di Italo Testa

[Questo intervento è una replica a Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia di Guido Mazzoni, uscito la settimana scorsa su LPLC]

Non si può guardare con indifferenza al saggio di Guido Mazzoni, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia, e a quanto di esso ci riguarda. Prima facie il disincantato realismo della diagnosi farebbe pensare a un atteggiamento di rassegnata accettazione, di presa d’atto di un mutamento epocale irreversibile per cui

a partire dagli anni Settanta la poesia italiana ha progressivamente perduto il legame con gli imperativi etici ed estetici che unificavano la discussione sulla letteratura e la percezione dei testi nei decenni precedenti. Sono scomparsi o tendono a scomparire i negoziati fra ministri degli esteri di Stati avversari, la coesistenza diventa pacifica, non si sente più il bisogno di discutere, si accetta l’eterogeneità senza guerreggiare.

Eppure, già il vigore e l’ampiezza dell’affresco, la sua pretesa comprensiva, sembrano tutt’altro che rinunciatari nelle loro premesse, mettendo in gioco, a tutto campo, una “idea della letteratura e della realtà”. Di qui una tensione profonda, non pacificata, sembra soggiacere a questo saggio, che in certo modo può essere avvertito come un appello estremo, un richiamo obliquo all’avvertimento di Brecht, più volte richiamato nel saggio in forma esplicita e implicita, per cui “la letteratura verrà esaminata”. Forse “l’obbligo di discutere” avrà perso il mandato sociale da cui era sostenuto nella precedente società letteraria. Ma non c’è alcuna ragione per ritenere che il “bisogno di discutere” non ci riguardi più, e non possa investire anche oggi le scelte etiche, i criteri di giudizio, i modelli teorici. Questo semplicemente non discende, e non può discendere dalla storia sociale della poesia. In qualunque direzione quest’ultima vada, ciò non potrà mai valere come esenzione o come discolpa per ciò che non avremo fatto. Qualunque siano le condizioni sociali della poesia contemporanea, saremo esaminati per il contributo individuale che avremo provato individualmente a dare alla discussione. Per questo credo sia importante reagire allo scritto di Mazzoni uscendo allo scoperto, accogliendone la sfida sottesa – come mi auguro che anche altri vogliano fare, ché per riprendere a dialogare occorre mettersi in gioco e ricostruire un contesto – ma anche chiedendo conto di alcuni assunti teorici da cui muove, della compatibilità tra la ricostruzione offerta della storia sociale della poesia italiana contemporanea e lo statuto conoscitivo attribuito alla poesia nella parte finale del testo.

La parte più rilevante del saggio, o che per me è più importante discutere, è costituita dall’ultimo paragrafo, Poesia e verità, e dal rapporto problematico che esso istituisce con il resto del discorso. Perché è come se vi fosse salto tra questa chiusura e l’ampia diagnosi epocale che la precede. Su questo vale la pena soffermarsi, perché qui sembra essere in gioco qualcosa di importante.

Dunque, vi sarebbe una “verità” della poesia, per quanto “residua”. E questa verità avrebbe a che fare con l’idea che i testi poetici, esprimendo una condizione di separatezza interiore radicale, rispecchierebbero aspetti fondamentali della vita sociale contemporanea: il suo radicale soggettivismo – “la separatezza interiore dei singoli dal gruppo, da ogni gruppo” – e la sua frammentazione – la segregazione dei gruppi in quanto nicchie, senza che vi sia alcun medio universale a far da collante, se non un mainstream fatto per lo più di banalità (e spesso di bullshit, di “cazzate”).

Ma come è possibile questo discorso sulla verità della poesia? Da quale punto di vista è espresso? E che contenuto esprime?

Se vi fossero solo nicchie sociali e discorsive di tipo autoreferenziale, come in diversi punti Mazzoni sembra affermare – “ognuno riconosce i suoi”, secondo l’amaro adagio di Montale che suggella il saggio – allora anche la poesia non potrebbe esprimere alcuna verità, sarebbe solo una nicchia tra le tante, come tutte. Se invece c’è una verità della poesia, ed è quella di cui si parla qui – una verità del proprio tempo – allora le cose non possono stare così, e questo discorso presuppone che vi sia un punto di vista più comprensivo: un discorso privilegiato, una nicchia che possa esprimere l’intero, rappresentata da alcuni poeti come una sorta di ceto universale. O perlomeno, in forma più sobria, presuppone che vi sia una comunicazione tra le nicchie, un gioco di riflessi, qualcosa che circola trasversalmente e che non si lascia ridurre a mero riflesso monadico.

