di Mauro Piras

I grillini amano sorprenderci sempre, in materia di democrazia rappresentativa. Li avevamo lasciati, all’inizio di questa legislatura, fermi nella loro idea che il voto di fiducia non fosse indispensabile alla nascita di un governo: basta trovare le maggioranze su ogni singolo provvedimento, dicevano, chi vuole appoggiarci ci voti quando vuole. E per cinque anni hanno denunciato come un crimine più o meno tutti i voti di fiducia. Ora invece, sorpresa, la fiducia diventa una sorta di totem. Che cosa è successo?

Il nuovo Codice etico e il Regolamento per la selezione dei candidati alle elezioni 2018 adottati dal Movimento 5 Stelle in vista delle prossime elezioni, e resi pubblici in questi giorni, contengono alcune novità. Per esempio, l’avviso di garanzia non è più un’infamia che impedisce la candidatura: saranno gli organi di garanzia a decidere caso per caso. Una ragionevole revisione dell’intransigenza originaria. Oppure, un altro punto, ingiustamente criticato: le candidature per i collegi uninominali non vengono decise dalla rete, ma dal Capo Politico del Movimento. Partitocrazia? Forse, ma tutto sommato meglio così: in fondo è sensato che le candidature siano definite politicamente, e non con elezioni online di dubbia legittimità democratica.

Invece non ha suscitato grandi critiche una regoletta che, a prima vista, appare incostituzionale: i parlamentari del Movimento 5 Stelle sono obbligati “a votare la fiducia, ogni qualvolta ciò si renda necessario, ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del MoVimento 5 Stelle” (Codice Etico, art. 3). Un’idea strabiliante. In questo modo si impone uno strettissimo vincolo di mandato ai parlamentari Cinque stelle, vincolo che però non viene imposto agli eletti dai loro elettori, ma dal governo stesso, rovesciando così il senso del voto di fiducia nella democrazia parlamentare. Vediamo meglio la cosa.

Togliere ai rappresentanti Cinque stelle la libertà di votare contro il proprio governo nel caso del voto di fiducia mina la democrazia rappresentativa da due punti di vista: viola la divisione dei poteri propria di qualsiasi costituzione rappresentativa, e viola il rapporto tra Parlamento e governo specifico della democrazia parlamentare.

1) La divisione dei poteri definisce una costituzione, secondo una venerabile formula della Dichiarazione dei diritti del 1789: un paese senza divisione dei poteri non ha costituzione, perché il potere si può accentrare in un solo uomo o in un solo organo, diventando così arbitrario. Questo principio definisce ogni regime politico fondato sui diritti individuali dei cittadini. Ovviamente, definisce i regimi politici in cui una assemblea di rappresentanti del popolo detiene il potere legislativo. La libertà di voto di questi rappresentanti garantisce la libertà del legislativo dall’esecutivo. Se i rappresentanti vengono assoggettati a un obbligo di voto esterno, vedono ridotta questa possibilità di limitare i poteri dell’esecutivo. Se tale obbligo viene dall’esecutivo, vengono direttamente assoggettati a esso. Ed è esattamente quanto accade con il nuovo regolamento M5S: se si formasse un governo a guida grillina, i parlamentari di questo movimento perderebbero la libertà di votare secondo la propria coscienza a ogni voto di fiducia, e verrebbero assoggettati direttamente alla volontà politica del governo. La separazione dei poteri, nei rapporti tra parlamentari Cinque stelle e governo, cadrebbe.

2) Ciò che vale per ogni democrazia rappresentativa fondata sulla divisione dei poteri viene declinato in modo specifico nella democrazia parlamentare. Qui, il governo è espressione della maggioranza parlamentare. Perciò, per avviare le sue attività, deve passare per il voto di fiducia. E deve dimostrare di avere la fiducia della sua maggioranza per tutta la sua durata. Se la perde, cade. In questo vincolo si esprime la divisione dei poteri: attraverso il voto di fiducia, il Parlamento controlla l’operato del governo. Se esso si discosta da quanto espresso dalla maggioranza che lo sostiene, questa ha lo strumento per farlo cadere. Tutto ciò presuppone però la libertà di voto dei parlamentari e l’assenza del vincolo di mandato: i singoli parlamentari devono poter giudicare liberamente il governo, senza essere vincolati da patti che altrimenti renderebbero il governo del tutto libero dal loro controllo. Il vincolo di mandato da parte degli elettori impedirebbe ai parlamentari di votare in coscienza. Se questo vincolo viene poi direttamente dal partito di governo, li assoggetta direttamente a questo eliminando la divisione dei poteri, come già detto: ma questo è più grave nelle democrazie parlamentari, dove il governo è emanazione della maggioranza parlamentare. Il voto di fiducia viene stravolto e rovesciato: invece di permettere il controllo del Parlamento sul governo, diventa uno strumento di controllo del governo sul Parlamento. È il mondo alla rovescia: non è più il governo a essere responsabile di fronte al Parlamento, ma questo di fronte al governo.

