di Massimo Gezzi

[Dieci anni fa, il 19 ottobre 2007, un convegno maceratese ricordava la figura e l’opera di Remo Pagnanelli. Per l’occasione, invitato da Guido Garufi e Filippo Davoli, scrissi questo saggio. È uno scritto incompiuto, per certi versi, ma le tesi di fondo, che allora sostenevo con ardore giovanile, mi sembrano ancora sostanzialmente valide. Non l’ho rivisto né corretto, se non in misura minima. Lo ripropongo volentieri in occasione della nuova edizione Donzelli delle poesie di Pagnanelli. Il saggio ora è contenuto in questo volume].

Per un giovane appassionato di poesia e letteratura che abbia avuto la ventura-sventura di nascere nella provincia marchigiana nella seconda metà del Novecento, la figura di Remo Pagnanelli, a partire dai primissimi anni Ottanta (quando la sua maturità poetica e intellettuale inizia a culminare), costituisce davvero una sorta di stella polare, di exemplum ineludibile. Per me, che sono nato nel 1976 a pochi chilometri da Macerata ma non ho avuto la fortuna di conoscerlo, Pagnanelli è stato da subito un modello, un maestro, incontrato prima in veste di critico che in quella di poeta. Nelle sue acuminate pagine critiche, talvolta così dense da risultare criptiche, avvertivo comunque un rovello comune, una direzione di ricerca che anch’io avrei voluto percorrere, sebbene con strumenti più limitati dei suoi; nelle sue poesie, poco più tardi, sentivo una tensione etica e un’autenticità che si nutriva dei succhi più alti della tradizione per poi superarla, nei tentativi migliori, verso risultati del tutto originali e urgenti, dove l’ironia conviveva fecondamente con un atteggiamento lirico di fondo.

Nonostante la luce sinistra e luttuosa proiettata sulle opere dal termine della sua parabola umana, anche io, come Roberto Galaverni, ho sempre avvertito Pagnanelli come una figura e un poeta pienamente vitale, talvolta persino gioioso. È la stessa percezione paradossale che si ha, credo, quando si leggono le pagine di Leopardi: poeta del dolore, dell’«infinità vanità del tutto», di una solitudine disperata, eppure, come lo stesso Pagnanelli per primo notò e scrisse in un suo saggio magistrale: «I poeti marchigiani hanno sempre saputo che dagli scritti leopardiani fuoriescono una forza e un entusiasmo dirompenti, che la vita “vera” non vi è negata, che la verità è il frutto dell’impegno di investigazione etica e gnoseologica»[1]. Queste parole, a mio avviso, potrebbero essere adoperate per definire il lavoro e l’opera dello stesso Pagnanelli, e credo che lui si rendesse conto, anche all’atto di scrivere quelle righe, che proprio in quanto i poeti e gli scrittori delle Marche accolgono quella altissima lezione (o “funzione”) leopardiana, essi appartengono a una “linea” che difficilmente sarà definibile in altri termini e accetterà di esaurirsi nei confini angusti della regione.[2]

L’eredità che Pagnanelli lascia, come poeta e come critico, è assai articolata. Proverò a riassumerla con una serie di punti, delineando una sorta di breviario della memoria che attinge un po’ funambolicamente dai suoi scritti:

a) In testa alla lista pongo quella che Daniela Marcheschi ha definito «l’aspra battaglia di restituire dei significati forti alla poesia»[3]; la poesia e i ragionamenti critici di Pagnanelli intorno ai testi degli altri sono improntati a una tensione conoscitiva – o «etica-poetica» – profonda, a uno scavo in direzione del signficato:

La poesia per me è operazione archeologica, nella duplice direzione di discorso del Principio e conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o si sta perdendo, di ciò che comunque il nostro cervello antichissimo vede di continuo “riaffiorare”. Nell’esistenza catacombale che si presenta al nostro “mandato”, rifiutato dalla società del rumore, il poeta è il custode non solo del linguaggio quale patrimonio della specie e della Memoria, ma il custode di quel museo che raccoglie i reperti (per tramandarli) della Natura.[4]