In gioco non c’è però soltanto la forma logica del discorso, ma anche il suo contenuto di verità. Che’ questa verità della poesia avrebbe un contenuto oggettivo. Secondo la diagnosi, si tratterebbe della verità del soggettivismo espressivo: essa manifesterebbe in forma pura il modo in cui il nostro mondo sociale è oggettivamente strutturato, il soggettivismo radicale quale “condizione contemporanea”.

Ma com’è possibile affermare che la poesia esprima una verità oggettiva del genere se essa rappresenta solo una nicchia? In questo senso sembra esserci un non sequitur tra l’ultimo paragrafo e ciò che lo precede. O perlomeno si entra qui in un altro ordine di discorso, che non può essere giustificato dal discorso sviluppato prima. In effetti, nel saggio si propone una penetrante “storia sociale della poesia italiana contemporanea”, che descrive il processo di marginalizzazione della poesia nel discorso pubblico italiano, l’implosione del suo campo e la sua riduzione a nicchia tribale. Una diagnosi che s’inserisce nel quadro più ampio già tracciato in Sulla poesia moderna a proposito della marginalizzazione della poesia nel sistema letterario e sociale contemporaneo.

Però questo discorso impostato in termini di sociologia, o meglio storia sociale della letteratura, chiaramente non può dare fondamento all’ultimo paragrafo, vale a dire al discorso sulla verità oggettiva della soggettività della poesia. In questo senso ci sono due ordini di discorso in questo scritto, e più in generale nella posizione di Guido Mazzoni. Il primo corrisponde a una storia sociale che descrive la perdita di centralità della poesia e la sua riduzione a nicchia marginale. Il secondo è invece un altro tipo di discorso, con un differente statuto epistemologico, che afferma che questa nicchia è universale e rimane tale nonostante la sua reductio sociale: una forma universale dello spirito – per usare una formula enfatica ma in verità piuttosto vicina alla posizione espressa nel saggio – che esprimerebbe la soggettività quale verità oggettiva del nostro tempo. Ma questo secondo ordine di discorso non può essere fondato dal primo, o in altri termini si fonda su assunti teorici che non possono essere giustificati a partire dalla diagnosi epocale sulla storia sociale della poesia. Questo mi sembra essere il nodo problematico principale del saggio, che in un certo modo rende instabile l’apparato concettuale messo in opera, ma in un certo senso lo apre a significazioni ulteriori e potrebbe sottrarlo alla presa del determinismo storicista.

Certo, si potrebbe dire che non è il Guido Mazzoni poeta ma il Guido Mazzoni teorico della letteratura ad affermare che questa nicchia discorsiva – la poesia contemporanea (o il ceto universale dei poeti qualificati) è una forma universale dello spirito (universale non perché eterna, ma perché la sua forma esprimerebbe la condizione sociale oggettiva di una certa epoca). Ma questo sarebbe un altro modo di reiterare la questione. Se vi è un solo ordine di discorso teorico, allora questo tipo di affermazione può entrare in contraddizione con altre posizioni teoriche di Guido Mazzoni; oppure si colloca su di un altro ordine di discorso (che si tratti del discorso del poeta o del filosofo della letteratura). Ma quale?

Un’altra angolatura da cui inquadrare la questione di cui sto parlando riguarda il problema della totalità, per riprendere una categoria che ha giocato un ruolo chiave nei dibattiti della teoria letteraria e sociale del novecento e definito al loro interno campi contrapposti. Per un verso Mazzoni ci parla di una condizione contemporanea la cui unica oggettività sarebbe costituita da frammenti – frammenti discorsivi, nicchie, monadi separate – che galleggiano in un mare generico di banalità. Ma per altro verso offre una diagnosi di questa epoca come di un tutto, una totalità conchiusa, vista per così dire dall’alto, da un punto di vista panoramico. Proponi cioè un discorso sulla totalità, sulla vita sociale come intero. Ma come possiamo articolare una discorso sulla totalità sociale se ci sono solo nicchie che galleggiano in un fluido di mainstream banale? Perché allora o questo discorso è condotto dal punto di vita del mainstream – con una battuta, la poesia come sapere assoluto delle cazzate contemporanee… ma non è questo senz’altro il caso – oppure dal punto di vista di una nicchia che tuttavia intercetta qualcosa di più ampio, entra in circolo in modo non banale con il fluido, con il medio infranto, ci fa vedere che c’è qualcosa d’altro nel nostro tempo e nelle nostre vite.

