicchie» decidendo, come Asor Rosa/Lutero, che i loro bisogni potevano produrre solo una «rivoluzione facinorosamente umbilicale».
*
NOTA
Nel ’67 esce la famosa “Difesa del cretino”di Fortini: il ‘cretino’ in questione aveva spedito una lettera nel settembre 1966 alla rivista comunista “Vie nuove” criticando i nuovi giovani troppo emancipati nel sesso e nei modi, contrapponendo se stesso, più disciplinato con un lavoro che gli permette di studiare. Il perbenista viene deriso ma Fortini invece lo difende definendo i suoi detrattori come boriosi filistei.» (Giacomo Pontremoli, I ‘Piacentini’. Storia di una rivista (1962-1980), Roma, Edizioni dell’Asino, p.10.) Cfr. https://avvertenze.wordpress.com/2017/04/13/i-piacentini/)
@Abate
Caro Ennio, cerco di risponderti su ciascuno dei punti da te sollevati, per quanto ne sono in grado. Una premessa: ogni tanto uso un aggettivazione un po’ enfatica. Forse è sciocco, anzi lo è, però non bisogna prendermi troppo alla lettera. E’ solo una forma di imbarazzo per la presunzione di prendere la parola in pubblico. L’ironia o la strafottenza sono una maschera.
1. Penso che tu abbia ragione. Però, praticamente, non so che altro fare. Non so fare di più.
2. Quando parlo con gli ottimisti sono convinto che la mia età faccia schifo. Quando parlo coi pessimisti sono convinto che la mia età sia bellissima. Sono anche convinto che paragonare passato e presente sia impossibile. E’ una forma di relativismo radicale, credo. Però è evidente che se non lo facessimo non potremmo parlare: dicendo che “i ragazzi di oggi sono più rispettosi dei loro nonni a Castelporziano” ho fatto quel confronto, proprio quando dicevo che era una scemenza farlo. Peraltro ho generalizzato, che è un’altra scemenza. Non esistono “i ragazzi di oggi” in blocco “più rispettosi” di quelli del passato. Generalizzando, però, volevo dire, limitatamente alla lettura pubblica delle poesie, che mi sembra che oggi proprio la grande irrilevanza della poesia, così ben descritta da Guido Mazzoni, faccia sì che i ragazzi non pensino di contrapporsi frontalmente e a prescindere. Ascoltano. Magari sono solo disinteressati. Io però (generalizzando) non lo credo. Penso che serva. Penso che serva a ciascuno di loro. Ma, come ho detto, se serve a ciascuno singolarmente considerato forse non serve. Infatti penso che i ragazzi non sappiano precisamente che fare, nel mondo, dell’aver ascoltato delle poesie significative.
3. Casteloporziano per me, anagraficamente, è un episodio della storiografia, non di vita. Non era mia intenzione essere liquidatorio. Esageravo e stilizzavo. Volevo però suggerire che forse la depoliticizzazione dell’evento “lettura pubblica di poesia” produce gli effetti di cui al punto 2. Mi pare però che la sostanza della presa di parola su quel palco sia anche abbastanza eloquente, e non degna di troppa politicizzazione nobilitante. D’altra parte, non credo che valga come esempio icastico della famosa “presa di parola” del ’68, che è questione ben più complessa.
4. Qui mi sa che non ci intendiamo, e mi pare che tu sbagli di grosso. Temo che il disguido dipenda dal fatto che la categoria di “piccolo borghese”, che citavo tra virgolette (mannaggia a me che non le ho messe, in effetti) è una categoria che non significa molto. Mio padre (che è mio padre in senso reale ma soprattutto metaforico) è figlio di poveri contadini dialettofoni e analfabeti, meridionali peraltro, e di un Meridione profondo, profondissimo, di un’arretratezza che già solo nella prima grande città vicina era difficile forse da comprendere. Si impadronisce alla perfezione dell’italiano, si laurea, si mette a insegnare, ecc… Non aveva alcun capitale materiale né simbolico in partenza. Mi sfugge “la relazione gerarchica” che uno come lui e altri come lui stabilirebbero con precari e future partite iva.
5. Qui parliamo ancor più che al punto precedente di cose diverse. Confermo quello che ho detto. Pensavo alla brava e noiosa persona che lavora, torna a casa la sera, ha normali curiosità intellettuali, ha una invisibile ma rigorosa e generosa etica personale del fare il proprio piccolo dovere per la società. Sì, una cosa poco politica, forse, o forse solo secondo una certa lettura. Io però la rispetto profondamente, non fosse altro che per ragioni biografiche. E’ altamente decente, una delle forme di decenza (permettimi: di nobiltà) più alte che conosca.