In questo passaggio, in cui «Heidegger si accompagna a Jung, magari filtrato attraverso la critica archetipica di Frye, non senza un che di fortiniano nell’idea di tradizione da trasmettere per fondare il futuro»[5], Pagnanelli delinea tra l’altro la figura del poeta-custode e il suo compito di «conservazione attiva»[6], con un ossimoro anch’esso di ascendenza fortiniana: solo in quanto il poeta-custode saprà farsi anche archeologo della Natura e della Memoria, egli sarà in grado di offrire «significanza» e «portata» alla poesia del futuro. D’altronde un altro grande scrittore marchigiano, Paolo Volponi, in un convegno del 1982 sulla presenza dell’animale nell’arte scriveva che «la natura appare ormai come la tavola, la tastiera di una simulazione, i suoi elementi, le sue stagioni ridotti essenzialmente ad essere i tasti, i commuatori, gli imputs di questo piano di simulazione»[7]; e in un’altra occasione raccomandava ai poeti di restare «i ’custodi degli animali’ e un poco animali essi stessi»[8], nella medesima ottica di conservazione attiva che andrà davvero considerata, non solo stilisticamente, una cifra della poesia classicistica moderna, oltre che di buona parte di quella proveniente dalle Marche del Novecento.

b) Remo Pagnanelli sostiene che la letteratura e la scrittura, al di là dei loro esiti stilistici, non sono una finzione né una menzogna, ma una sorta di serissima contesa con l’«indicibile» e con il «nontempo»: «C’è una parte della vita e del mondo che la poesia, istituzionalmente, contende all’indicibile e consegna all’esperienza del sacro, non al religioso»[9]; la poesia scaturisce dall’«esperienza dell’altro tempo, o nontempo, comunque il tempo basilare, dell’invenzione (del ritrovamento) del Vero»[10]. Di qui il suo carattere di autenticità, di luogo in cui, serenianamente, non è possibile barare, a costo di non godere mai di una pace che spesso è soltanto frutto di «menzogna» e di «inganno»[11]. Anche la scrittura critica, secondo lui, conserva il medesimo carattere di necessità: «la scrittura è un bisogno, e solo in quanto bisogno una necessità, poi sovente diventa altro, una specie di droga di cui non si può fare a meno, o peggio autoterapia con fini di carriera; in quel punto la scrittura finisce»[12]. Critica, dunque, come «collaborazione e smascheramento»[13], militante per definizione, mai arresa alle mode, alla vacuità, a fini eterodiretti.

c) Pagnanelli fu disincantato e spietato nel voler comprendere a fondo «il gioco letterario / e la sua merce» – secondo le parole che chiudono i versi della Lettera a R. indirizzatagli post mortem dal suo amico storico Guido Garufi[14] –, nel perseguire le contraddizioni della «società borghese [che] ti lascia dire ma non fare»[15]. Così come comprese il gioco annichilente e funzionale che tanta parte dell’«adulta e furba civiltà accademica» imbastiva «dietro l’ordito perfetto delle analisi formali»[16] iperspecialistiche: la cancellazione del perché, del contestuale, dell’extraestetico, a favore di «un ricovero nello specialismo» che usava la letteratura come fine, spesso utile alla pubblicazione di «scopiazzamenti ridicoli, ma che hanno avuto il pregio indubbio di accaparrare cattedre»[17] .

d) Pagnanelli si pronunciò più volte contro i «minimali arrosti», per usare un verso epigrammatico di Fortini, che risultano dagli «immani fumi» sollevati da pratiche interpretative eccessivamente devote all’autonomia del significante. Come abbiamo ricordato la poesia, per Pagnanelli, resta un’attività limpidamente semantica: «Al di là di tutte le operazioni che tendono a svuotarla, l’essenza della poesia rimane semantica, la sua richiesta e la sua valenza quella del senso»[18]. Questa convinzione va di pari passo con l’altra, secondo cui sarebbe proprio la poesia a nascondere in sé i semi dell’unico «miracolo» possibile al mondo. Scriveva infatti un giovanissimo Pagnanelli, alle prese con l’opera dell’amato Sereni: «Se il verso non è tutto è puranche qualcosa che rinnova la nostra presenza nel mondo: questo è l’unico miracolo che ci si aspetta dall’esistenza»[19]. Questa fiducia giovanile nel miracolo laico che si annida nel verso, mi pare, verrà progressivamente meno. La poesia per Pagnanelli si rivela man a mano strumento inservibile, inerme. In una prosa del libro che uscirà postumo nel 1988, Preparativi per la villeggiatura, si legge una sorta di epifonema definitivo, in cui la fiducia nel verso si carica del fardello della colpa, se è vero che la poesia, da miracolo che era, adesso diventa niente più che un trucco, una «trovata»: «No, è finita per essi, e nessuno che non sia colpevole pensa alla trovata alla poesia»[20].

