di Giorgio Mascitelli

[Questo racconto fa parte di Notturno buffo, uscito qualche mese fa per Effigie].

Mia nonna diceva che girarsi e rigirarsi nel letto insonni dopo essersi svegliati nel corso della notte era segno di coscienza che rimorde: a me, fin dall’età in cui potevo ascoltarla dal vivo, è sempre sembrata una solenne sciocchezza. A parte il fatto che non ho assolutamente nessun rimorso particolare, ma questo fatto che la voce della coscienza non rispetti i ritmi circadiani e come una sonnambula o peggio ancora come una vampira si svegli di notte non mi ha mai convinto. Così ci sarebbe un tizio che durante il giorno circola allegramente a commettere nefandezze e che durante la notte capta una voce che gli comunica notizie spiacevoli su di lui, come una sorta di telefonata intercontinentale fatta da qualcuno che ha sbagliato il calcolo del fuso orario o ha atteso un’ora serale per poter usufruire delle apposite tariffe scontate. Invece c’è tutta un’imponente tradizione che attesta che a destarsi di notte sono le forze del male e non quelle del bene, non a caso chiamate le prime da alcuni scrittori di valore anche forze delle tenebre: per esempio Gandalf avvertiva sempre i suoi giovani amici che certe creature malvagie si trovano in giro solo la notte, dette per l’appunto creature della notte. Dunque, cara nonna, delle due l’una o la voce della coscienza appartiene a pieno titolo alle forze del male, e ciò significa che avere la coscienza è un male, ma se il male nasce dalla coscienza, non c’è più nessuna banalità in esso ed è una via che è meglio non prendere neanche per scherzo, oppure no.

Non mi convince neanche l’altra spiegazione, quella che fa capo alla vecchia canzone siciliana, per cui a voltarsi nel letto sospirando è l’innamorato. L’amore mi ha superato ormai, come tutti gli altri sentimenti: non sono più capace neanche di un vero e proprio odio intenso. E’ restato soltanto il guscio vuoto delle emozioni, dalla piccola indignazione all’improvvisa e transitoria euforia per l’andamento delle cose, all’ansia, soprattutto. Felice l’uomo che ha conservato intatta la capacità di sentimento, forse ancora più felice di chi ha potuto conoscere le cause dei fatti.

Così dopo aver svuotato la vescica, torno a girarmi nel letto cercando con ricordi piacevoli o lunghi elenchi di cose astruse di rilassarmi e di contrastare la sfrenata carola delle preoccupazioni sia futili sia assolute che mi fanno sobbalzare. Talvolta bevo un bicchier d’acqua. Mingere e bere sono elementi fondamentali per ricondurre l’atmosfera rarefatta dell’insonnia alle normali circostanze della vita. Certo se la coscienza fosse una specie di metronotte, allora la mia nonna avrebbe avuto ragione, ma in realtà una simile illazione non avrebbe senso perché i metronotte collaborano con la polizia diurna e sono parte di un unico sistema di forze dell’ordine a difesa della proprietà, non intervengono a controllare i guasti del giorno, ma a prevenire quelli della notte: l’unica spiegazione sarebbe allora che la coscienza alla notte desidera fare altro che controllare i guasti del giorno, allora ci sarebbe se non un rimorso almeno un rimpianto. Ma il mio non è rimorso di coscienza: se avessi qualcosa da rimordermi non abiterei certo in questo buco caldo d’inverno e freddo d’estate, ovvero volevo dire il contrario, con un vicinato che è polvere d’uomo. No, la mia è ansia: la stessa antica ansia che trovi nei pezzi d’arte suntuaria delle tombe scite e negli annunci sulle nuove frontiere prossime a essere battute delle riviste americane di divulgazione scientifica.

Ci fu una generazione, quella di mia nonna per esempio, che per l’ansia prendeva le pillole contro l’ansia e per l’angoscia prendeva le pillole contro l’angoscia. Io no, nulla di tutto questo e non per maggiore consapevolezza: è che mi sembra del tutto normale angosciarsi e ansiarsi quando il mondo va allo sfacelo, ben diverso lo era invece quando nella società vigeva l’ottimismo del boom. Oggi è più possibile coabitare con l’ansia e con l’angoscia senza sentirsi degli andicappati, mentre allora con tutto il fervore di una crescita eccitante perché incontrollabile era effettivamente qualcosa di mostruoso. Oggi, insomma, risparmio e non mi rovino lo stomaco, pur vivendo in una condizione di continua ansia, che però la situazione generale dispensa dal ricorso alla chimica. Sono i piccoli vantaggi delle epoche di crisi.

Anche questo è per me motivo di grande consolazione, che quando mi angoscio per come oggettivamente le cose fanno schifo nella mia epoca, mi ripeto che mi sarei angosciato lo stesso, anche se non fossi vissuto in un’età volgare. Poi, secondo me, non è un caso che le pillole fossero state messe in commercio negli stessi anni in cui si consumava la crisi dell’esistenzialismo. Secondo me, è stata una congiura dell’industria farmaceutica contro l’esistenzialismo perché hanno capito che se la gente avesse letto con attenzione qualche opera tra le più semplici di Sartre o avesse osservato con attenzione gli omini di Giacometti, si sarebbe resa conto che l’uomo è fragile per sua natura e avrebbe considerato perfettamente spontaneo angosciarsi e pertanto non avrebbe sentito il bisogno di comprarsi le suddette pillole. E ne ho le prove perché un conoscente mi ha fatto visionare in via del tutto riservata una lettera di un allora alto papavero di Big Pharma all’allora ambasciatore statunitense in Francia in cui vengono menzionati i nomi di Sartre e Giacometti.