Come vedi, il mio è un discorso strettamente etico. Non di classe. Per cui non c’entrano né le condizioni dei “piccolo borghesi” occidentali di oggi né di quelli dei paesi non-occidentali.
6. Considero la definizione di “ottimista progressista” come una gravissima offesa. La rifiuto con vigore e alfieriano sdegno. (Seriamente: io sento quel che sono in grado di sentire. Mi rendo conto che è molto poco. Però non mi viene più voglia di tendere l’orecchio se mi si leva davanti un dito moralizzatore a farmi sentire uno che “non vuole sentire”. Vedo bene i miei privilegi, in certo modo assari relativi in un certo altro assoluti, quasi sfacciati. Però il senso di colpa me lo gestisco da me).
7. L’ultima volta che ci siamo incrociati qui in questi ” brontolii, urla, invidie, invocazioni, lamenti, rabbie represse” dei commenti ero piuttosto ignorante di Fortini. Nel frattempo ho studiato un po’. L’ho letto (parzialmente, ovvio). Non ha scalzato i miei favoriti, ma diavolo che statura enorme. Ho letto anche la mia storia, quella del cretino. Non lo so, non mi sento poi così perbenista nel dire che, semplicemente, se hai davanti Bellezza stai zitto e lo ascolti. Punto. Il resto è finta bohème.
8. Questa parte rispondeva indirettamente alle osservazioni di Mauro Piras. Che, su questo punto, critico. Perciò è strano che tu mi imputi un elogio del qui e ora e della cura di sé, o almeno che mi imputi un elogio senza ombre o non dialettico. Detto questo, ribadisco che non penso che Castelporziano sia epitome di tutti i movimenti rivoluzionari. Anzi, da quel poco di storia che so mi pare che la fine degli anni Settanta ne siano stati per molti versi la tomba. Detto anche questo, penso che le mie espressioni “surfare sulla Storia” e “umbilicale rivoluzione” fossero piuttosto stupide.
Un caro saluto
Spero di non essere giudicato inopportuno se insinuo in questo bel ddibbattito sulla poesia questa poesia di uno che ho conosciuto e che non vergognava d’essere poeta (ma beveva un po’ troppo): “ 1979 [novembre] – « Amarezze d’aragosto – Amare in mare non fa mai male / se si dispone di un po’ di sale / e nel Mar Rosso è così vero / che non è vero per il Mar Nero. // È qui che in caso di maremoto / gli innamorati amano a nuoto / e per sentirsi a proprio agio / devono almeno fare naufragio. // Mare maretta mare maremma / un po’ di fretta un po’ di flemma, / mari vicini mari lontani / Olanda dighe Venezia canali. // Nella barchetta alla deriva / nuda nel sole dorme la diva / flusso riflusso ma l’alga cresce / e al mare mangia tutto il suo pesce. // Danza sul mare un velo d’olio / il mare è calmo come petrolio / e intanto il Luno sorge incantato / sia sul Mar Morto che sul Mar Nato. » (Adriano Spatola – ritaglio di giornale) “. Lui a Castelporziano non c’è andato, magari perché c’era già stato.
@ Ennio Abate
Comunque, mi pare che quello della ” rude razza pagana “, più che Asor Rosa, fosse Mario Tronti. Tutta gente che, comunque, si è ” sistemata “.
Buona giornata.
Un momento altamente creativo quel periodo…anche di eccessi, disorganizzazione, idolatria per loltreoceano, del resto la raccolta jukebox all’Idrogeno, quando uscì, nel nulla poetico, se leviamo i nomi dell’establishment…italiano e straniero, un’imforme marasma cercava di governarsi senza una linea se non un avvicendamento minimalista delle narrazioni. La cosa aberrante, questo inpudico ed inutile privatissimo ombelico scrivente ha agito come una mala pianta infestante con i rissultati che tutti possiamo consstatare. E a fan culo Asor Rosa, pretenzioso citrrullo.
@ Lo Vetere
non scherziamo, il settore strafottenza è mio.
Propongo “progressismo titubante” o “scetticismo progressista”
Commento serio a Mazzoni. A me questa idea della mutazione antropologica continua a destare perplessità, ma per tenere fede al neo-nato scetticismo progressista provo a venirti incontro. Penso dunque alle reazione scandalizzate alle prime di Stravinsky. Oggi probabilmente nessuno si scandalizzerebbe più solo per un fatto musicale. Però forse è più una questione di civiltà, nel senso che allora la musica era ancora un fatto anche di buone maniere, di etica. Nel caso di Conte a me sembra invece un banale caso di mancanza di prospettiva o di egocentrismo di classe. Nel senso che finché il pubblico era composto dagli stessi autori è chiaro che la poesia poteva sembrare la forma più alta e decisiva. Poi il pubblico si è allargato e la poesia per forza di cose ha perso la sua centralità. Ma era una cosa minuscola fra tante pure prima, a ben vedere. Nel dopo-guerra ha provato a sostenersi tramite la politica, ma l’effetto è durato poco. Dai pellegrinaggi politici ai miraggi poetici, insomma.
