di Gianandrea Piccioli
Nel proliferare di sagre tematiche, saloni, festival, incontri, presentazioni, dibattiti che ormai per tutto l’anno alimentano un indotto turistico-culturale pseudoprestigioso ma di scarsa sostanza e di dubbio rientro economico ci si dimentica di come è cambiata anche l’editoria in circa vent’anni. (1)
Innanzi tutto almeno fino agli anni ’80 l’editore era una persona ben individuata che governava la casa editrice quasi sempre essendone anche il proprietario (direttamente o indirettamente). Conosceva i suoi autori e loro conoscevano lui. Oggi, almeno nelle grandi case, a governare è un Consiglio di amministrazione, per lo più composto da persone che, correttamente dal loro punto di vista, trattano i libri come qualunque altra merce: libri, lampadine o biscotti non fa differenza. Si è perduta così la specificità del libro, che ovviamente è una merce, ma non completamente omologabile a un qualunque prodotto industriale: è infatti anche un oggetto particolare, che produce e trasmette cultura. E mentre gli editori di un tempo riuscivano quasi sempre a bilanciare libri di qualità con libri più commerciali (Luzi o Bertolucci con Fleming e i suoi romanzi dell’ agente 007 o la serie di Angelica, per fare esempi di un editore maestro nel mix alto/basso come era Livio Garzanti), oggi prevale la logica del bestseller che anziché l’eccezione (benefica, per carità) è diventata la norma, addirittura un genere letterario: narrativa, saggistica, poesia, varia e bestseller. (Roberto Cerati, il grande direttore commerciale, e non solo: a mio parere per molti anni anima segreta dell’Einaudi, li paragonava ad accessi febbrili nella vita di una casa editrice.) E gli autori, che sono individui particolari, spesso fragili o insicuri anche quando simulano guasconeria, non hanno più un punto di riferimento preciso: solo il direttore editoriale, che in molti casi è ormai un funzionario che sceglie i libri da pubblicare più con l’occhio al conto economico e alle tirature che al valore intrinseco di un testo. E così, spesso, se si prevede che un libro non raggiunga o non superi le 5000 copie non lo si pubblica.
Inoltre oggi sarebbe impossibile concepire e praticare il lavoro editoriale come si usava ancora sino all’ultimo decennio del secolo scorso. Non credo di essere un laudator temporis acti, ma allora l’artigianale compromissione con l’industria di cui ho appena detto non era ancora diventata totale subordinazione. Oggi il redattore (adesso si chiama editor) non è più al servizio del testo, dell’autore e del lettore, ma dell’astratta logica industriale, che a sua volta è funzione del mercato. Quindi non c’è più spazio (perché richiede tempo e il tempo costa) per far crescere i “ragazzi di bottega” nelle varie professionalità un tempo richieste in una casa editrice. Ci sono scuole di editoria, alcune anche buone; da lì escono giovani pieni di belle speranze e a loro si appaltano i lavori redazionali, naturalmente sottopagandoli. Ma viene a mancare la possibilità di crescere professionalmente nella continuità di un progetto editoriale e nella varietà delle esperienze concrete, che è cosa ben diversa dalla parcellizzazione delle incombenze.
Anche per questo vorrei ricordare Paolo De Benedetti, biblista geniale e teologo irregolare, ma anche un maestro dell’editoria d’antan, eccezionale ma non unico nel panorama di allora.
Cominciò alla Bompiani, ai tempi del Dizionario delle opere e dei personaggi, e, negli anni del Concilio, sempre in Bompiani, ideò e diresse la Collana di Studi Religiosi, pubblicando in prima traduzione italiana Resistenza e resa, cioè le lettere dal carcere, e l’Etica di Dietrich Bonhoeffer, l’ultimo libro di Karl Barth, Introduzione alla teologia evangelica, e altri testi fondamentali della miglior teologia novecentesca.