Totalità e frammenti era il titolo di lavoro annunciato qualche anno fa su Le parole e le cose per il secondo libro di poesie di Mazzoni, poi divenuto La pura superficie. E in effetti, quel titolo lucidamente inquadrava una questione che ha a che fare con la riflessione dell’autore. Quest’ultima presuppone quale sua condizione di possibilità un accesso alla totalità, da parte del teorico, del poeta, o del soggetto empirico Guido Mazzoni. Il punto è però d che, se ci sono solo nicchie autoreferenziali, e il medio è solo un mare banale, allora quest’accesso alla totalità non dovrebbe essere possibile, oppure sarebbe solo un truismo. Se invece tale accesso alla totalità è possibile, e significativo, allora credo che ciò comporti, a livello teorico, una revisione della diagnosi, e in particolar modo della descrizione dello statuto della soggettività, di questi frammenti e nicchie, e delle loro relazioni.

Certo, in alcuni punti del saggio si usa direttamente e indirettamente la formula della “dialettica senza sintesi”. E questo potrebbe essere un riconoscimento del fatto che, sì, c’è un punto di vista della totalità all’opera, ma questo non si sintetizza infine con i frammenti. Totalità e frammenti. Però a mio avviso ciò non risolve il problema: che non è costituito dall’assenza di sintesi tra parte e tutto, individuale e universale, ma dall’assenza di dialettica, o perlomeno di apertura, di quel grado di indeterminazione che lascia aperta almeno una porta, per quanto piccola. A ben vedere, che la vita moderna sia frammentata, e che questa frammentazione non sia oltrepassabile, perché avrebbe a che fare con aspetti necessari della complessità sociale (organizzazione burocratica, molteplicità degli interessi individuali nella società civile, pluralità delle sfere etiche, specializzazione disciplinare dei saperi, privatizzazione della vita morale) non è in effetti una novità recente, ma è una osservazione che può essere retrodatata di almeno cento, centocinquant’anni (in fondo già fatta propria dallo stesso Hegel, per il quale appunto nella storia, al livello dello spirito oggettivo e del suo sviluppo nella modernità, non c’è sintesi finale che possa eliminarne il carattere di scissione, frammentazione, e finitezza). E ‘dialettica senza sintesi’ è un po’ la formula che esprime l’eredità di molto pensiero critico del Novecento. Ma l’assenza di sintesi non preclude il fatto – ma anzi ha in esso la sua condizione di possibilità – che vi sia qualcosa che si rinfrange da un ambito all’altro, circolando tra i diversi rami del sapere e della vita comune, tra le diverse sfere della differenziazione sociale. Affermare il punto di vista della totalità, anche senza sintesi, è già ammettere una più ampia circolazione, fluidificazione dei punti di vista, magari inintenzionale e proliferante, opaca, ma pur sempre tale. La mia impressione è invece che la descrizione offerta qui e ne I destini generali tenda a volte ad una statica sociale, ad una fotografia cristallizzante, che coglie molti nodi del paesaggio contemporaneo, ma per così dire li reifica. In questo senso è come se la condizione contemporanea finisse per risultare fin troppo trasparente nella sua cristallizzazione narcisistica, nella sua pura opacità di superficie senza scampo, totalmente trasparente al pensiero e chiusa a ogni possibile trasformazione.

Prendiamo, come test, due immagini emblematiche che emergono nel finale del saggio: il motto montaliano per cui “ognuno riconosce i suoi”; e il motivo adorniano dell’”individuazione senza riserve”. Il saggio di Mazzoni si chiude con queste parole disincantate:

All’interno come all’esterno, nella sua lotta per bande e nella sua chiusura dentro la nicchia, la cosa chela cosa che oggi chiamiamo poesia sembra illustrare uno dei versi di Montale più belli e più terribili: «ognuno riconosce i suoi». Quel verso è anche una delle migliori sintesi della vita sociale moderna, e forse della vita sociale tout court. Anche solo per questo la poesia contemporanea ha molto da dire.

