di Remo Pagnanelli
[Remo Pagnanelli, morto suicida nel 1987 a trentadue anni, è un autore di culto della poesia italiana degli anni Settanta e Ottanta. A lungo introvabili, le sue poesie sono state da poco ripubblicate da Donzelli in un volume intitolato Quasi un consuntivo (1976-1987), a cura di Daniela Marcheschi. Questi sono alcuni testi].
Che altro di strabiliante chiedevo per me,
da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente,
niente che già non si sapesse e di cui si fosse taciuto e da tanto.
Altri, della passata generazione, direbbe
che il corteggiamento riesce e
del resto chiedere pista e circuire
non è difficile; io nemmeno immaginerei
la morte senza rima come un verso libero.
*
Mia ombra mio doppio,
talvolta amico ma più spesso
straniero che mi infuria ostinato,
mio calco che nessuna malta riempie,
fantasma appena colto,
di te ho centinaia di fotogrammi
sfrenati dalle corse, trattenuti
nelle reti, mio ombrello protettivo
paratutto, già cieco già binomio d’altro,
convengo con te quel che segue.
Niente di umano scoperchia la follia.
*
la tua verde Sassonia fiera della sua illustre pazienza mi fissa e piange (ma poi la Sassonia verdeggia o non è la lingua di terra e sabbia che sbiadisce a girarla con attenzione?). I Sassoni sparirono tutti nelle buche di Carlo che li ridusse alla ragione e li ricondusse nel ventre che avevano dimenticato. Ora licheni.
*
in questa fase dell’anno tutto sanguina.
Il fiume sfinendosi non s’inazzurra più,
lo percorre un alito di schegge cenere
che espelle gli ori del tramonto.
pare impossibile, ma dalla magrezza
degli olivi tremanti, dalla magrezza
arida e esangue, fluisce non so che
polline o sudore.
*
dentro un inizio di bosco curato più di un orto il cimitero contiene novecento morti della prima guerra mondiale. Ci s’incappa per caso deviando dal sentiero segnato che conduce alla malga. Picco- lo miracolo di perfezione giardiniera che un uomo accudisce con ossessione. Uno di questi perimetri esagonali potrebbe essere il posto del riposo. Tutto sembra suggerirlo. Divisi da steccati tra- sparenti i sudditi austroungarici stanno agglomerati per etnie. So- no turchi, prigionieri russi, ebrei. Le date si riferiscono in massi- ma parte al 1916. Scontri di retroguardia. Io e mio padre pronunciamo ridendo i nomi più strani (invariabilmente turchi), elogiamo la pulizia e la democraticità geometrica cercando qualche eccitazione di sussulto o fastidio. Col chiederci chi mai erano e il sen- so delle loro vite il gioco necrofilo su cui si regge la letteratura è ben avviato. Desidero una tomba di eguale essenzialità. Solo a queste altezze la povertà ha un suono sacro e sublime insieme. Non è del tutto vero se si pensa che qui la natura ha dispiegato con ostentazione erbe aromatiche, rivoli di fiori, resine profuma- te. L’inganno è più feroce della ridicola rimozione urbana. Qui agisce il mito del sonno dolce e progressivo, della giusta fine d’una bella biografia. Invece, la musica silenziosa è una riduzione della lingua, non il suo azzeramento. La morte sta nell’elimina- zione di ogni suono e residuo linguistico. Di conseguenza non sarebbero praticabili incontri con ombre, dèi, fate, cioè alcuna consolazione da scribi. Attraverso questa porta senza referenti si può dimenticare e essere dimenticati, non possedere né essere posseduti. Addio storia, addio natura.
(cimitero di guerra)
*
per tutto il tempo boschi rossi
chissà com’è l’autunno lassù
(verdi che possono cambiarsi
in fragranti lane friabili piogge)
oh, le macchie della mente incendiate dagli incendi
macchie proprio (e capelli allo stesso modo,
dello stesso tono)
ma pare che una cenere li avvolga
cresciuti e scuri, intere foreste prima che,
(è allora che il resto dello sfolgorio s’avventa,
ci stringe)
che tristezza rotolarsi nel vento,
così in pochi, fra i pochi restati,
nelle folate delle gallerie
*
la luce più vasta è il buio,
questo già lo sapevamo,
non la più penetrante però…,
come la luna ch’è un faretto,
sul palcoscenico all’aperto.
Centra e si sposta ovunque,
al contrario non si muove
ma è dappertutto la medesima.
Detto tutto.
(Fálzes)
[Immagine: Luigi Ghirri, Suzzara (particolare)]
1 thought on “Quasi un consuntivo”