Curò anche numeri del glorioso Almanacco. Era la Bompiani di Valentino, naturalmente, ma anche di Celestino Capasso, Eco, Franco Quadri, Morando, Paci, Giampaolo Dossena…
Dalla Bompiani passò poi in Garzanti, dove, fra gli altri, erano presenti, a vario titolo, Geymonat e Andrea Bonomi, Piero Gelli e Giovanni Raboni, Attilio Bertolucci e Gianni Vattimo, Furio Jesi e Giorgio Cusatelli, Enrico Castelnuovo e Tiziano Rossi, grande redattore e già affermato poeta della cosiddetta “linea lombarda”… Qui De Benedetti fu tra i direttori dell’ Enciclopedia europea, e coordinatore dell’ultimo volume, una borgesiana Bibliografia universale di 1328 pagine, dove si fecero le ossa molti giovani destinati poi a ricoprire importanti ruoli nell’editoria o nella cultura italiane, da Antonella Tarpino ad Aurelio Mottola ad Alessandro Baricco e a numerosissimi altri. Contemporaneamente, insieme con Giampaolo Dossena e Mario Spagnol, sotto lo pseudonimo collettivo “I Wutki”, De Benedetti collaborava a “Linus”: i Wutki erano inesausti creatori di nonsense e organizzavano concorsi tra i lettori della mitica rivista, allora diretta da Oreste Del Buono per la Milano Libri di Anna Maria e Giovanni Gandini. Il nonsense, su cui De Benedetti pubblicò un fondamentale saggio in un Almanacco Bompiani, rispondeva anche al suo caratteristico modo profondo e sorridente di stabilire nessi impensabili e di creare logiche apparentemente anomale ma preziose per comprendere più a fondo la realtà, sia la più evidente sia la più nascosta. In fin dei conti anche il suo personalissimo, irripetibile e inimitabile “metodo teologico”, se così si può dire, nasceva da questa capacità di creare cortocircuiti continui, anche ribaltando le affermazioni in domande, come Socrate ma senza l’argomentazione logica e ricorrendo piuttosto alla narrazione e al commento. Una delle cose più acute scritte su di lui è un ricordo di Giusi Quarenghi costruito su una lunga serie di ringraziamenti, uno più significativo dell’altro. E in uno di questi lo si ringrazia “Per il Dio che hai messo al mondo e del quale sei il midrash“.
Ma PDB, come veniva chiamato nell’ambiente editoriale, così come Del Buono era OdB, era anche infaticabile scopritore e suggeritore di titoli, specie di cultura ebraica. Fu lui a scoprire e a far pubblicare in Garzanti i romanzi di Chaim Potok, da Danny l’eletto a La scelta di Reuven e poi via via tutti gli altri, ancora nel catalogo della casa editrice.
Inoltre lui, che si considerava pigro (ma la sua bibliografia, Fare libri, curata pazientemente da Agnese Cini, è un volume di quasi 300 pagine), moltiplicava interventi e collaborazioni: per le edizioni Paoline curò, tra le molte altre cose, anche una serie di dispense sull’Antico e Nuovo Testamento; e partecipava attivamente alle riunioni di redazione della Morcelliana, dirigendo anche la collana il “Pellicano rosso”.
Per non citare gli innumerevoli suggerimenti e consigli forniti ex abundantia cordis ad amici e colleghi. Per anni io l’ho tormentato per avere la sua opinione su mie scelte e/o perplessità editoriali e lui generosamente non si ritraeva mai. E come me tanti altri ricorrevano a lui, e certo non solo per problemi di traslitterazioni dell’ebraico… Da parte mia lo rallegravo con pettegolezzi e assurdità del mondo editoriale in trasformazione, in genere commentati da lui con uno sconsolato “oh mia mia”…
Come tanti altri, anch’io ho imparato il mestiere alla scuola di PDB. Allora le Redazioni Garzanti lavoravano soprattutto all’ Enciclopedia Europea, e io ero stato assunto alla sezione di Storia, Filosofia e Scienze Umane, diretta appunto da PDB.
L’ufficio di PDB era disadorno, come quasi tutti gli uffici della Garzanti, ma il suo era addirittura ascetico: un tavolino senza cassetti e con una lampada a braccio pieghevole, di quelle da studio grafico; un piccolo armadio metallico, grigio; tre sedie semplicissime; un tavolo d’appoggio e sgombero, per manoscritti, schede, bozze, il tutto ben ordinato.