La formula “ognuno riconosce i suoi” potrebbe forse esprimere alcuni aspetti delle società arcaiche e premoderne. Ma anche in questo caso ne coglierebbe solo un aspetto parziale, senza registrare le controspinte profonde cui questa dinamica va soggetta, tanto più nella modernità, il cui progetto nasce e cade con l’idea che quella formula possa rivelarsi un giorno falsa. Spesso si manifesta, magari per ritorno del rimosso, una tendenza per cui “ognuno riconosce solo i suoi”, eppure nessuno è appagato solo da riconoscimento ottenuto dalla sua parte, ma ne conosce segretamente la miseria e pretende anche il riconoscimento degli altri. C’è qui una frizione, o tensione, o contraddizione, che continuamente, e in diversi ambiti, s’innesca, e che fa sì che le identità di queste nicchie, tribù, sfere sociali e comunità non siano mai del tutto stabili e concluse, ma siano attraversate da conflitti, alternando momenti di universalizzazione e isolamento, chiusure tribali e aperture universalistiche. E questa lotta travalica le intenzioni dei singoli, rende instabili, dall’interno, le loro prese di posizioni particolaristiche, le fa comunicare secondo modalità imprevedibili e che solo a posteriori potremo semmai scoprire. E’ in ogni caso un processo che non può essere aggiudicato una volta per tutte. Penso che questo sia vero anche della nicchia poesia, delle sue dinamiche interne, e del suo rapporto con le altre sfere sociali e di espressione: e che sia una delle ragioni per cui quest’ultima, a volte, può esprimere una qualche verità che la travalica. La lotta tra bande, la chiusura nella nicchia, e la deriva narcisistica della soggettività fanno certo parte della descrizione della storia sociale del nostro campo letterario. Ma se la poesia contemporanea ha qualcosa da dire, è perché non solo questo è in gioco. Qualcosa manca in quella descrizione: ciò che la rende possibile, che rende possibile la stessa descrizione di quel fenomeno. Ciò che Mazzoni deve infine evocare nell’ultimo paragrafo del suo saggio.

Quanto all’“individuazione senza riserve”, sono anch’io molto legato a questa formula di Adorno. Però l’individuazione senza riserve non è una descrizione fattuale del mondo monadico del capitalismo liberale e neoliberale, di una soggettività pietrificata e di una totalità data e conchiusa. Ma è insieme un’immagine utopica di ciò che potrebbe essere un processo di individuazione se l’individuo non crescesse chiuso in una bolla. L’immagine dell’individuazione senza riserve non è una fotografia della gabbia d’acciaio del narcisismo. (E il narcisismo di massa è solo una descrizione parziale, e forse non del tutto adeguata, delle dimensioni di tale soggettività). La separatezza radicale che la poesia, lirica e non lirica, può esprimere, non vale in quanto rispecchiamento di una condizione data, ma piuttosto quale allegoria, immagine rovesciata di un’altra vita.

 

[Immagine: cinema vuoto]

 

10 thoughts on “L’altra verità della poesia contemporanea

  1. Veramente molto bello. Il pezzo e il dialogo. Ai miei occhi, la qualità (intellettuale e umana) di questa conversazione è la migliore, e probabilmente l’unica, prova possibile del fatto che, anche se ci sono molti buoni motivi per disperare, in realtà non sono mai abbastanza.

  2. “La separatezza radicale che la poesia, lirica e non lirica, può esprimere, non vale in quanto rispecchiamento di una condizione data, ma piuttosto quale allegoria, immagine rovesciata di un’altra vita”.