Tutto questo è gravissimo. E sorprende che, a parte qualche timida reazione politica, non sia stato oggetto di una grave reazione nell’opinione pubblica, soprattutto da parte di quanti l’anno scorso hanno difeso la Costituzione dalla “deriva autoritaria”. Certo, si può obbiettare che spesso, con accordi politici o, peggio, con pressioni politiche, i partiti vincolano i loro parlamentari nei voti di fiducia, e anche questo limita, di fatto, la divisione dei poteri e la libertà del Parlamento. La cosa è del tutto vera, ed è la ragione per cui il ricorso eccessivo ai voti di fiducia viene condannato unanimemente, e andrebbero trovati meccanismi istituzionali che lo scoraggino. Tuttavia, nessun partito aveva mai posto dei vincoli formali così pesanti. Esplicitare e formalizzare questi vincoli significa rendere inevitabile la dipendenza dei parlamentari dal governo, e esautorare il loro potere.

Come mai i grillini, nemici giurati del voto di fiducia, sono giunti a questo rovesciamento? Blindare così il voto di fiducia sempre significa infatti violare l’idea originaria secondo cui il governo deve procurarsi la maggioranza su ogni provvedimento. In realtà, la contraddizione è solo apparente. Il rifiuto del voto di fiducia nel 2013 e la sua “blindatura” oggi hanno la stessa radice: il rigetto della democrazia rappresentativa in nome di una confusa idea di democrazia diretta. Il principio di partenza è questo: il rappresentante politico deve parlare e agire in nome del popolo, questo deve esercitare direttamente la sua sovranità tramite la partecipazione ai meet-up, la discussione e il voto sulle piattaforme online e un controllo continuo dei rappresentati. Il M5S quindi vuole imporre il vincolo di mandato come chiave della democrazia, contro tutta la tradizione della democrazia rappresentativa. Il problema è che questo “innesto di elementi di democrazia diretta nella democrazia rappresentativa” diventa deleterio nel momento in cui dall’opposizione si passa al governo. Il vincolo di mandato che l’elettore dovrebbe imporre all’eletto viene infatti interpretato in questo modo curioso: l’elettore ha dato mandato al proprio partito di governare, quindi gli eletti in Parlamento devono chinare la testa di fronte al governo, che è una sorta di “espressione diretta” della “volontà popolare”. La sovranità si trasferisce magicamente dal popolo sovrano al governo. I grillini hanno chiamato Rousseau la loro piattaforma online, ma forse Jean-Jacques si sentirebbe preso in giro da questa fine ingloriosa della sua teoria: il “governo” che prende il posto del “sovrano”!

Alla radice di queste pericolose derive istituzionale sta proprio il senso dell’operazione grillina: contestare la democrazia rappresentativa senza proporre un coerente e sensato modello istituzionale alternativo; questo porta a innestare in modo disordinato elementi di democrazia diretta nelle istituzioni rappresentative, perdendo il controllo dei loro effetti. Perché in realtà il M5S non esprime una vera alternativa di regime politico, come a volte cerca di far credere, ma soltanto un male radicale della democrazia, non solo italiana, e cioè una profonda crisi di legittimità. Il suo successo elettorale si regge sulla fusione di diversi elementi: la denuncia della corruzione e della autoreferenzialità di una classe politica che, da decenni, non dà risposte alle esigenze reali dei cittadini; una rivendicazione di partecipazione attiva e di solidarietà sociale; la denuncia delle diseguaglianze e delle ingiustizie provocate dalla crisi economica e dal “turbocapitalismo”, denuncia fatta dalla prospettiva di un “sovranismo nazionale” in economia; la difesa dell’identità nazionale italiana e di posizioni conservatrici sul terreno dei diritti civili. Questo “mélange adultère de tout” non è una debolezza, come molti credono, ma una forza, perché l’ambiguità che fa muovere il M5S tra il sovranismo di destra e la democrazia partecipativa e sociale di sinistra coglie disagi e malumori da tutti i lati, li coagula e lo porta a prevalere sulle incertezze o i pragmatismi degli altri partiti. Soprattutto, questa miscela raccoglie il vero motore delle elezioni politiche recenti in tutti i paesi democratici avanzati: la crisi di legittimità dei sistemi politici tradizionali, dell’establishment.