e) C’è un quinto punto che vorrei indicare, che in qualche modo ricapitola e compendia i quattro precedenti. Credo che, non solo in poesia, Remo Pagnanelli sia stato uno strenuo ricercatore del senso, un uomo profondamente attento a ciò che magari poteva avverarsi e invece è restato «nel cielo delle infinite potenzialità». Il numero monografico di «Istmi» del 1997 dedicato alla sua opera contiene uno splendido racconto intitolato Viaggio in paradiso. Si tratta probabilmente di uno dei suoi scritti più limpidamente autobiografici, in cui la distanza tra autore, narratore e personaggio pare assottigliarsi e tendere allo zero. È la storia di una notte in discoteca trascorsa assieme a un amico, storia che lo stesso narratore definisce «un abbozzo di diarietto da liceale ai primi bruciori, da italietta giolittiana aggiornata»[21], confermandone consapevolmente, dunque, il carattere autobiografico, se è vero che il diario è uno dei generi più contigui all’autobiografia. L’azione – o forse la non-azione – si svolge a notte ormai conclusa, alle quattro passate, quando la discoteca sta chiudendo e il personaggio risale in macchina per tornare a casa, a Macerata, da una città della costa adriatica. Il racconto è in realtà una dolorosa e claustrofobica divagazione mentale di un io «condannato alla solitudine perenne», che ammette e analizza la sua impossibilità ad evadere da una cella invisibile per mischiare il proprio destino individuale a quello degli altri, in un’«ontologica impossibilità di agire e mutare la storia grande e piccola»[22], con una formula usata da Daniela Marcheschi per definire l’uomo Pagnanelli. Tra l’io e il mondo, leggiamo in Viaggio in paradiso, esiste «questo muro o baluardo invalicabile, non tanto il muro della terra, ma quanto quello degli uomini e del quotidiano». Un muro assai diverso, dunque, da quelli di Fortini e Caproni cui il letteratissimo personaggio pure allude.

Questo sentimento di autoreclusione, o meglio di chiusura fuori, all’esterno, è una costante dell’immaginario di Pagnanelli, uno schema percettivo in cui l’io occupa sempre la stessa posizione di escluso. Leggiamo, per esempio, questi versi tratti da Dopo (1981):

Nell’albergo dove dove stare poche ore
stanze che intuisco buie da tempo anche di giorno,
rinnovanti gridolini d’amanti occasionali
nella bassa stagione, strette di mano, colpi a vuoto
nella notte. Ma di là sul corridoio, sulle scale
invidia per due che si rincorrono – l’eccitazione
del toccarsi, del fruscio e anche pianto
e rabbia se ti ricordi come squillava
il suo ansimare, la sua stupenda
perduta fragilità.[23]

Possono essere amanti in un alberghetto di provincia o giocatori di tennis, come in questa prosa di Preparativi per la villeggiatura: identico permane il sentimento di invidia nei confronti della capacità di non percepire alcun muro, di permettere all’alterità di zampillare in ciascuno di loro:

sei mai stato, d’inverno, negli ultimi giorni dell’anno, in un tennis dai campi vuoti, qua e là gelati o sciolti in pozzanghere, con ex giocatori che sulle panchine si motteggiano, in attesa della primavera, felpati da tute e lane fino a terra… Uno solicello basta ad accenderli dell’invidiabile voglia di correre, di stare con la gioia di gioventù non spenta ancora.[24]

Anche nel Viaggio in paradiso Pagnanelli rievoca un sentimento simile, analogo a quello della poesia da Dopo letta sopra. L’impressione di inadeguatezza comunicata dallo spazio della discoteca, dapprima pullulante di giovani con cui è impossibile stabilire un contatto, poi semideserto per la chiusura imminente, fa sovvenire al narratore-personaggio un episodio che giureremmo realmente accaduto, trattandosi di una conferenza tenuta in una piccola università:

[…] la ragazza e il ragazzo se ne stanno abbracciati e imbozzolati nel chiostro bramantesco (è una scena vera, vissuta pochi mesi fa, quando sono andato per una conferenza in una piccola università privata: quella donna molto giovane e bella mi aveva subito fissato, e annuiva a ogni mia dotta citazione, composta in esclusiva per lei; dal suo fascino mi staccavo ogni volta con dolore, quei due formavano per me il quadro perfetto della felicità e mi salutavano credendo chissà che ingegno fossi; invece, con le valigie in mano e la borsa di pelle nera ero io che mendicavo amore, loro i privilegiati, e naturalmente non se ne accorgevano).[25]

Tra sé e il «quadro perfetto della felicità», dunque, si alza sempre una barriera, quello stesso divieto imperioso di partecipare e di attingere a un bene.