   Quando mi riaddormento è sempre troppo breve l’intervallo che intercorre fino all’ora in cui la sveglia suona per poter recuperare il sonno perduto. La delega agli automatismi della doccia e del caffè dura fino all’uscio perché poi devo riprendere a osservare. C’è sempre meno gente, ma le strade dissestate e il traffico caotico a dispetto della sua decrescente quantità mi tengono all’erta. I graffitari scrivono ovunque e si prendono gioco della nettezza urbana.

Gli astrattisti non li sopporto, al contrario ho grande considerazione dei figurativi. Uno in particolare, il più ardito, ha dipinto sui marciapiedi degli enormi dragoni e serpentoni marini e altri mostri con la bocca aperta sicché si ha sempre l’impressione di camminare tra le fauci del drago, eppure questi draghi non serrano mai le mascelle per divorarti e sono immobili. L’evidenza che si tratti di un pericolo del tutto fittizio e soltanto disegnato, seppur con accuratezza, non appare alla ragione del cuore, che ogni mattina si emoziona come se avessi veramente rischiato di essere divorato o annichilito dalle fiamme. Allora per un paio di minuti, fino alle scale della metropolitana, assumo lo stato d’animo del sopravvissuto, di colui cioè che ha già provato emotivamente la propria finitudine. Si tratta con ogni evidenza di una proiezione, forse favorita da un rimasuglio di impressionabilità infantile, delle angosce che la mia esperienza personale e sociale mi ha causato, con l’aggravante che, come tutti i figli del moderno razionalismo, non riesco ad attribuire a tale immagine mostruosa una funzione apotropaica né dispongo di alcun rito liberatorio che mi permetta di contenere le mie paure. D’altronde sarebbe poco dignitoso per chi come me crede se non nei lumi, almeno ancora in qualche luce e nella parola dell’uomo sull’uomo, abbandonarmi alle prescrizioni farneticanti di qualche improvvisato santone, dedicatosi allo sciamanesimo dopo il fallimento di un’altra attività commerciale, come se ne trovano in abbondanza in questi tempi di crisi. Il rigore del pensiero critico, che per essere tale è anche autocritico, mi illumina a sufficienza su me stesso per sapere delle mie debolezze, di come trattare questo rifiuto emotivo dell’evidenza fattuale e della consapevolezza che, purtroppo, la vita autentica non si dà nella falsa. E si sa anche che il drago è un animale astutissimo che, quando finge di dormire, è in realtà perfettamente vigile o in grado di simulare di essere fatto di pietra, o di cemento, allorché in realtà nelle sue vene scorre vero fuoco.

[Immagine: Pao, Drago Uroboro, Milano].

2 thoughts on “Dalle memorie di un insonne

  1. “ Domenica 25 febbraio 1996 – « 16 settembre 1956 – Non ho dormito questa notte. Credo sia stata la notte più infernale di quelle che precedono sempre un giorno di caccia. Forse l’abbondante cena della sera è stata la causa principale della mia insonnia movimentata. Di buon’ora ho lasciato la mia abitazione. Quest’oggi sono solo perché mio figlio è tornato al lavoro. Lungo la strada ho tentato di riunire alcuni motivi di vecchie canzoni e far sentire la mia voce, ma la messa insieme di parole arruffate, che non avevano né capo né coda, facevano del mio canto un vero lamento. Confesso di essermi lasciato trasportare dalla mia fantasia di musicofilo, dimenticando momentaneamente la caccia. C’è voluta una coppiola per farmi ritornare in me. Apro il gas della Vespa e dopo un buon quarto d’ora di strada raggiungo il posto stabilito per la battuta. L’aria abbastanza fresca, mi fa pensare al bello. Carico la doppietta con piombo sette in prima canna, cinque in seconda, e con l’aria di chi non aspetta altro che di sparare, inizio lentamente la mia cacciata. Mira è nella meliga dalla quale ieri sera erano frullate via due starne. Il risultato è stato negativo, segno evidente che il loro habitat non è lì. Ho continuato per una buona ora la mia battuta senza risultati, poi in uno stretto filare di meliga Mira si pianta in ferma. Cauto cerco di portarmi a tiro. Ci riesco. Mira, appena mi vede, muove lentamente, poi ferma di nuovo. Mi porto avanti al cane poi comando: “ Vai Mira “. Un bel fagiano parte. Coppiola: padella. Pare impossibile, eppure ho sbagliato. Mira, della mia padella non è convinta. “ Coraggio – le dico – ne troveremo ancora, vedrai “. » (Rocco Vitucci, Le mie padelle. Diario di un cacciatore, 1959) “.

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