I risultati di tutte le tornate elettorali recenti lo hanno mostrato chiaramente: l’elezione di Trump negli Stati Uniti; le elezioni in Olanda, dove i liberali hanno vinto con una percentuale di voti piuttosto bassa, in un quadro politico molto frammentato; le elezioni presidenziali in Francia, dove Macron ha vinto cavalcando una parte di quello spirito antisistema, e comunque il quadro politico si è frammentato in quattro parti, di cui due dichiaratamente “antisistema” e “sovraniste”; l’affermazione politica di Corbyn in Inghilterra, fondata su una sorta di nazionalismo di sinistra, e comunque, anche qui, su una rottura netta con l’establishment del suo partito; e infine, clamorosa, ma solo per chi non aveva saputo riconoscere queste forze sotterranee, la situazione in Germania dopo le elezioni, che ha prodotto un quadro di ingovernabilità a causa della crescita improvvisa delle forze antisistema, e della posizione del tutto “non istituzionale” assunta dai “liberali” di Lindner. In tutte le democrazie avanzate il tema che viene intonato è lo stesso: la sfiducia nei confronti delle classi politiche che hanno guidato la costruzione di questi regimi nel secondo dopoguerra, che hanno amministrato prima il difficile equilibrio tra economia di mercato e stato sociale, poi il passaggio traumatico alla competizione globale e a politiche economiche più o meno liberiste. Fino a quando queste scelte hanno prodotto risultati, quelle classi politiche hanno tenuto. Quando la competizione globale nel mercato del lavoro e la crisi economico-finanziaria hanno accresciuto le diseguaglianze e la precarietà dentro queste società, il loro credito è crollato. Ma attenzione: la crisi sociale attraversata da queste società è particolare. Si tratta di società ricche: è una classe media agiata che ha visto ridursi il proprio benessere e le proprie ricchezze, e che reagisce quindi con sentimenti di chiusura, di difesa delle proprie posizioni, rifiutando di vedere ingiustizie più grandi alle proprie porte. Rifiutando di vedere quanta ricchezza è stata creata, invece, in altre parti del mondo; rifiutando di riconoscere la nuova classe media che nasce dallo sviluppo dei paesi emergenti. Non è una forma di protesta che genera potenziali rivoluzionari, rivendicazioni di giustizia sociale o forme di solidarietà; è una forma di protesta che genera paura, insicurezza, chiusura, ostilità verso l’esterno. Ecco perché le forze politiche che se ne alimentano hanno contenuti ambigui: denuncia sociale e chiusura nazionalista, in una formula. Quanto più è ambiguo l’insieme, tanto più è forte la politica che se ne nutre.

Il M5S è la più forte di queste forze politiche dette troppo sbrigativamente “populiste”, perché le sue radici sono più profonde: la delegittimazione della politica, in Italia, non si regge solo su questa vicenda di “crisi della modernità postbellica”, ma anche su una inadeguatezza della classe politica e del sistema politico ben più antichi: l’Italia vivacchia, senza trovare una via delle riforme e dell’innovazione del sistema economico, da almeno venticinque anni, se non più; e le ingiustizie sociali generate dalla globalizzazione e dalla crisi rendono ancora più inaccettabili i “privilegi della casta”, molto più che in altri paesi, molto più di prima. Se a questo si aggiunge una tradizione di diffidenza dello Stato nei confronti dei cittadini, e di slealtà dei cittadini nei confronti dello Stato, che ha radici antiche, ecco che la forza propulsiva del M5S è la più semplice: la condanna della politica “ladrona”, la lotta contro il “Palazzo”, l’antipolitica. È questa la molla più potente, che sfugge a qualsiasi altra forza politica, dal momento che qualsiasi altra forza politica è stata parte di quel sistema contro cui il “popolo” si scaglia. Le cose più semplici e irrilevanti – la questione dei vitalizi, per esempio – diventano delle micce politiche potentissime, e nessuna soluzione ragionevole, nessun ragionamento che ne mostri la scarsa incidenza sui bilanci pubblici riescono a ridurne la portata, politica ed elettorale. Gli altri partiti si trovano quindi al traino.