Se si dovesse disegnare una sorta di topografia dell’immaginario simbolico del Pagnanelli poeta, inoltre, si capirebbe che questa barriera non poteva essere aggirata né verso l’alto, né verso il basso.
In basso Pagnanelli percepiva l’abisso, l’acqua primordiale e notturna in cui è impossibile immergersi pena la morte e la dissoluzione di sé, in una bachelardiana rêverie de la mort:

Esiste un lago che ogni notte
mi chiama e invita a immergere i piedi tra le alghe,
se poi optassi per un bagno completo,
fremerebbero di gioia tutte le canne delle sponde.[26]

E sempre nel Viaggio in paradiso di cui ci stiamo occupando, lo scenario marino opaco e appena rischiarato entro cui i due amici tornano a casa in macchina è popolato da questo ambiguo usignolo-sirena: «L’usignolo canta alto e benissimo, ma non annuncia che sé stesso, forse suggerisce di bagnarsi nell’acqua che pare pura, di sparire in una sequenza di kitz, kitz, kitz»[27].

Ma se il basso è sparizione, disintegrazione, morte, l’alto non è affatto punto di fuga che permetta uno sconfinamento, uno scavalcamento della muraglia, magari per vie trascendentali. Un verso agghiacciante della poesia Nella Wunderkammer, da Preparativi delle villeggiatura, recita: «Il cielo, il cimitero più vasto», ripreso e variato dalla prosa di Viaggio in paradiso: «La verità non aveva nome, coincideva con il colore indelebile di tutte le cose, con la più estesa nuvola del niente»[28]. Né dall’alto si vede meglio, come ben sa lo Zaccheo degli Epigrammi dell’inconsistenza, salito sul sicomoro «per vedere il Signore se mai passi» e costretto a inventarsi una messa in scena («accenna il suo avvicinarsi sulla strada, / alza polvere, farnetica, prendi tempo»[29]) per non dover ammettere che sulla strada, invece, sta avanzando solo il nulla.

Anche l’emblema aereo e leopardiano per eccellenza, la luna, nella poesia di Pagnanelli perde fascino e corpo. Con una rozza semplificazione potremmo dire che Leopardi, pur nel dolore e nella consapevolezza della materialità dell’esistenza, è il poeta che riesce ad apostrofare e a interpellare, in sede forte di incipit, sia la luna («Che fai tu, luna, in ciel», Canto notturno) che le stelle («Vaghe stelle dell’orsa», Le ricordanze). In Pagnanelli quel satellite così carico di risonanze letterarie diventa incredibilmente qualcosa di artificiale, di posticcio: un faretto, per esempio, o una superficie riflettente. Preparativi per la villeggiatura evoca la luna nella prima e nell’ultima poesia, con un richiamo circolare che sarà difficile considerare casuale: «le lacche, le lune dei corridoi / si ricordano dei nostri sguardi / stanchi e si guardano nell’imitarli»[30] (Musica da camera, prima poesia); e: «la luce più vasta è il buio, / questo già lo sapevamo, / non la più penetrante, però…, / come la luna ch’è un faretto, / sul palcoscenico all’aperto»[31] (ultimo testo anepigrafo, corsivo mio). Un’immagine analoga, poi, la ritroviamo in Viaggio in paradiso, che andrà davvero considerato come una sorta di compendio dei motivi più nascosti e urgenti della scrittura di Pagnanelli: «fra un miscuglio ibrido e viscido di foglie già fradicie e fumi, tramontava l’enorme astro rosso della luna ora bassa, non più guida, ma faro spento davanti a me» (corsivo mio)[32].

Da cosa dipese questa impossibilità di condividere e di aggirare il monologo, noi non possiamo saperlo. Non sappiamo nominare quell’«orribile segreto e il muto terrore / che non entra nelle parole»[33] cui allude una poesia del Pagnanelli ventenne; né possiamo ipotizzare una ragione certa per cui quei muri non si aprirono al soffio vivificante del «vento che fa i miracoli»[34], che pure in un testo di Dopo, ossia Tentativo (fallito) di aggirare con te il monologo, sembrava potersi improvvisamente levare a scardinare la clausura: «finché non si torna / malgrado tutto e la stanza e il posto non possono / essere aggirati ancora. In quel punto / entra il vento»[35].