    Sembra necessario, dopo aver letto il saggio di Guido Mazzoni “Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia” (http://www.leparoleelecose.it/?p=30321#_ftnref62), partire da questa conclusione di Italo Testa che risponde e sicuramente definisce le questioni capitali emerse, non solo per chi scrive e si occupa di poesia.
    Per cominciare ad orientarsi mi sembra necessario constatare il ribaltamento di matrice illuministica (e aggiungerei leopardiana da “magnifiche sorti e progressive”per intenderci) della centralità del soggetto romantica, riassumibile in termini quanto si vuole generici, nell’impostazione ironica e autoironica crepuscolare (e neocrepuscolare principalmente in Montale, come strascico e ultima sferzata romantica). Ma l’epoca “altra” (come “l’altra vita” di Testa sembra suggerire) non può riproporsi come sintesi dialettica – o sottofondo hegeliano – quanto invece come tappa di un percorso “saturato” dal suo stesso disincanto.
    Da un punto di vista sociale la disillusione ideologica e la corrispettiva fine (?) delle grandi teorie, sembra condurre dalla frammentazione (i focolai di “terrore”) al Terrore come concetto ultragenerico in funzione di un’ulteriore etichettatura ideologica. Ecco, forse occorrerebbe riflettere sull’immagine rovesciata di cui parla Testa per rendersi conto di una non necessarietà del “concetto” di fuoriuscita. L’immagine ribaltata fuoriesce dall’idealizzazione liberal-capitalistica che non vuole cedere terreno alle chiusure “regionali” plausibili (e in alcuni casi effettive) di sempre più autonome realtà economiche (che superano i confini statali almeno nel contesto europeo). La propaganda del Terrore, allora, sarebbe l’ultimo baluardo di resistenza del sistema liberale (strategia “narcisistica” che gioca sull’invidia di zone arretrate o sfruttabili il gioco perverso dell’esclusione per realizzare l’ultima inclusione nel circolo vizioso del controllo e della trasparenza – vedi Byung-Chul Han, ecc.). D’altro canto i movimenti di chiusura – derivanti dalla frammentazione che è la normale conseguenza del disincanto ideologico secondonovecentesco – preannunciano scenari tutt’altro che comici.
    Il senso del tragico – finito apparentemente con Montale e Pasolini, almeno a detta di Mazzoni, in maniera asimmetrica ma complementare – riappare in maniera pressante (per quanto spettrale e umbratile considerata l’influenza immaginifica degli strumenti da cui si diffonde che sono i nuovi media e i social, cioè strumenti di falsificazione totale dei dati di esperienza) nella sua stessa astrazione. Non è semplicemente la scelta delle “tenebre” al posto della “luce” di leopardiana memoria, ma una necessità di trasformazione comunque immaginifica del contesto (anche perché proprio gli strumenti di falsificazione hanno mutato il paesaggio relazionale e le possibilità di ibridazione segnica derivanti non fanno che indirizzare a mutazioni incontrollate della soggettività). Bisognerebbe riconoscere la mutazione perpetua in modo definitivo per eliminare il pregiudizio di possibili derive totalitarie, visto che ad essere totale è la scomparsa dell’attore sociale, dell’individuo fisso che ribalta e, perciò stesso, riposiziona sul campo un ruolo. La necessità vera concerne non la plausibilità del nuovo ruolo quanto la capacità di aderenza del soggetto allo stesso ruolo, questa la scelta che resta in definitiva. In buona sostanza il soggetto (quel soggetto “estraibile” dal “Romanticismo lirico” descritto da Mazzoni in “Sulla poesia moderna”) che vive in una nuova dimensione astratta (dai social ai kamikaze), anche quello della poesia, deve confrontarsi con nuove ombre, con altre forme di “irriconoscenza”. Non si tratta di trovare alcun “equilibrio riformistico” con tradizione, mondo, vita, ecc., quanto di “annullare” lo sforzo da equilibrista per compiere il salto a una nuova percezione. Caduta l’ideologia del “comune”, la comunità a venire sembra riformularsi dai frammenti della stessa caduta e da un’azione non azione che sembra ben attagliarsi all’etica del privato che sembra restare quale unico appiglio morale nel mondo occidentale (vedi Agamben e il “bartlebiano” “preferirei di no”).
    L’utopia di cui parla Testa nel suo intervento non partirebbe, allora, da uno sciatto minimalismo, ma dalla creazione soggettiva di un’altra vita – per quanto minima e ridotta nel nostro essere comuni e in comune – rovesciata nel disincanto. Sarebbe questo stesso disincanto a condurre verso una nuova astrazione, uno slancio costante e immaginifico. Dalla separazione monadica espressa dal disincanto al principio di nuove comunità minime (tribali se si vuole, o organizzate secondo economie semplificate: la chiusura che s’intravede in nuove strutture come il GECT, cui si accennava in modo veloce precedentemente).
    C’è del romantico in fondo nel riconoscere la “banalità del male” e allo stesso tempo sentire un forte disagio d’appartenenza in un mondo che ruota nella ripetitività del consumo (nichilismo reale, ecc.). L’impasse è superabile, non in una sintesi dialettica dicevamo, quanto nella scomparsa del e dal totale di quell’individuo monadico che è tappa finale e infimo inizio di un percorso (fine di un mondo di ideologie comunitarie e inizio di un altro fatto di relazioni private, fluide ma non per questo inesistenti).
    Per uscire dalla ripetizione occorre percorrere il cammino del possibile abbandono (nel senso di bando e banale così caro al Nancy di “La città lontana”) o dell’ingenuità a-sistematica (che ad esempio contraddistingue l’atteggiamento di rifiuto del moderno di un Ruskin rispetto a Marx e al suo sforzo retrospettivamente fallimentare di rendere accessibile su un piano statale l’esigenza “comunitaria” del primo Romanticismo e che già Lukács aveva avvertito come un blocco) che consente l’oscillazione e l’ibridazione necessaria a percepire l’esigenza del nuovo che tocca e aderisce all’immagine: “La vera immagine del passato passa di sfuggita”, seguendo Benjamin, il che ci dice della proiezione di questo passato nei tempi lunghi di un altro futuro.