La parola che sta dietro tutto questo è una: sfiducia. La crisi di legittimità della politica in Italia è una gigantesca crisi di sfiducia: dei cittadini nei confronti delle istituzioni, dei cittadini tra loro. I cervellotici meccanismi ideati dai grillini, che vogliono sottoporre tutto a controllo, in modo ossessivo, esprimono questa radicale crisi di sfiducia che continua ad attraversare tutta la società italiana, e che sfascia la politica. E così, come sempre, è su problemi relativi alla “fiducia” parlamentare che viene fuori la vera natura del M5S: essere il partito della sfiducia, il partito del controllo nevrotizzato su ogni azione politica, perché non c’è nessuna fiducia nel giudizio e nella libera coscienza degli altri. Questo estremismo traduce in politica una sensazione di cui facciamo troppo spesso l’esperienza nella vita sociale. Questa traduzione politica è la sua energia propulsiva. Il problema è che, se questa idea trova la strada verso la maggioranza di governo, il controllo ossessivo rischia di rovesciarsi, come abbiamo visto, nell’assenza di controllo, nell’arbitrio del potere che si autolegittima perché si considera “espressione diretta del Popolo”, “governo della virtù”. Il passo successivo rischia di essere il “terrorismo della pura intenzione”, secondo un’altra venerabile formula.

(Firenze, 6 gennaio 2018)

 

[Immagine: Beppe Grillo]

12 thoughts on “Il Movimento 5 Stelle e la democrazia

  1. “ Martedì 26 febbraio 2013 – « Scherzo ben riuscito a Pier Luigi Bersani dalla redazione di RDS. La telefonata al segretario del Pd è partita da Barty Colucci, il comico di “ Tutti Pazzi per RDS “ che imita alla perfezione la voce di Vendola e, apparentemente, Bersani ci sarebbe cascato. Il segretario di Sel lo informa di aver ricevuto una risposta di Casaleggio in merito alla proposta di cambiamento in Parlamento, rivolta dalle forze di centro sinistra al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Bersani, pur informato da Vendola che si tratta non di una lettera ma di risposta cantata, accetta di ascoltarne il contenuto fino in fondo, senza accorgersi che la musica e il testo sono quelli di Goodbye Malinconia il successo del rapper Caparezza. Il testo integrale della telefonata verrà trasmessa mercoledì mattina da RDS. » (Dal Corriere.it) “.

  2. Fine come sempre l’analisi.
    Quando si passa dall’analisi politologica al posizionamento politico che ci sta dietro, arriva lo sconforto.
    Ad esempio l’argomento per cui la classe media occidentale sempre più povera dovrebbe magnanimamente ampliare lo sguardo al mondo intero e vedere quanti sono usciti dalla povertà grazie all’estensione del modello economico occidentale. Mi rendo conto che sarebbe proprio sodialdemocratico ammettere che, purché stiano un po’ meglio gli altri, dovrei accettare di stare un peggio io.
    Ma non so perché ho come il presentimento che:

    1) questo argomento del “tutto bene madama la marchesa” faccia molto comodo a qualcuno che certo non è la classe media occidentale impoverita, ma nemmeno gli ormai ex-poveri del resto del mondo. Ma non si parla al macchinista. Egli sa. Egli è lì per il nostro bene. Egli ci guida verso sorti se non magnifiche e progressive, quanto meno decorose.

    2) c’è uno con la licenza elementare, che ha lavorato a tempo indeterminato con tutte le garanzie, ha messo parecchi soldi da parte, ha detto al figlio “tu laureati, supera la condizione paterna figliolo, il futuro è progresso ed espansione indefinita”, solo che quello ora lo pagano a voucher o è emigrato o vive intaccando un po’ alla volta la rendita familiare, faticosamente messa da parte in decenni. Se al padre, ma pure al figlio, dici che dovrebbe essere generosi, pensino ai cinesi, quello (il padre dico) prima ci scassa di randellate (mentre il figlio ci tiene), poi vota Grillo, fra un po’ proprio a destra. (Lo so che questo lo dici anche tu. Ma lo analizzi come un dato di fatto. Per me questa tua argomentazione contribuisce a produrlo. E’ una bella differenza)

    (Tralascio lo sconforto per l’argomento che l’abuso della fiducia da parte dei 5stelle sarebbe più grave perché “formalizzato”. Ricorriamo pure ogni qual volta serva alla fiducia. Basta non dirlo. La distinzione dei poteri è formalmente salva. Siamo un paese democratico). (Avrei preso più sul serio un argomento del genere: i 5stelle non hanno equilibri interni, non hanno correnti, non hanno aggregati riconoscibili di parlamentari, non esistono quindi rapporti di forza interni al loro partito, contrappesi, dialettica. Sono un gruppo piuttosto amorfo, inesperto e debole, nelle mani di una fondazione privata, un ex-comico, una disciplina para-leninista, ecc… quindi sono irregimentabili e manipolabili)

    (spero che il tono sarcastico non cancelli del tutto il contenuto dei miei argomenti. Anche io sono spaventato da un Di Maio a Palazzo Chigi)

  3. @ Barra. Ha ragione, tecnicamente lo è ancora. Solo che ora non mi fa più ridere. Prima sì.

  4. @ Lo Vetere. Mi permetto di riproporre un vecchio diario: “ Giovedì 4 luglio 1996 – La mamma mi diceva: « Fammi un sorrisino ». Ma io non glielo facevo. Non sono cattivo, sono solo stupido. O forse ho dei problemi con la faccia. Se gliel’avessi fatto, l’avrei fatta contenta e magari avrei avuto la recensione di Cesare Garboli come oggi succede a Benigni in occasione del suo primo libro. Non mi piace che mi facciano ridere. Non mi piace che mi facciano il solletico. Che mi tocchino in certi punti. Provocando quella reazione inconsulta, quello spasmo – doloroso, spaventoso – che si chiama riso. Avrei potuto fare un sorriso finto, americano, berlusconiano, e anche in questo caso la vita mi avrebbe sorriso di più. La mia faccia – che non è bella – è opaca come un televisore spento. È una faccia perplessa, distratta, preoccupata, impaurita, stupìta, stupida, insomma. Quando sorrido, sorrido come un bimbo: è un sorriso così timido, così candido, che non c’è da stupirsi che non lo voglia mostrare. Ma il problema, ormai lo so, non è ridere, è fare ridere. Come Benigni. Come la mamma. Fare ridere è un modo di fare. Un modo di dare e di ricevere. Un modo di chiedere. Io non sono cattivo, ma non so fare ridere. (Se a farmi ridere è una donna va ancora bene. È come il pizzicorino delle compagne di classe, una cosa puerile, una cosa di più di trent’anni fa, va bene per i grassi, a me non ricordo che l’abbiano mai fatto, anche perché non sono mai stato grasso. Se a cercare di farmi ridere è un uomo allora il discorso cambia. Perché non capisco che voglia da me che sono un uomo come lui. Quelli che fanno ridere si chiamano comici. In Italia ce ne sono tanti. Alcuni sono ricchissimi) “. Solo per dire che, per me, la comicità è un problema. Ridere o non ridere? That’s the question.

  5. Il punto chiave ben sottolineato è quello della sfiducia. L’establishment politico è il male assoluto, ragion per cui qualsiasi cosa al posto dell’establishment è meglio; i macroscopici difetti (che in realtà sono qualcosa di diverso da semplici “difetti”) del M5S sono invece mali relativi. Sono per definizione meno gravi del male costituito dall’establishment. Il problema è che invece i grillini di danni ne faranno eccome, ma chi fa questa scelta sfascista non li sa valutare.

    Il fenomeno però non è solo italiano. La cosa strana è che nonostante la crisi l’Europa -insieme con il mondo- non è crollato. Gli indicatori sociali e civili nonostante tutto sono in crescita (aspettativa di vita media, istruzione, diritti civili, et sim.) e i danni sono infinitamente minori rispetto all’altra grande crisi, quella del ’29.

    E ci sono altri dettagli curiosi: uno è che tra i Paesi più isolazionisti e anti-sistema ci sono quelli con minore immigrazione e più forte e che hanno maggiormente beneficiato dall’integrazione con un sistema economico continentale (Bulgaria, Ungheria, Polonia). Un altro è che, a sentire diversi studi, la rabbia dei “perdenti” non si indirizza verso i ricchissimi, ma solo verso quelli “un po’ più ricchi”: professionisti con retribuzioni migliori ma non di un altro ordine di grandezza; gente con titoli di studio simili ma più fortunata, e che può vivere con meno preoccupazioni.

    Nonostante quindi non siamo sull’orlo del baratro, il sistema pare che sia al capolinea. A volte penso che sia una questione di istinti primordiali; l’essere umano è ancora legato ad un istinto di “fight or flight”, ovvero ad un sistema per cui ad una situazione di inquietudine si deve reagire in maniera estrema. Il miglioramento dell’attuale congiuntura oggi non passa da grandi rivoluzioni (che non sono in vista), ma dall’attenta e lungimirante costruzione di qualcosa che si realizzerà lentamente. Noi però non siamo fatti per questo, siamo fatti per combattere o scappare (fight of flight, appunto). Ora in qualche modo stiamo facendo entrambe le cose. A prescindere dai dati di realtà. La politica tornerà a fare il suo mestiere quando, democraticamente, sarà in grado di incanalare queste reazioni.

  6. Se è vero che non si può non essere d’accordo sull’analisi del fenomeno, non si può non di meno notare come questa stessa analisi rinunci a priori ad affrontarne le cause, accontentandosi di una generica “gigantesca crisi di fiducia”. Che esiste, è vero, ma perché si è arrivati a questo?
    La tradizionale diffidenza verso lo Stato, come un certo diffuso e pervicace qualunquismo esistevano anche in tempi in cui l’impegno politico era più diffuso e più sentito. E’ la presbiopia liberale (anche del liberalismo progressista modello Blair/Renzi, anzi soprattutto di questo, se si considera l’argomento relativo alla classe media dell’articolo) per cui, per usare una metafora molto abusata – e ne chiedo venia – si vede solo la foresta nel suo insieme ignorandone – anche con un certo malcelato fastidio – le radure e le macchie, per non parlare dei singoli alberi.
    E restando all’interno della metafora si potrebbe altrettanto a ragione notare che queste macchie e radure, specie se fitte e “ricche”, in determinate circostanze potrebbero prendere fuoco più facilmente di altre più rade o in via di rimboschimento e propagare l’incendio a tutta la foresta. E’ già successo, circa cento anni fa e proprio quella classe media svillaneggiata nell’articolo è stata una delle parti della foresta che prese fuoco più facilmente, con gli esiti che tutti sanno. Meschina ed egoista certo, quasi sempre aliena all’universalismo illuminista di cui si ritiene unico depositario il pensiero liberale, ma la cui reazione, hic et nunc, alla prospettiva universalistica di stampo capitalista dell’argomento sulla ricchezza più distribuita dell’articolo, ha ben dipinto con pochi tratti icastici Daniele Lo Vetere. Questa è gente – e lo ha dimostrato e lo dimostra all’occorrenza – dal manganello e olio di ricino facile!
    Per cui ci andrei cauto a pontificare con predicozzi di questo tenore, che poi nascondono caparbiamente il tentativo di salvare la capra del capitale e i cavoli degli intellettuali e dei politici al suo servizio, e non liquiderei, con la presunta sicumera del vincitore della guerra fredda, “l’affermazione politica di Corbyn in Inghilterra, fondata su una sorta di nazionalismo di sinistra”.
    Bruttissimi fantasmi si stanno risvegliando in Europa, e non pare che nessun liberalismo sia in grado di dare risposte – come già negli anni venti – se non la generica e (poco) consolatoria affermazione che non ci sono alternative, confidando (ma si dice a denti stretti) sul pervasivo e disgregante individualismo neoliberale. La storia, diciamo così, le alternative le trova sempre. Anche pessime.

  7. Confesso che fino al minuto 12 : 36 ascoltavo assai sbalordito e attento, non so come meglio dire : “la diarrea culturale”, “la scorporazione del corpo”, “la mano”, “Anassagora mandato via”, “la riforma antropologica”. “la rivoluzione delle I”, “la rete come forza metafisica”, “guardare il mondo attraverso il mondo” – “ma qualcosa bisognerà fare” –, “la velocità con cui competere, ma non è la nostra”; “gli algoritmi in conflitto”; “il bancario’scarsissimo’ che salva la finanza del mondo nel 2010”; “la velocità della luce che ci vende ci compra ci vende”, “i tetrawatt”, “le cose che pesano, non la nuvola”, “i server nascosti non si sa dove”. Poi Beppe Grillo dice : “rischiamo di non capire più nulla”, e allora ho sorriso davvero molto (ma al secondo ascolto un poco meno, ero solo attento, al terzo ancora più attento). Di sicuro chiude con qualcosa che forse stiamo già sperimentando tutti: quel “le informazioni che creano il futuro prima” – non si sa bene cosa sia, non è detto che sia qualcosa, ma qualsivoglia cosa sia o potrebbe essere che sia, ha un che di molto allarmante, almeno penso –; sì, ha ragione : “è un mondo da stare molto attenti”, non si può non convenire. Un cordiale saluto

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  8. Piras critica il M5S perché le sue proposte politiche non generano «potenziali rivoluzionari, rivendicazioni di giustizia sociale o forme di solidarietà [ma] paura, insicurezza, chiusura, ostilità verso l’esterno» e il tipo di democrazia diretta visto nella « prospettiva di un “sovranismo nazionale” in economia; [della] difesa dell’identità nazionale italiana e di posizioni conservatrici sul terreno dei diritti civili» (verso i migranti in particolare) è ambiguo. Condivido. Ma, se si limita a difendere la democrazia rappresentativa, di cui pur vede i limiti, restiamo a marcire nella solita palude vittime rassegnate di due ambigui populismi: uno al governo e l’altro che vi aspira (ora facendo la voce grossa ora abbassandola) per fare, se vincesse, più o meno le stesse cose “disoneste” che imputa agli avversari. Ne usciremo mai? L’articolo di Piras e forse qualche commento mirano a chiarire per chi votare il prossimo 4 marzo. Ora, non per snobismo o culto dell’estremismo, mi chiedo: ma vale la pena partecipare ancora a questo falso rito di una democrazia azzoppata e che probabilmente, come accaduto col voto in Germania, non darà nessun risultato chiaro, indiscutibile e non manipolabile? Possiamo solo tifare e votare? È del tutto impensabile costruire un processo culturale e politico che miri a *più* democrazia (più diretta che rappresentativa, più chiara e meno ambivalente, più intransigente e non accomodante)? E senza rassegnarsi a nessuno dei due populismi che occupano la scena, anzi a nessun populismo?

  9. Quando ero bambino, su Carosello c’era una réclame della Galbani che diceva: “La fiducia è una cosa seria” (poi proseguiva con “Galbani vuol dire fiducia”, che qui interessa meno).

    La fiducia è una cosa seria, e quando non c’è fiducia vengono le cose non serie ma ridicole. Le cose ridicole possono essere molto pericolose, pur restando ridicole. Il M5stelle è ridicolo, e da solo non è pericoloso solo per un motivo: che è totalitario sì, ma solo nell’opportunismo; tant’è vero che non ha mai designato un nemico politico e di conseguenza neanche un amico; nè mai lo designerà, perchè campa sulla fanfaluca del 51%, della scatoletta di tonno, etc.
    E’ invece pericoloso benchè ridicolo se al governo non ci va da solo ma in compagnia di qualche partito politico che invece un nemico politico lo designa, perchè gli fa da massa di manovra.

    Se per esempio va al governo con un partito che coglie il suggerimento di Piras, e invita gli italiani a rallegrarsi per il benessere che procurano al Terzo Mondo e a saldare il conto spese della gioia terzomondista con il proprio malessere, dunque designando come nemico politico l’intero popolo italiano (NB: partiti così esistono sul serio), i grillini sono capacissimi di votare per il reddito di cittadinanza+l’abolizione del welfare (due provvedimenti che vanno insieme come il cacio e i maccheroni).

    Se poi qualcuno fosse interessato a una mia riflessione sul Movimento 5stelle, siccome l’ho già scritta subito dopo il risultato del referendum costituzionale, se la può leggere qui:
    http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

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