Eppure, secondo un critico da sempre attento al poeta di Macerata come Roberto Galaverni, le pagine di Pagnanelli – e riprendiamo così l’inizio del discorso – trasmettono un «sentimento di gioia per la presenza della poesia, un’alacrità euforica per il poterla al fine sempre amare e ritrovare»[36]. Si direbbe allora che davvero la poesia, in lui, abbia pienamente e letteralmente funzionato «come testimonianza e martyrion (testimonianza e sacrificio)»[37], come modo integrale per consegnare a tutti i costi al lettore (a noi tutti) quel barlume di autenticità che aveva ben visto, nonostante ciò che afferma con dolore il personaggio di Viaggio in paradiso, ormai alle porte della città: «Certo ero sicuro di non aver toccato minimamente qualcosa d’autentico, nemmeno d’averlo sfiorato con l’intuizione metaforica. Ma nulla era possibile, salvo minimi atti terapeutici»[38].

Avevo introdotto l’ultimo punto di questo breve intervento sostenendo che esso in qualche modo avrebbe ricapitolato e compendiato i quattro precedenti, ognuno dei quali ha tentato di individuare un seme dell’eredità lasciata da Remo, da accudire e far attecchire. Ecco, vediamo: Viaggio in paradiso si conclude con un post scriptum. È una specie di risposta alle obiezioni che l’amico non mancherà di sollevare quando leggerà il racconto, quasi vi avvertisse una sorta di tradimento della verità autobiografica e storica comune: «Dove sta la vita brulicante e caotica di questi anni che i poteri hanno resi tragici? Tu dov’eri, giacché risulta chiaro che il personaggio di questo raccontino sei proprio tu? (…) Questa è solo letteratura»[39]. La risposta dell’autore-narratore (ormai non più personaggio), che allude di nuovo a un grumo innominabile come quello dell’Epigramma citato poco sopra, è una specie di consegna o di preghiera finale all’amico-lettore: «Forse, se ascolti bene, c’è l’eco di qualcosa che è accaduto prima e che, non per imitazione, lo ripeto, è innominabile. Altro non esiste e se doveva esserci è restato nel cielo delle infinite possibilità. Cercale anche per me». È un appello, questo, che tracima facilmente fuori dalla pagina e dalla finzione narrativa per raggiungere ogni lettore. Ed è un appello che compendia in pochissime parole, a veder bene, tutta la lezione e l’eredità di Pagnanelli: conservare ciò che andrebbe perduto, non accontentarsi mai del già dato. Ma soprattutto continuare la ricerca, nella letteratura e nella vita, non appagarsi di comode salvezze individuali che magari confinano con la menzogna e con l’inganno. Ricordare e mettere a frutto questa sua integrale tensione «etica-poetica», io credo, sarebbe davvero un modo di essere e di agire anche per lui, di attestare cioè che dal suo pensiero e dalle sue pagine non ha mai smesso di spirare quel vento stimolante che dovette infrangersi, per l’uomo Pagnanelli, contro «il muro […] degli uomini e del quotidiano».

[1] R. Pagnanelli, Leopardi e la recente poesia marchigiana: la nozione di Natura, in «Hortus», 2, I (1987), pp. 7-17, ora in Studi critici, a cura di D. Marcheschi, Milano, Mursia 1991, pp. 199-213. Si cita da p. 205.

[2] Pagnanelli centrò la questione quando scrisse che «la formula di Carlo Bo (Leopardi come “simbolo interiore”) è proponibile solo se ne accogliamo il logoramento e la sfocatura, solo se ci accorgiamo che è inevitabile, per un poeta novecentesco, non dirsi leopardiano» (Ivi, p. 211).

[3] D. Marcheschi, Introduzione a R. Pagnanelli, Studi critici cit., p. 9.

[4] R. Pagnanelli, Punti per un’improbabile etica-poetica, «La Collina», 8, 1967, poi in Annuncio a azione. L’opera di Remo Pagnanelli, numero monografico di «Istmi», 1-2, 1997 [d’ora in poi solo «Istmi»], pp. 64-66: 65.

[5] P. Zublena, Il senso dell’inverno. Pagnanelli e la poesia italiana del secondo Novecento, in «Istmi» cit., pp. 130-151: 134.

[6] La formula è coniata da Pagnanelli nel saggio su Leopardi e la recente poesia marchigiana cit., p. 211.