  3. Grazie Italo di avermi segnalato questo tuo saggio. Non ho ancora letto questo che citi di Guido Mazzoni. Un paio di cose vorrei pero’ dirle subito, in risposta a quanto tu scrivi.

    “Per questo credo sia importante reagire allo scritto di Mazzoni uscendo allo scoperto, accogliendone la sfida sottesa – come mi auguro che anche altri vogliano fare, ché per riprendere a dialogare occorre mettersi in gioco e ricostruire un contesto – ma anche chiedendo conto di alcuni assunti teorici da cui muove, della compatibilità tra la ricostruzione offerta della storia sociale della poesia italiana contemporanea e lo statuto conoscitivo attribuito alla poesia nella parte finale del testo.”
    Allo scoperto ci siamo in tanti, e da molti anni. Esistono luoghi e occasioni molteplici in cui si sono affrontati i temi che sono sollevati in questo tuo pezzo, e in quello di Guido Mazzoni. E’ pero’ vero che spesso vige una sorta di cordiale e reciproca, tra contesti e gruppi diversi di persone, indifferenza (o ignoranza) più o meno accentuata. Questo è un dato innanzitutto sociologico e deriva – io credo – dalla scomparsa di una scena ufficiale e di lotte egemoniche per conquistarla o sovvertirla. Ma tale scomparsa non è forse un male, anzi. Quanto ai contenuti di verità espressi dai singoli ambiti di discussione, essi non hanno meno valore per il fatto di non pretendere di imporsi all’intero campo della poesia. Il problema è semmai quello del grande spreco di risorse. Concetti che avrebbero potuti circolare ampiamente dieci anni fa, vengono accolti in contesto più ampio solo ora. Spesso si dicono cose simili, ma con formule e gerghi, che enfatizzano invece le diversità di posizione. Qualche volta, invece, si vorrebbero dare per scontati alcuni assunti di base, per far avanzare la discussione, e questo è appunto precluso per via della dispersione dei gruppi e dei discorsi. In tale circostanza, pero’, è assai sospetto giocare su due tavoli: quello di una visione dall’alto “critico-teorica”, e una dal basso, legata alla propria pratica e al proprio posizionamento. Mi sembrerebbe più coerente muovere invece dalla propria particolarità, ed eventualmente costruire a partire da essa una visione il più possibile ampia. Ma questo problema – Italo – lo vedi e lo segnali anche tu.

    Una seconda cosa, e relativa a un testo di Mazzoni che invece ho letto e che ho anche recensito, ossia “I destini generali”. E qui mi limito a citarti, perché grosso modo potrei sottoscrivere pienamente ogni tua frase:
    “La mia impressione è invece che la descrizione offerta qui e ne I destini generali tenda a volte ad una statica sociale, ad una fotografia cristallizzante, che coglie molti nodi del paesaggio contemporaneo, ma per così dire li reifica. In questo senso è come se la condizione contemporanea finisse per risultare fin troppo trasparente nella sua cristallizzazione narcisistica, nella sua pura opacità di superficie senza scampo, totalmente trasparente al pensiero e chiusa a ogni possibile trasformazione.”
    Ecco, io credo che molto non sia invece trasparente al pensiero, e proprio questa opacità garantisce in qualche modo la trasformazione (l’inatteso), anche perché ha a che fare con l’azione e la sua costitutiva imprevedibilità.