Alla parete dietro la scrivania, attaccati con lo scotch, due fogli, tipo quelli di “Avviso ai signori condomini”. Il primo era intitolato: “Lista di proscrizione” e sotto, più in piccolo, “delle parole compromesse” (agile volumetto, esimio, mero, peraltro, fiorente, di nobile famiglia, governò con abilità ed energia ecc ecc, tutti i luoghi comuni e gli automatismi usati dagli estensori delle voci di enciclopedia, specie se accademici.) Naturalmente l’ elenco veniva di tanto in tanto aggiornato e modificato.
L’altro foglio era diviso in due colonne sinottiche di termini paralleli: la prima era intestata “Monastero”, la seconda “Convento”. E sotto ciascuna la terminologia appropriata: monaci-monache vs frati-suore; abate-abbadessa (o priore-priora) vs superiore-superiora (o padre guardiano ecc.); in occidente e in oriente vs solo in occidente; cristiani e non cristiani vs solo cristiani ecc. ecc.
Sulla parete alla sinistra della scrivania un calendario, di quelli chiamati “olandesi”, quindi aniconico. Niente tende alle finestre. Illuminazione centrale da una lampada a globo, come nelle aule scolastiche di una volta.
In questa stanza PDB, dondolandosi sulla sedia appoggiata precariamente solo sulle due gambe posteriori, con un’aria apparentemente distratta, l’occhio aperto ma come velato da una stanchezza secolare, l’espressione di chi fa meditazione zen o riflette sul nulla dell’essere, ascoltava i nostri dubbi o incertezze redazionali; poi, con un guizzo improvviso, rispondendo con una domanda alle nostre domande, ti metteva sulla strada giusta. Quasi mai, in una discussione, obiettava direttamente: smontava sempre attraverso domande, a volte apparentemente periferiche, laterali. Tutt’ al più rispondeva in forma dubbiosa. E così ti costringeva a guardare ogni problema redazionale sempre da un punto di vista diverso, come fosse un cubo che ti rigiravi nella testa. Anche questo era un modo socratico di insegnare il mestiere. Come ha scritto su “SeFeR” Gabriella Caramore, aveva la capacità di creare attorno a sé una Jeshivah, una casa di studio.
Aveva un’ intelligenza mercuriale, funambolica e spiazzante. E anche in casa editrice portava il continuo gioco tra le sue differenti anime: di poeta, di rabbi, di elfo (era quest’ ultima, credo, quella sua più segreta, che solo parzialmente si rivelava nella sovrana leggerezza del tratto intellettuale e nell’arabesco nonsensico, tutto il resto essendo indaffarato a esorcizzare, lui elfo, la pena di vivere da uomo.)
Però in quell’ ufficio spartano regnava soprattutto l’acribia del talmudista. Il lavoro redazionale diventava allora una via, un metodo, per esercitare l’arte del sospetto, abbattere gli idoli, scovare il dio (o il diavolo) nascosto nel dettaglio.
E quindi: mai fidarsi delle apparenze, verificare sempre se quanto ritratto nell’illustrazione e dichiarato nella didascalia coincide con il referente reale e con quanto scritto nel testo, controllare le date, i titoli, gli anni di edizione, le traslitterazioni da una lingua all’altra, la coerenza delle definizioni, l’ordine logico del discorso, l’equilibrio complessivo. E ancora: mai intimidirsi davanti all’ingannevole autorità del testo scritto o della presunta autorevolezza del collaboratore o dello scrittore o per l’apparente banalità della nostra obiezione. Perché la cosa importante è farsi le domande. E nemmeno procedere tranquilli quando la pagina sembra scorrere perché latet anguis in herbis. E se Trenta Tiranni è scritto con la maiuscola controllare che anche i Quattrocento siano scritti con la maiuscola là dove si parla del consiglio dei Quattrocento oppure che siano scritti entrambi con la minuscola (un collega sosteneva seriamente che bisognava maiuscolizzare solo i Trenta per consolarli di essere pochi rispetto ai quattrocento che erano già tanti). E sull’opportunità della maiuscola e della minuscola poteva aprirsi un dibattito, come pure sulla necessità o la correttezza di un segno diacritico, o l’aggiunta della “i” in “cisterciense”. Perché il dettaglio è tutto, nel dettaglio splende, o potrebbe splendere, una scintilla di verità che va salvaguardata: è in essa che eterno e caduco si incontrano.
In tal modo il compito redazionale, da attenta ma a volte anche un po’ frustrante ricerca dell’errore, dell’incoerenza, del passo oscuro da emendare, si ribaltava in una forma di pietas per i barlumi di verità che andavano onorati.
PDB era anche straordinario a trovare i collaboratori più bizzarri: esistenze marginali, figurine umbratili o macchiette eccentriche, però tutti preziosi per revisioni ingrate, traduzioni da lingue impervie, competenze in settori improbabili del sapere. Per tutti costoro PDB aveva un fiuto particolare. Non ho mai capito se erano loro a trovare lui o era lui a cercare loro. Probabilmente convergevano: come la calamita attira il ferro, così PDB attraeva tutto ciò che scarta dalla norma o dalla banalità.
Comunque sia, ricordo alla rinfusa: un esperto di teatro che campava esibendosi sui trampoli lungo le strade cittadine; due spie (non ho mai avuto le prove che lo fossero veramente, ma ne ho tuttora la certezza morale: uno era un ex-prete che viveva a Berlino ai tempi del Muro e conosceva tutto quello che bisognava conoscere sull’editoria e sull’ intelligentzia tedesca); un incaricato di glottologia che però manteneva la famiglia vendendo tappeti – li portò anche in casa editrice – mandatigli dai parenti della moglie, membri di qualche tribù nomade del Sahara libico; un traduttore da non ricordo più quale lingua asiatica sconosciuta, già oltre la mezza età, che viveva nella campagna vicentina e veniva in casa editrice sempre accompagnato da dubbie studentesse circasse o kirghise, ogni volta diverse, molto giovani, molto belle, che lui diceva di aiutare nel cursus studiorum alle serali…
Da PDB ho imparato il mestiere. E soprattutto ho imparato che quello che veramente affascina (affascinava) nel lavoro editoriale non era l’aspetto mondano, le Fiere (PDB non andò mai alla Fiera di Francoforte), tutto il circo mondano-mediatico (le presentazioni, i buffet, quelli che oggi si chiamano gli eventi: gli uffici stampa ormai sono diventati organizzatori di eventi…)
No, quello che affascina e forma nell’editoria è il suo tratto “culinario”. Un bravo redattore lavora in cucina, taglia via l’eccesso di grasso dal pezzo di carne, copre di glassa la torta per nascondere i bozzi della lievitazione, mette la cartina colorata al bonbon… assaggia, corregge, aggiunge sale… prepara il menu, lucida le posate… è un lavoro umile, “servile” secondo la puntualissima definizione di Cesare Garboli, che sporca le mani, non solo metaforicamente (almeno prima dell’era elettronica)… Ma proprio in questo è (era) la sua nobiltà. La funzione editoriale non è molto diversa da quella che George Steiner assegna alla critica letteraria: quella del portalettere. Come il critico non è l’autore del messaggio però assolve al compito fondamentale di recapitarlo al destinatario, così il redattore non è il creatore del testo, ma lo prepara e lo confeziona perché qualcuno possa fruirne.
E questa è la grande lezione artigianale per cui considero tuttora PDB mio, e non solo mio, maestro di editoria, e non solo di editoria.
(1) Considerazioni equilibrate e documentate sul tema fa Oliviero Ponte di Pino in: Sull’utilità e il danno dei festival letterari per la cultura contemporanea, in «Pretext» n.6, novembre 2017 (e in https://trovafestival.com/2017/11/14/sull’utilità-e-il-danno-dei-festival-culturali)
[Immagine: Paolo De Benedetti].