[7] Intervento citato da S. Ritrovato, La difficile eredità del conflitto: la lirica come “conflitto”, in D. Marchi-S. Ritrovato (a cura di), Pianeta Volponi. Saggi interventi testimonianze, Metauro, Pesaro 2007, pp. 123-134:132.

[8] P. Volponi, Scritti dal margine, Manni, Lecce 1994, p. 111.

[9] R. Pagnanelli, L’altra scena: «Lavori in corso» di Sereni, in Studi critici cit., pp. 56-66: 66.

[10] Id., La memoria organizzata, in «Hortus», estate 1988, ora in «Istmi» cit., pp. 197-199: 199. Sul rapporto della poesia con il sacro in Pagnanelli cfr. P. Zublema, Il senso dell’inverno cit., pp. 134-135.

[11] Cfr. la lettera a Daniela Marcheschi inviata il giorno prima del suicidio, leggibile in «Kamen’», 4/1993, p. 100.

[12] Lettera a Daniela Marcheschi del 16 aprile 1985, ivi, p. 99.

[13] Cfr. D. Marcheschi, Introduzione cit., p. 9.

[14] Cfr. «Istmi» cit., p. 217.

[15] R. Pagnanelli, La memoria organizzata cit., p. 198.

[16] Ibid.

[17] Id., Questioni preliminari, in «Istmi» cit., pp. 152-155.

[18] Id., La poesia «verso» l’immagine: note per un «supergenere» nell’arte (le «Cesane» di Umberto Piersanti), in AA.VV., Cinema e poesia negli anni ’80, Cappelli, Bologna 1985, pp. 149-154, ora in Scritti critici cit., pp. 230-233: 230.

[19] Id., La ripetizione dell’esistere, Scheiwiller, Milano 1980, p. 210.

[20] Id., Preparativi per la villeggiatura, Amadeus, Montebelluna 1988.

[21] Id., Viaggio in paradiso, in «Istmi» cit., pp. 89-94.

[22] D. Marcheschi, La resa della memoria, in «Istmi» cit., pp. 171-173: 173.

[23] R. Pagnanelli, [Nell’albergo dove devo stare poche ore], in Le poesie, a cura di D. Marcheschi, il lavoro editoriale, Ancona 2000, p. 66.

[24] Ivi, p. 248.

[25] Id., Viaggio in paradiso cit., p. 92.

[26] Id., poesia inedita apparsa su «Istmi» cit., p. 63. Vedi anche l’immagine dell’«antico adriatico, pozza artica o gelata» che «afferma di volermi per popolare le acque / d’una diversa qualità di luccio», in un testo di Preparativi per la villeggiatura (Le poesie cit., p. 285). Sulle valenze simboliche assunte dall’acqua nell’opera di Pagnanelli cfr. R. Caddeo, Le acque, i sogni, l’inconscio e gli archetipi nella poesia di Remo Pagnanelli, in «Kamen’»cit., pp. 57-84.

[27] Id.,, Viaggio in paradiso cit., p. 91.

[28] Ivi, p. 93.

[29] Id., Le poesie cit., p. 38.

[30] Ivi, p. 235.

[31] Ivi, p. 325.

[32] Id., Viaggio in paradiso cit., p. 92.

[33] Id., [Stasera mi sembra lontano], in Le poesie cit., p. 48. Il testo appartiene a Epigrammi dell’inconsistenza.

[34] Così si conclude, splendidamente, uno degli Epigrammi dell’inconsistenza: «Il vento invece, il vento che fa i miracoli, / dissennato e un po’ deluso, / mia consolazione, pullulante / instabile eterno…» (Ivi., p. 49).

[35] Ivi, p. 71. Anche uno dei testi più celebri di Preparativi per la villeggiatura istituisce un legame simbolico tra salvezza (qui direttamente «Dio») e spirare del vento (in questo caso «alito»): «nel mare allora andando in un’oscurità maggiore / sogna l’alito di Dio e vedine la chiarità che salva» (Ivi, p. 254).

[36] R. Galaverni, Per un’immagine di Remo Pagnanelli, in Dopo la poesia, Fazi, Roma 2002, p. 216.

[37] R. Pagnanelli, Punti per una improbabile etica-poetica, in «Istmi» cit., pp. 64-69: 66.

[38] Id., Viaggio in paradiso cit., p. 93.

[39] Ibid.

 

[Immagine: Luigi Ghirri, Kodachrome 12].

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