  4. @andrea inglese. Grazie Andrea per le tue considerazioni. Invitando ad “uscire allo scoperto”, non intendevo con questo disconoscere altre esperienze di confronto, ne’ la molteplicita’ dei luoghi, delle occasioni, e anche delle opzioni di poetica. Il problema è invece proprio quella reciproca e cordiale indifferenza che anche tu noti, per cui tali momenti di confronto spesso risultano endogamici, tra chi già condivide una posizione, di modo che un confronto sugli assunti di fondo fatica ad emergere . E questo è qualcosa cui credo occorra reagire, perché ha delle conseguenze non marginale anche sulla significatività dei dibattiti stessi. Si’. c’è un dato sociologico, legato all’indebolimento delle prospettive ideologiche che incorniciavano alcuni decenni fa il panorama sociale e letterario, e quindi all’affievolirsi delle relative lotte per l’egemonia. Ma al di là di questo, il problema non credo stia tanto nella scomparsa di una scena ufficiale, con tutte le relative gerarchie, canonizzazioni, la cui presunta solidità è peraltro anche il frutto di qualche autoinganno e illusione retrospettiva – ne’ la questione è quella di ricostruirla secondo tale modello. Il fatto è che la dispersione quasi pulviscolare non solo produce un spreco di risorse, ma anche produce una situazione in cui, anche per il prevalere di formule gergali, c’e’ una forte tendenza autoreferenziale, che a mio avviso rende difficile mettere a fuoco i grossi nodi. Penso che questo fenomeno si accompagni al fenomeno del disimpegno dei poeti stessi dai dibattiti teorici e ideologici. Del resto anche una iniziativa molto interessante quale l’incontro su Teoria & poesia organizzato da te e Paolo Giovannetti lo scorso autunno nasceva proprio dalla constatazione che occorreva reagire ad una situazione per cui da due o tre decenni il discorso teorico sulla poesia si è eclissato, non tanto e non solo per quanto riguarda gli specialisti accademici del settore, ma anche e soprattutto perché in una certa misura il discorso sulla teoria della poesia – ma anche della società – ha per lo più cessato di innervare la vita letteraria, i dibatitti tra i poeti stessi. La divaricazione di cui parli, tra visione dall’altro, critico teorica, e visione dal basso, radicata nella propria posizione, nasce anche laddove appunto il discorso teorico e ideologico cessa di essere praticato da molti poeti – non è il tuo caso peraltro – oppure diventa semplicemente momento di identificazione di gruppo, piuttosto che momento di incontro/scontro quanto al suo contenuto di verità.
    Senz’altro queste osservazioni non hanno carattere di novità, e sono state avanzate in altre occasioni e luoghi. Vale la pena però ribardirle, perché siamo ancora in attesa di uno scatto in avanti decisivo, e forse anche perché, come osservi, c’è qualche segnale.
    Tornando al mio intervento sul saggio di Guido Mazzoni, di quest’ultimo non mi fa problema né il fatto che sia intriso di teoria – anzi penso che il fatto di aver continuato a farne sia uno dei suoi meriti – né il fatto che tenti una ricostruzione complessiva del campo letterario – cosa che distinguerei dal “pretendere di imporsi all’intero campo della poesia” – visto che mi sembra ben difficile fare teoria, e discuterne, senza una qualche totalizzazione. Il problema nasce piuttosto laddove il carattere retrospettivo di queste ricostruzione, e dunque anche il suo aspetto prospettico/opaco, e fallibile, rimane in ombra, e non si raccorda con la pretesa di verità che comunque viene attribuita alla poesia come pratica. Qui, mutatis mutantis, riaffiora in altri termini quel pericolo di divaricazione tra discorso teorico-critico dall’alto, e posizionamento, di cui parli.
    Quanto all’opacità, penso anch’io che sia un limite produttivo piuttosto che mero scacco, variamente radicato da diversi discorsi – imprevedibilità dell’azione, intrasparenza al pensiero, carattere speculativo del linguaggio, o costitutiva finitezza – ma che di per sé non precluda la possibilità di sviluppare discorsi teorici comprensivi, purchè avvertiti circa il loro carattere di totalizzazioni parziali, o di parziali affacci su un totalità opaca.