Propongo poi a LPLC di creare un gioco da tavola, vista la bella coincidenza della prima parte di questo saggio e il mio nickname di scontri fra autori: il risiko per intellettuali. Al posto dei carri armati versi e passi delle opere, poi insomma ci pensate bene. Secondo me spccate e alzate pure due spicci, però ci dovete mettere anche un po’ di cosce.
Meravigliose sono le coincidenze. Leggo, come ogni mattina, Anteprima, la rassegna stampa di Giorgio Dell’Arti e trovo una lettera di Paolo Zaccagnini. Così scopro che Paolo Zaccagnini – che ha recitato in Ecce Bombo di Nanni Moretti, che ha fatto per molti anni il critico musicale del Messaggero -, vive da parecchio tempo in Irlanda ed ha persino preso la cittadinanza irlandese. Cerco qualche altra notizia e trovo questo: “ In questi ultimi anni ha girato il mondo per festival letterari, recitando la sua poesia con accompagnamento musicale. Venne anche in Italia, quando assessore alla Cultura era l’architetto Renato Nicolini che aveva organizzato il Festival dei Poeti sulla spiaggia di Castelporziano. Evento indimenticabile. Essendo fresco laureato in letteratura americana e fervidissimo suo ammiratore, andai a sentirlo, e quando me lo trovai davanti non potei che gettarmigli tra le braccia. In quel momento il fortunoso palco crollò e non vidi più Amiri [Leroi Jones]. Ma tenni sempre la sua poesia nel mio cuore. “. E io mi chiedo: per essere poeti, nel Terzo Millennio, bisogna essere neri (incazzati neri)? Mah. Boh. Chissà.
Grazie a Guido Mazzoni per aver messo in forma seria e documentata uno dei topoi delle conversazioni che seguono incontri poetici di qualunque segno a qualsiasi latitudine in Italia. Chi le ha frequentate sa che da Bergamo a Catania il lamento standard comprende, almeno almeno, l’eccessivo numero di pubblicazioni, l’incapacità della critica di offrire un discrimine, la grettezza della grande editoria, la mancanza di un pubblico di non-poeti e via così.
Sono conversazioni spesso governate dall’autoindulgenza e dal senso di futilità del dibattito (se non dalla logica del ‘vivi e lasciare vivere’) pure ben illustrate in questo saggio, e da cui si esce, a seconda delle attitudini, o rassegnati a coltivare la propria (forse) raffinatissima singolarità, o vagamente motivati a riportare in auge un po’ della frizione dell’epoca mitica della poesia; a seconda del caso, temo, o troppo dentro o troppo fuori il presente. A volte mi è capitato di replicare a certi autori anche bravissimi che lamentano la facilità di accesso alla pubblicazione o la sproporzionata attenzione riservata ai più abili nel marketing: “Pensa come devono sentirsi i fotografi o i musicisti!” E’ una boutade la mia, ma comincio davvero a sospettare che quella apparente accessibilità alla scrittura data dal suo essere fatta del materiale più promiscuo in circolazione – il linguaggio – ormai sia stata superata dall’incomparabile agio con cui oggi si può usare la fotocamera del cellulare, o caricare il video di un ragazzino che strimpella su youtube (‘ché magari ti diventa Justin Bieber’).
Se le scritture poetiche forse inevitabilmente riflettono/indagano/sfidano lo spirito medio, poco colto, ‘cazzaro’, approssimativo di questo tempo, la techné che le instiga è, io credo, ben più complessa. E, tutto sommato, meno accessibile di quanto si creda. Photoshop e Sibelius – o ancora meglio: Instagram e Musically – sono incomparabilmente più potenti e ‘facili’ delle possibilità offerte da qualsiasi lit-blog.
Da qui un passo breve a quello che nell’argomentazione di Mazzoni trovo disturbante e inesatto. Attribuire così nettamente alla scolarizzazione di massa la decadenza del valore sociale e del ruolo della poesia mi sembra sbagliato su più piani: innanzitutto perché presta il fianco al doloroso, progressivo sfaldamento della scuola e dell’università pubbliche – gli argomenti degli snob e dei reazionari sono ancora quelli dell’inutilità dell’istruzione per chi deve portare la pagnotta a casa, e attribuire alle ‘masse’ la perdita di prestigio dell’umanistica quando sono le élite stesse che l’hanno abbandonata, rifiutata, soffocata, mi sembra un errore di prospettiva.
Mazzoni saprà, immagino sappia, che proprio nei corridoi delle facoltà universitarie nostrane non solo non si respira poesia nell’aere, ma, tendenzialmente, la si snobba, non offrendole né fondi, né cattedre, né settori disciplinari specifici, e – più subdolamente – infondendo sospetto per la pratica poetica (riservandola solo ad alcuni sommi defunti) e per i poeti-critici, guardati alla stregua di venditori di artigli di tigre o di inguaribili narcisi. Non ne ho certezza ma credo proprio che le pubblicazioni di poesia non abbiano alcun valore come titoli consorsuali; sicuro, invece, che parte del lavoro culturale che le riviste cartacee non hanno più voluto/potuto fare sopravviva solo grazie alle riviste on-line, croce e delizia dello studioso accademico che certo non può star dietro alla quantità di dibattito dipanantesi in milioni di rivoli, ma che non può non fare i conti con quella modalità di elaborazione (come questo blog – chiamato più o meno amabilmente ‘il blog dei professori’ – peraltro dimostra).
Che questo rumore di fondo sia assordante lo capisco – lo sento –, ma che lo si attribuisca solo alla scolarizzazione di massa lo trovo inesatto, quando la quantità di convegni accademici ipertecnici, pieni di ‘cazzate’, organizzati per promozione di immagine più che per esigenze di ricerca, e rassegnati al canone vigente (complici anche le rilevazioni bibliometriche per cui nessuno vuol più parlare dei minori per tema di non essere citato) dimostra che a far spettacolo della propria espressione di sé siano anche la classe pensante e la classe dirigente (non sempre equivalenti, temo). All’immanenza illimitata fa fronte la nicchia – ne parla De Carolis in un bel saggio del 2008 – ma se la nicchia intellettuale risponda alle logiche degli youtubers è un bel problema.
Inoltre, altro motivo per cui trovo la riflessione sulla scolarizzazione imprecisa: incolpare l’alfabetizzazione o l’accesso agli studi superiori della mediocrità vigente quando in Italia abbiamo una sparuta percentuale di laureati (il 18%, dice l’OCSE), col 36% della popolazione tra i 25 e i 64 anni in possesso della sola licenza media (questo lo dice l’ISTAT), mi fa credere che la questione sia più complessa e riguardi (Mazzoni lo accenna) le condizioni materiali, i mezzi di produzione, se non proprio il turbo-capitalismo, che hanno, sì, a che vedere con la costruzione della soggettività e con la presa di parola, certo, ma che non possiamo risolvere nella mera dicotomia tra totalità dei bei tempi andati e individualismo egocentrico contemporaneo, tantopiù se pensata come “tragedia” dell’istruzione “per tutti”. Non vorrei peccare di ottimismo ma la “tragedia” della democrazia per la cultura in fondo è anche la sua salvezza: essa ha bisogno di mediatori.
La poesia, insomma, ha nemici più grandi della scolarizzazione di massa (e forse non è un caso che abbia perso rilevanza assieme all’altro grande ‘arte’ afferente alla retorica: la politica). “Essere in tanti” (che è il titolo di una raccolta ‘preveggente’ che nel ‘68 valse il Pulitzer a George Oppen) fa la differenza, lo riconosco, ma allora perché la scrittura poetica di questi anni, a dispetto di tutto il sottobosco e il rumore bianco, tiene botta? Non sarà perché, in qualche modo sintetico e vertiginoso, come anche questo saggio dimostra, sa pensare?
Viva Eros Alesi.
“Mi dispiace, ma io so io e voi nun siete un cazzo” [cit. pop]
Ringrazio Guido Mazzoni per questo saggio molto curato e appassionato, di cui ho apprezzato in particolare l’ultimo paragrafo, “poesia e verità”, laddove, al di là del discorso sociologico, si recupera una dimensione epistemologica.
La poesia ha sempre molto da dirci, ovunque essa sia, anche in una nicchia, anche in un foglietto strappato in una tasca, anche mandata a memoria. Bisogna ascoltarla, però. Occorre cercare la sua voce, recuperare nel continuo vociare la parola che può avere un senso per noi.
Il narcisismo del nostro tempo invita sempre tutti a parlare: anche tra i miei studenti liceali sono più quelli che scrivono poesia di quelli che la leggono! E io li incoraggio a scrivere, cosa devo fare? La poesia è in apparenza la più democratica delle arti…
Ma difficile è saper leggere, saper ascoltare, saper cercare: rovistare la realtà in cerca di poesia. E soprattutto difficile è saperla riconoscere.
È necessaria un po’ di umiltà. Io ho sempre saputo di avere bisogno della poesia per vivere: quando leggo una poesia la mia vita acquista un senso ulteriore. Ho anche provato a scriverne, in giovane età, ma poi ho smesso, perché non era la mia strada; preferisco dare voce ai poeti, leggerli e farli leggere, piuttosto che scrivere io stessa versi mediocri. Ho potuto mantenere così uno sguardo che considero più puro e ormai, con gli anni e le tante letture, anche più affilato. Per questo non mi sento di concordare con l’espressione montaliana “ognuno riconosce i suoi”: io non ho “miei”, non appartengo a nessuna nicchia, leggo e amo ciò che scelgo.
Certo non è facile e forse la mia è un’illusione.
Desideravo solo dire, infine, che esiste un pubblico della poesia.
Io, per esempio
Un caro saluto a tutti
6 rilievi:
Di questo scritto rilevo con rammarico alcune lacune singolari, che da un critico attento e responsabile non mi aspetto di certo: si tratta di una ambiziosa (almeno nel titolo) ‘Storia Sociale della poesia’ in cui stranamente: 1) uno dei fenomeni più rilevanti non viene neppure lontanamente preso in considerazione: mi riferisco alla poesia dialettale…proprio negli anni Settanta la seconda ondata neo-dialettale (inaugurata da due opere fondamentali di Pasolini e di Guerra) si impose all’attenzione della filologia (Campana, Isella, Mengaldo, Rack, Stussi, Gibelini e persino quel Contini, che nonostante molte riserve, scrisse pagine uniche su Guerra e i Dialettali)) e del pubblico (Media compresi)…
2)Tra l’altro è sorprendente che pur ribadendo la centralità del Canone mengaldiano non si colga l’aspetto culturalmente e socialmente più rilevante: proprio il filologo è stato in prima linea nello sdoganamento della poesia dialettale….
3) Mazzoni porta a esempio Dario Bellezza: tutto vero e tutto ovvio: il solito repertorio di luoghi detti sull’autore di Invettive… Ciò che non si scrive del poeta romano è che la sua lingua e la sua sintassi (le sue continue eversioni linguistiche e morfosintattiche) appartengono più all’area della ricerca che ad un’area convenzionale (in cui di solito si includono i ‘poeti dell’io’ o post-lirici).
4)Altra lacuna a dir vero enorme per un approccio storicistico è l’assoluto silenzio su una annata centrale della poesia nostrana: non fosse altro che per gli esordi notevoli: il 1976. Anno in cui esordisce non solo il campione d’establishment Maurizio Cucchi, ma annata in cui esordiscono Neri, e un originalissimo romagnolo: Baffaello Baldini… é l’anno in cui Zanzotto pubblica ‘Filò’ (guarda caso, in dialetto) e la Rosselli esce con ‘Documento’….. strano atteggiamento quello di certa Accademia italiana: fino a quando si ostinerà a declassare la poesia neo-dialettale? fino a quando si ostinerà miopemente a non considerarla parte di uno stesso solco?
5) infine rilevo un elemento di fondo: l’approccio di Mazzoni non esce dalla convenzione: ossia ribadisce il già detto e ascoltato nei salotti letterari e nei corridoi dei corsi di laurea. Non esce dall’ovvio, anzi, contribuisce a erigerlo a norma e a storia.
6)Non dice ad esempio che oggi ‘Il pubblico della poesia’ è una sorta di falso storico: rieditato dagli autori con una operazione che falsifica la realtà o regesto di quel documento escludendo 4 voci della prima edizione e sostituendole con altre 4, senza alcuna chiarificazione della cosa; facendola passare così, come un ovvio dato di fatto…
E’ un saggio interessante dal versante socilogico e riscontro che “l’individuazione senza riseve” di Adorno cui parla Mazzoni sia proprio quello che da prospettive alla poesia contemporanea perchè è sempre l’innesco pronto a far deflagrare le nicchie sociali o “social” e trovo che sia in ogni caso un movimento ed un movente creativo sempre in essere nel poeta:il “suo” tramite l’attraversamento che è energia per e nel mondo.In sintesi :Il fare della poesia [ (STEREOtipo codesto del miglior Hi Fi)] poi vi sarà lo scrivere ed il dire.
Saggio bellissimo! Grazie Guido