  5. @Gianluca D’Andrea. Grazie per queste riflessioni. Di cosa parliamo, quando ci riferiamo all’espressione poetica come ad un’allegoria di un’altra vita, alludendo ad un suoHegel aveva possibile carattere utopico? Non è in gioco un passaggio in altro nei termini di un approdo progressivo, una trasformazione graduale delle condizioni di vita e del panorama storico, un processo continuo di evoluzione, che peraltro sembra bloccato. Non che da una qualche prospettiva retrospettiva non si lascino ricostruire, in prospettiva storica, fenomeni dotati di un qualche omogeneità, linee di tendenza, anche in condizioni di frammentazione strutturale quali quelle cui assistiamo. Ma a parte il valore di verità di tali ricostruzioni, a loro volta condizionati da una condizione falsa, e la possiblità di riconoscervi una qualche dinamica emancipativa, che a molti sembra preclusa, mi sembra che la radicalizzazione allegorica di cui alcune espressioni poetiche sono talvolta capaci, abbia a che fare con qualcosa come una soluzione di continuità che si produce dall’interno.
    Tu parli di rovesciamento del disincanto, o di un “percorso saturato dal suo stesso disincanto” quale condizione che potrebbe rendere possibile il “salto” ad una nuova percezione, un passaggio in altro che non si attuato nella forma di un equilibrio riformistico con la tradizione, la vita, il mondo, né per via di una qualche sintesi hegeliana. E senz’altro, non è in gioco, dove si acuisce una certa radicalità poetica, una qualche sintesi (a prescindere dal fatto che con le sintesi hegeliane Hegel non aveva molto a che fare, ma questo è un altro discorso..), il che non toglie che invece non sia in opera una qualche relazione tra continuità e discontinuità, se vogliamo una dialettica che tende a sospendere se stessa. Chiamiamola possibilità di mutazione. E anche di reversibilità, che in una qualche misura l’elemento di discontinuità richiamato anche dall’immagine della individuazione senza riserve, della separazione radicale, mette in discussione la serie lineare del tempo storico. Discontinuità, frammentazione, esposizione, opacità, se entro una certa narrativa sembrano segnare la parabola terminale del disincanto, possono essere anche la condizione costitutiva di una variazione impredittibile, che può transitare tanto per una mutazione soggettiva quanto per una vibrazione oggettuale.
    Mi sembra da approfondire l’idea per cui ““il senso del tragico ricompare in maniera spettrale e umbratile nella sua stessa astrazione”. Sia perché chiama in causa l’idea, a mio avviso interessante, che non si debba dare affatto per scontato l’esaurimento ironico dei potenziali trasformativi – anche perche’ la lezione dell’ironia veramente radicale è proprio il tragico, Walser docet. Sia perché la questione dell’”astrazione” sociale e individuale merita di essere ripresa, e non solo in relazione alla fenomenologia del ‘tragico astratto’.

  6. MOLTINPOESIA
    PER UNA RIPRESA DEL DISCORSO

    PROBLEMA: COME ESSERE MOLTI IN POESIA?

    Spunti su cui riflettere:

    1. Come respingere i cattivi consiglieri che non vogliono i molti in poesia (non li vogliono nelle loro “nicchie” riservate agli “addetti ai lavori” e agli “amici”) ma li vogliono solo come *pubblico della poesia* (lettori/acquirenti dei loro libri, spettatori plaudenti ai loro reading).

    2. Come imparare a tenere “a bagnomaria” (o nel cassetto o nello smartphone) i versi prodotti compulsivamente, a capriccio, in base ad emozioni e a pensieri troppo vaghi.

    3. Come non farsi spennare da editori parassiti che sfruttano il bisogno di apparire dei moltinpoesa più ingenui o vanitosi.

    4. Come non sostituire la (faticosa, non programmabile) ricerca della poesia (oggetto o scopo quanto mai sfuggente) con la ricerca di surrogati (partecipazione a concorsi, a scuole di scrittura, a antologie, a festival, ecc.) che promettono visibilità o “successo”.

    5. Come non sprecarsi per ottenere un riconoscimento frettoloso o convenzionale da poeti e critici che gestiscono le loro “nicchie” riservate agli “addetti ai lavori” e agli “amici”.

  7. scusate, ma italo testa mi aveva detto che a lplc i postanti mai intervengono nel thread….

  8. Personalmente ho trovato e trovo l’intervento di Mazzoni una preziosa occasione, per il tentativo di ricostruzione, per alcune indicazioni importanti e anche per poter discutere della sua stessa categorizzazione e delle sue teorie che presentano comunque molti limiti e molte prospettive non accettabili totalmente.
    Ho voluto intervenire su questo per come ho potuto in altra sede, su Midnight Magazine, per rilanciare un dibattito importante e con questioni non solo di poesia o editoria in gioco, prendendo le mosse anche da questa replica di Testa e da commenti seguiti agli articoli.
    Qui sotto il link
    https://midnightmagazine.org/unaltra-sociologia-della-poesia-note-risposta-margine/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *