di Alberto Casadei

[Esce oggi, per Il Saggiatore, Biologia della letteratura. Corpo, stile, storia di Alberto Casadei. Presentiamo qui una sintesi dell’Introduzione. Schede sui vari capitoli sono disponibili nel sito www.laboratoriodiletteratura.it]

1. Quali territori ha sondato la critica nel campo della letteratura e delle arti in genere, almeno a partire dalla loro completa rifondazione, tra la fine del xviii e gli inizi del xix secolo? Da un lato, la progressiva apertura a elaborazioni stilistiche sempre più libere ha generato una storia delle forme specifica e autonoma, specie nella fase delle avanguardie (con le ricadute ben note per le correnti formaliste in Russia e nei paesi slavi), e poi in quella degli strutturalismi-costruttivismi, addirittura sino alla loro implosione nel decostruzionismo statunitense. Dall’altro, la crescente importanza assegnata alla componente tematico-contenutista ha indotto a ritenere superato il rapporto fra l’uomo e l’opera, essenziale nella grande critica francese del pieno Ottocento, per indagare non tanto gli aspetti sociali e biografici della genesi letteraria, quanto le sue movenze profonde, in particolare con le varie correnti di critica psicanalitica; oppure la sua ricezione e il suo impatto fra i lettori di varie epoche, sulla base degli orizzonti d’attesa e delle ermeneutiche accertabili (per un quadro sintetico, cfr. Casadei 2009, cap. 3; Casadei 2011, parte i).

Questo panorama, valido sino agli anni Ottanta del xx secolo, ha subìto numerose e importanti modifiche nel corso del tempo, ma progressivamente si è ristretto attorno a due nozioni-guida. La prima è quella di testo artistico-letterario, indagabile alla maniera di molti altri prodotti segnici grazie agli strumenti della semiologia o semiotica, e in specie della linguistica saussuriano-jakobsoniana. La seconda è quella di interpretazione, resa necessaria dal fatto che le esegesi classiche, volte soprattutto alla definizione di aspetti semantici o retorici, non risultavano adeguate alla complessità e spesso oscurità dei testi moderni. La critica ha assunto un ruolo decisivo nel sistema delle arti almeno per un secolo (dalla fine del xix, ma si potrebbe risalire al periodo romantico), perché prometteva lo svelamento dei sensi nascosti di un testo, riconoscibili a vari livelli (psiche dell’autore, costrizioni ideologiche e sociali, trasgressione dei codici convenzionali ecc.); a partire dal trionfo dello strutturalismo, la promessa diventò anche quella di una spiegazione ‘scientifica’.

In ambito letterario, l’ideologia della testualità come dimensione autonoma, complanare benché non coincidente con le poetiche dell’art pour l’art, ha generato consapevolezze inedite riguardo agli aspetti non inclusi nella retorica classica dell’elocutio, e quindi ha spinto a indagare molto più ampiamente tutte le caratteristiche della dispositio, per esempio con le varie narratologie (Gérard Genette, Seymour Chatman, Franz Karl Stanzel ecc.) o con l’analisi semiotica di segni e sintomi letterari (Roland Barthes, Umberto Eco, Jurij Lotman ecc.). Sono stati poi proposti nessi tra l’organizzazione retorica e le movenze profonde dell’inconscio, sino a generare ricostruzioni complessive della creatività letteraria (Edmund Wilson, Gaston Bachelard, Northrop Frye, Peter Brooks, in modi autonomi Harold Bloom, in Italia Giacomo Debenedetti e Francesco Orlando ecc.). Le forme miste di analisi critica, e soprattutto quelle saggistiche, hanno inoltre permesso di indagare i legami fra gli stili, la tradizione e la psicologia dell’autore in senso lato, oppure fra ciascuno degli aspetti precedenti e l’evoluzione storico-sociale, con particolare attenzione non tanto al territorio dell’etica, come nella fase classicista, ma all’ideologia esplicita o implicita delle opere: i nomi che qui si potrebbero menzionare sono numerosi, da Spitzer ad Auerbach, da Benjamin a Adorno.

Ma nell’ultimo scorcio del Novecento si è instaurata una sorta di sfiducia negli strumenti della critica, di cui sono state poste in discussione non solo le recenti fondamenta ‘scientifiche’, soprattutto sulla scia di Derrida e delle sue varie riletture, ma anche la sostanziale autoreferenzialità, quasi che l’analisi di tratti formali-stilistici, o in genere semiotici, non conducesse a un’individuazione degli effetti significativi delle opere, che sarebbero invece ancorati alla loro sostanza del contenuto e all’impatto che essa può avere nel campo di potere socio-letterario. Su questa scorta sono nate correnti critiche che hanno indagato la letteratura secondo prospettive diverse da quelle sin qui indicate, per esempio quelle dei vari Cultural studies, che si sono specializzati in ambiti quali gli studi postcoloniali, gender, tematici in senso lato e così via. Come ha sottolineato Edward W. Said nell’Introduzione alla sua raccolta Nel segno dell’esilio (Said 2000), si trattava di reimpossessarsi materialmente della funzione simbolica della letteratura nell’immaginario delle varie società, peraltro spesso equiparata a quella di documenti non elaborati artisticamente: ciò ha prodotto una drastica riduzione dell’analisi ravvicinata delle opere, che solo nei casi migliori (Said, Moretti, Spivak) è stata compensata da intuizioni sulla loro costituzione intrinseca ovvero stilistica. Possono essere originali i risultati di demistificazione foucaultiana delle forme di potere-repressione, ma in ogni caso si è persa quasi interamente l’attenzione al fatto letterario in quanto prodotto autonomo e in sé compiuto.

In questa condizione di effettiva debolezza della critica letteraria (e artistica) nella sua autonomia, non bastano le rivendicazioni veteroumanistiche, in particolare ristrette ai classici della cultura occidentale, ma occorre riproporre un ruolo della letteratura e delle arti che non sia limitato alla segnalazione di storture ideologico-sociali. Molti dei punti effettivamente centrali erano stati segnalati da Heidegger (con un’enfasi però eccessiva sull’Originarietà del Linguaggio), Gadamer, Ricoeur e Steiner: in generale con le questioni da loro poste, e soprattutto con due saggi steineriani (2001, 2011) dedicati alle modalità della creazione artistica e alle relazioni fra il pensiero letterario e quello filosofico, ci si deve tuttora confrontare, allo scopo di fornire un quadro interpretativo ulteriore, rispondente all’archeologia del sapere attuale. Questo potrebbe consentire di reintrodurre le attività artistiche nel circuito socio-culturale contemporaneo, senza alcun ‘pregiudizio’ ricollegabile all’ideologia dell’umanista che afferma la prevalenza della sua visione del mondo perché in grado di comprenderlo e non soltanto di spiegarlo.

2. Per procedere oltre lo statu quo è necessario ripensare i processi artistico-letterari su nuove basi, che permettano di inserirli in un continuum biologico e storico indagato in tutti i suoi aspetti: occorre partire dai presupposti emotivi e cognitivi, analizzando poi quanto pertiene al simbolico e al processo stilistico, compresi i modi e i limiti della mimesis (cfr. Bertoni 2007; Di Santo 2016), per arrivare alla ricezione immediata e di lunga durata delle opere, e in particolare dei cosiddetti ‘classici’. Nel campo della critica letteraria, su questa strada si sono avviati da oltre un ventennio gli studi definiti sotto l’etichetta di Cognitive poetics, peraltro parecchio differenziati al loro interno (per una ricostruzione di questo settore, cfr. almeno Stockwell 2002, 2012). In tale filone spesso sono stati applicati agli studi letterari paradigmi ricavati dalla linguistica cognitiva, soprattutto sulla scorta delle teorie di George Lakoff (a partire dai lavori degli anni Ottanta), ma sono state poi sviluppate ricerche originali, in particolare sul versante del rinnovamento della narratologia e della concezione stessa del narrare (si vedano le voci del Living Handbook of Narratology); nonché su quello della metaforicità e iconicità del linguaggio poetico, esaminato al di fuori dei vincoli jakobsoniani (cfr. Schrott e Jacobs 2011). E si può anzi notare che, rispetto alla distinzione già di Vico tra metafore ‘quotidiane’ e metafore ‘magiche o poetiche’, si sta arrivando a una progressiva delimitazione di campo e di efficacia (se ne riparlerà a proposito del problema dell’obscurisme in letteratura).

In generale, l’ampia gamma di studi che si collocano o sul versante del Literary Darwinism o su quello del Literary Cognitivism si è ultimamente concentrata sui processi cerebrali e corporei connessi alla genesi e soprattutto alla fruizione dei testi letterari (specialmente narrativi), producendo numerosissime acquisizioni sul versante della teoria e dei modelli, e cominciando a unire ambiti sinora separati come quelli dell’organizzazione testuale e della ricezione (per aggiornate e ricche sintesi, cfr. Zunshine 2013; Cometa 2017; sui pro e contro del darwinismo direttamente applicato agli sviluppi dell’arte e della letteratura, cfr. Carroll 2004 e già Iser 1993). Tuttavia, alcune specificità dell’elaborazione artistica rischiano di essere subordinate al riconoscimento di costanti biologico-cognitive universali.

In effetti, se forti sono gli stimoli che possono derivare da queste metodologie ancora fluide, non mancano però i saggi che già assolutizzano alcune ipotesi euristiche, per esempio quelli che tendono a inserire l’attività artistico-letteraria in una prospettiva di matrice darwiniana, considerando principalmente la sua utilità nell’ambito dell’evoluzione culturale, per esempio come veicolo di contenuti sacrali o taboo. Ciò sembrerebbe fornire giustificazioni alle numerose differenze diacronicamente riscontrabili nelle funzioni delle arti e specialmente della letteratura: quest’ultima verrebbe continuamente riconvertita secondo un processo di exaptation (iuxta Jay Gould). Un esempio di riadattamento è rappresentato dalla radicale svolta avvenuta tra Sette e Ottocento, quando la lirica e il romanzo cominciano a intercettare prima la biografia reale degli autori, non una sua selezione sublimata, e poi addirittura i suoi aspetti patologici e i traumi inconsci, inesprimibili in un discorso razionalmente organizzato. Ma, a parte le oggettive difficoltà ad applicare princìpi evolutivi all’ambito culturale, come dimostra la scarsa tenuta del concetto di gene culturale o meme, negli studi di questo filone (nonostante le considerazioni dei sostenitori: cfr. Jouxtel 2005 e, per un’ampia ricognizione, Distin 2010), si nota spesso una scarsa attenzione alla fase simbolico-stilistica, che introduce un’indispensabile configurazione della materia del contenuto e che deve essere esaminata specificamente.

In questa prospettiva, le ricerche più recenti sintetizzate nel volume miscellaneo Cognitive Literary Science (cfr. Burke e Troscianko 2017) hanno posto in evidenza la necessità di approfondire in campo letterario alcuni concetti trasversali delle scienze cognitive (i Big Six: embodiment, emotion, immersion, mental imagery, simulation, social cognition) e insieme i limiti entro cui ciò può essere fatto (si vedano, nel volume, i contributi di M. Hartner, pp. 17-34, e A. Jacobs, pp. 303-325). Alcune delle proposte risultano del tutto condivisibili, per esempio quella di determinare condizioni di diverso livello, nella consapevolezza che un higher level può generare effetti non riducibili alle sue singole componenti. Tuttavia manca ancora un quadro epistemologico d’insieme in cui collocare le singole acquisizioni, specie se ricavate attraverso l’analisi del proprium di ogni creazione artistica, ossia l’esito stilistico (su cui si tornerà nel Capitolo 3).

Analizzare soprattutto la fase della stilizzazione, in una dimensione biologico-cognitiva e insieme storica (nella convinzione che la biologia si estrinseca nella storia, senza essere superata o rimossa), potrebbe contribuire ad aprire una nuova via verso la consilience fra le scienze e le discipline umanistiche che già nel 1998 il biologo Edward O. Wilson proponeva come concreta risposta alla deleteria divisione fra le due culture, esito non inevitabile di una progressiva radicalizzazione della Weltanschauung scientista. I concreti esempi e le ipotesi di Wilson potevano dare adito a numerosi tipi di obiezioni sul piano filosofico, dato che spesso proponevano analogie piuttosto generiche tra visioni del mondo distinte, come le tante che manifestano un passaggio dal disordine (Kaos) all’ordine (Kosmos) o viceversa. Tuttavia, è stato largamente accolto il proposito di ricondurre a livelli di comunicazione sempre più complessi i rapporti fra una mente umana, intesa come incorporata (embodied), e l’ambiente esterno in tutte le sue varianti (sulla scorta dei lavori ormai classici di Eleanor Rosch, Francisco Javier Varela e altri, si veda ora, per una sintesi anche delle caratteristiche dell’enattivismo, Caracciolo 2014; in particolare, per un’applicazione al versante della narrativa, Hutto 2008; si vedano anche Hutto e Myin, 2012 e 2017).

Il processo comunicativo comincerebbe a livello materiale (cfr. Lloyd 2006), con i passaggi 0>1 riscontrabili a partire dalle particelle subatomiche e sino agli elementi chimici, ma proseguirebbe in configurazioni a complessità crescente fino al cervello umano, con i suoi miliardi di neuroni collegati tramite sinapsi, e poi nelle modalità di scambio informativo in ogni ambito della biologia in senso ampio (per una sintesi critica, cfr. Godfrey-Smith 2014, pp. 144-157): si potrebbe sostenere che in qualche modo esso trovi corrispondenze negli scambi informativi tra individui favoriti anche dai loro manufatti, media (nel senso ricco di McLuhan, ora rielaborato in Peters 2015) che si sono via via resi sempre più smart per giungere alle complessità attualmente più alte, quelle offerte dalla tecnologia del Web e del Cloud (anche in quanto forme simboliche della nostra epoca: cfr. Capitolo 5), e dall’arte in tutte le sue forme antiche e contemporanee.

Sulla scorta di queste considerazioni, tenteremo qui una ricognizione dei presupposti biologici sicuramente attivi nella creazione artistico-letteraria, in specie quelli emotivo-cognitivi: specifichiamo che, per semplicità, useremo in genere solo il secondo aggettivo perché anche le emozioni, in una prospettiva anticartesiana e spinoziana, veicolano particolari conoscenze al limite come proustiani «soulèvements géologiques de la pensée» (cfr. Damásio 1999, 2010; Nussbaum 2001; si vedano anche Siegel 1999; Hogan 2011 e l’ampia analisi di Burke 2011, cui faremo spesso riferimento). Lo scopo principale sarà quello di indagarne le fasi generative (l’ispirazione o inventio), per arrivare a verificare sotto quali spinte e attraverso quali mezzi essa si è determinata storicamente e si sta evolvendo anche nel presente. L’esposizione non potrà che essere saggistica, perché non verranno esaminati esiti di singoli esperimenti (ma ovviamente tutti quelli più rilevanti saranno menzionati), bensì osservazioni e ipotesi sugli elementi di consilience fra i dati e le evidenze (neuro)scientifiche, che indicano per ora molto parzialmente alcuni processi del funzionamento cerebro-mentale, e le poetiche o le teorie critiche, che lavorano su alcuni prodotti umani di tipo artistico ma senza tener conto a sufficienza della loro genesi biologico-prerazionale, se non per aspetti parziali, per esempio i disturbi psichici di molti artisti moderni, e comunque all’interno di riduzionismi interpretativi ormai inaccettabili (l’opera come prodotto diretto di un’epoca storica, o come insieme di tratti puramente formali, o come feticcio imposto dal mercato ecc.). Proprio le carenze appena indicate spingono a tentare di costruire un mosaico che si comporrà di cinque zone (i capitoli di questo libro) e di numerosissimi tasselli, per inserire le arti e in particolare la letteratura in un processo biologico-storico che permetta, sulla scorta di progetti già di Gregory Bateson (cfr. almeno Mente e natura, 1979, e Dove gli angeli esitano, 1988; e si vedano ora le considerazioni di Ingold 2001, 2015) di vederne la rispondenza con le varie forme di creatività e, per usare un vocabolo di Raimondo Lullo, di homificatio, la continua elaborazione umana sul e nel mondo.

3. Questo saggio non è quindi dipendente dalle attuali ricerche sulle attività cerebrali connesse alla percezione estetica, e nemmeno accoglie un riduzionismo che ricondurrebbe le sensazioni o gli avvertimenti pre-razionali del bello a percorsi neurali e a cambiamenti di equilibri chimici. Non che risulti in generale irrilevante lo stabilire i limiti fisiologici di specifiche funzioni cerebrali, così come, sotto altri rispetti, indagare le implicazioni della configurazione della laringe umana o della possibilità di impiegare il pollice opponibile (per un’ampia bibliografia sulle ricadute nel campo dell’estetica, cfr. Consoli 2015; Marin 2015). Tuttavia l’interpretazione dei fenomeni artistico-letterari inizia là dove i presupposti biologico-cognitivi implicati (cfr. Capitolo 1) vengono finalizzati a un riuso simbolico, e in specie a una selezione e a un ritagliamento del reale attraverso una stilizzazione che veicoli nuclei di senso dotati di una capacità attrattiva, quindi marcati grazie a un elemento attrattore o anche punctum (cfr. Capitolo 2). Si tratterà quindi di indagare funzioni simbolico-stilistiche secondo una prospettiva inedita, quella appunto che le identifica come ‘proprietà di livello più alto’ (higher-level properties), ossia in grado di sublimare o di combinare singoli presupposti o propensioni, in modo da generare forme semplici e marcate, e successivamente forme sempre più complesse, in rapporto a una progressiva crescita interpretativa e culturale nell’interazione individuo-mondo (cfr. Capitolo 3).

Dopo gli studi pionieristici di Uexküll (specie 1928; si veda anche 1934), che com’è noto furono oggetto di riflessioni acute da parte di molti fenomenologi, di Heidegger e anche di Gehlen in L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (cfr. Gehlen 1940), in biologia e in antropologia è ormai considerato fondamentale comprendere le modalità di interazione tra un essere vivente e l’Umwelt, non tanto l’ambiente generico bensì il suo mondo personale di esistenza, in parte preesistente e in parte rimodellato sulla base delle proprie caratteristiche (per una sintesi, cfr. Pinotti e Tedesco 2013, specie pp. 175-191, dove peraltro si ricorda l’importanza anche estetica di tenere in considerazione l’individualità delle forme viventi nel loro ambiente). La componente dinamica introdotta non sulla linea evolutiva della diacronia assoluta, ma della diacronia breve della vita individuale, interviene come fattore decisivo per giustificare i cambiamenti degli organismi dovuti alle interazioni dapprima biologiche, e poi anche socio-culturali: ed è per questo che è stata più volte prospettata, nel corso degli ultimi decenni, una filosofia della biologia. Essa ha fornito per esempio nuove considerazioni per sostituire le leggi meccanicistiche con altre flessibili e variabili, che rispettino soprattutto la necessità della comunicazione e dello scambio fra esseri viventi, ognuno dotato di una sua propria cultura se non altro in quanto comportamento sociale (cfr. Godfrey-Smith 2014). Nozioni originali sono state introdotte anche per giustificare la realizzazione di entità e competenze higher level, come quella di ‘emergenza’, che prevede un’elaborazione durante l’ontogenesi allo scopo di disporre l’evoluzione individuale nella direzione più adatta alla sopravvivenza nell’ambiente: dunque, un tendere (anche nel senso di Streben) che giustifica l’attenzione o quanto meno l’orientamento verso determinati fenomeni esterni, favorevoli o meno (cfr. Michelini e Davies 2013; Cadotte e Davies 2016). Nella direzione che qui verrà seguita sono inoltre da ricordare gli studi di Karl Eibl, in parte riuniti e riproposti di recente (cfr. Eibl 2016a, 2016b, per una ricognizione dei concetti che possono legare l’evoluzione e la cognitività all’ambito artistico).

Gli assunti precedenti sono tanto più adattabili a una ricerca sulla configurazione delle arti in una dimensione biologico-cognitiva perché non impongono spiegazioni totalizzanti e rapporti vincolati, ma tengono invece conto di propensioni e linee di forza che tuttavia possono complicarsi sino a diventare frattali, e a quel punto raggiungere una complessità adeguata per affrontare i fenomeni artistici. Di fatto, l’attuale pur grande stagione degli studi neurologici non è di per sé sufficiente a far considerare superate le strategie top-down di un’analisi critica artistico-letteraria che per esempio parta da opere altamente elaborate per riconoscere i singoli aspetti rilevanti (snodi, elementi attrattori ecc.) che magari sono stati generati grazie a particolari elaborazioni stilistiche di stimoli corporei. Le sintesi come quelle di Ramachandran (2003) o Zeki (2009), pur segnalando correttamente gli aspetti del funzionamento cerebrale che più interagiscono con la creazione e la fruizione delle opere d’arte, non sono in grado di giustificare la specificità delle realizzazioni stilistiche, persino tenendo conto delle condizioni ambientali e sociali in cui un’opera è nata.

Come vedremo meglio, i possibili presupposti biologico-cognitivi vengono invece non solo potenziati, ma addirittura consciamente o inconsciamente elaborati grazie a un’azione pre-razionale del cervello ‘incorporato’: quest’azione, inizialmente, può essere innescata dalle emozioni forti, dai traumi o anche dalle acquisizioni meravigliose, ossia ricollegabili allo zauma, il ‘terrore-stupore’ che genera, per Aristotele, desiderio di apprendimento e quindi filosofia. Il problema è appunto quello di indagare come queste e altre componenti (sensazioni o sentimenti collettivi e personali) vengano sussunte in una stilizzazione che non è in alcun modo una mera operazione formale, ma riguarda il ritagliamento e la trasmissione di nuclei di senso concreti o astratti. Per la letteratura e le arti, molti studi hanno segnalato singole componenti di questo processo, ponendo in rilievo le connessioni fra le aree e le funzionalità cerebrali nell’azione creativa (per l’articolatissima bibliografia si rimanda agli approfondimenti finali). Manca tuttavia un tentativo di inserire le osservazioni parziali in un quadro d’insieme che provi a connettere presupposti corporei, modi dell’elaborazione stilistica (cioè delle forme e dei contenuti), ricezioni e riletture storiche.

Sono in ogni caso ormai condivisi alcuni assunti epistemologici molto lontani da quelli dominanti nella stagione strutturalista e cognitivista-computazionale, per esempio la gradualità/scalarità dei fenomeni (da precisare concettualmente a seconda degli ambiti di indagine), la non opposizione tra natura e cultura (o, se si vuole, tra biologico e simbolico), la non riducibilità del fenomeno artistico a costanti transtoriche (e nemmeno alle sole circostanze storiche) ecc. Ancora, pur essendo chiari gli intrecci fra disagio psichico personale e sociale e forme di arte moderna (molto più problematica l’analisi di quella antica, specie per i filtri introdotti dai codici retorici, dai topoi e in generale dalle forme di attenuazione o Dämpfung), si è ormai sicuri che non è possibile ricondurre la creazione artistica a determinate patologie, sia pure spesso rilevanti nel concentrare e innescare i processi creativi (cfr. Jamison 1993; Sacks 2010). Tutto ciò ha prodotto o sta producendo forti ripensamenti sul versante dei grandi sistemi interpretativi tardomodernisti (dalla psicanalisi come disciplina universale – cfr. Kandel 2012 –, alla linguistica, alla semiotica: cfr. Durst-Andersen 2011). Nello stesso tempo, le analisi di tipo cognitivo sono state sottoposte a verifiche riguardo ai fondamenti epistemologici ed ermeneutici (cfr. De Vos e Pluth 2016), e sono state adattate a una migliore interazione con i contesti storico-sociali (cfr. Bruhn e Wehrs 2014).

4. Predisposta questa serie di premesse, occorre sottolineare meglio almeno alcuni tratti che caratterizzeranno il taglio specifico di questa ricerca. In primo luogo, i presupposti riguardanti il livello biologico-cognitivo verranno, come si è accennato, reinterpretati alla luce del codice simbolico attivo sin dalle origini delle arti, che si può definire stilizzazione (cfr. Capitolo 2). È attraverso quest’operazione che è possibile progressivamente caricare di significati ulteriori prodotti che, in prima istanza, rientravano nei rituali collettivi come semplici strumenti o al limite feticci. L’entità dotata di un’elaborazione stilistica diventa attrattiva e risulta adatta per veicolare nuclei di senso che possono essere tramandati di generazione in generazione, creando una sfera ambientale condivisa che, da indifferenziata-collettiva, tende a divenire comunitaria (si pensi ai racconti epico-mitologici) e poi sopra-individuale (ossia somma di microsfere individuali). Il termine ‘sfera’ rimanda qui all’ampia analisi di storia della cultura compiuta tra il 1998 e il 2004 da Peter Sloterdijk (nella sua trilogia Sfere), e ha senz’altro il vantaggio di porre in connessione una precisa fase dell’Umwelt umana, quella della vita fetale intrauterina, con la costante propensione a creare sfere simboliche dapprima nel proprio habitat e poi nel mondo intero, fino ad arrivare alle varie ideologie della globalizzazione. L’elemento che qui interessa è appunto il passaggio attraverso ambiti diversi (le bolle, i globi, la schiuma), che rendono pertinente un legame profondo tra fatti biologici e simbolizzazioni; rispetto alle brillanti formulazioni linguistiche di Sloterdijk, si cercherà però di definire il più possibile le connessioni tra presupposti biologici e stili effettivamente realizzatisi nelle varie epoche, intese appunto come sfere che rappresentano in astratto la condizione storica. Non a caso, la nostra si lascia definire, più che attraverso l’immagine della liquidità o quella della connessione rizomatica, dalla sfera del Web-Cloud digitale che avvolge ormai il globo terrestre (basti osservare una qualunque forma di visualizzazione dei big data) e che apparentemente cancella ogni rapporto con i fondamenti biologico-cognitivi e stilistici (ma su ciò si tornerà nel Capitolo 5).

Un altro aspetto che risulterà essenziale è la possibilità per l’arte di fissare eventi che siano nuclei di senso pieni (accadimenti ritagliati dall’insieme spaziotemporale) o vuoti (invenzioni, stravaganze, oscurità che possono addirittura cancellare il mondo esterno e riformularlo secondo possibilità a-logiche o anti-logiche), dunque realistico-mimetici oppure immaginari-simbolici, da collocarsi in una disposizione graduale e non meramente oppositiva (su ciò si tornerà nel Capitolo 1). Questa propensione, prevista nelle attuali concezioni teoriche dell’evento (cfr. soprattutto Badiou 1988; Žižek 2014), corrisponde a una capacità distintiva che si forma lentamente a livello evolutivo (come ricordava Henri Laborit almeno dal 1970 col suo L’homme imaginant) e si connette all’espressione qualitativa dei nuclei di senso, che è quella propria delle arti: del resto, come già ricordava Hermann Fränkel in un suo celebre saggio, l’opposizione greca tra poesia e filosofia, inesistente per gran parte della fase presocratica, diventa radicale quando la prima si concentra sugli attimi fuggevoli dell’esistenza e la seconda sulle regole permanenti e razionali (cfr. Fränkel 1969, p. 378). Ma gli eventi letterari sono appunto unici e puntuali, anche quando scritti per durare.

Implicitamente, è lecito considerare qualia le descrizioni soggettive della realtà ottenute esplicitando le risonanze di sensazioni o esperienze o, bisogna aggiungere, immaginazioni, che integrano e non elidono la percettività. Si tratta com’è noto di un concetto tuttora sottoposto a forti assestamenti (pur dopo decenni di ricerche che, idealmente, rimontano sino a Bergson), e che però si presta a un lavoro autenticamente interdisciplinare fra varie scienze e critica artistico-letteraria. Se l’ontologia dei qualia può essere discussa (si vedano, su un versante neurologico che implica le forme di coscienza-controllo higher level, Edelman e Tononi 2000, e anche Solms e Turnbull 2002; più delimitati Siegel S. 2011 e Brewer 2011; sul versante letterario, un’applicazione pratica è riscontrabile in Lodge 2002), è indubbio che la possibilità di tracciare descrizioni e metafore delle proprie specifiche sensazioni, comprensive delle fantasie, è uno dei caratteri comuni a ogni arte tanto da costituire probabilmente l’archè di ogni ispirazione. Ma quest’ultima diventa dicibile solo attraverso il processo di stilizzazione, che può veicolare in modi attrattivi anche i nuclei di senso più oscuri. Si tratta quindi di indagare i rapporti fra la materia del contenuto, enucleata in eventi (in senso lato) qualitativamente significativi, e la sua estrinsecazione caratterizzante-attrattiva.

Restano ovviamente da indagare scientificamente le modalità dei passaggi che conducono dai fondamenti e dalle propensioni biologiche a entità simboliche e a costruzioni complesse: è per esempio un problema affrontato da António R. Damásio esaminando il passaggio da una coscienza nucleare e un core self a una configurazione più strutturata e a un autobiographical self (già in Damásio 1994), che costituirà anche in questo lavoro un modello concreto. Tuttavia, lo spazio specifico dell’operazione stilistica è individuabile anche sul versante fenomenologico, e anzi può fornire, se indagato in una prospettiva di consilience, un caso importante per ulteriori approfondimenti riguardo alla permeabilità e all’osmosi fra il livello biologico-inconscio e quello culturale-conscio, specie nell’ambito delle varie attività creative, artistiche o scientifiche che siano (su ciò si vedano almeno Midgley 2001; Turner 2006; per una sintesi, Runco 2014). Anche la materia dei sogni va plasmata.

La possibilità di calibrare gli effetti delle rese stilistiche (nel senso ampio indicato) in termini storici verrà sondata attraverso un’indagine mirata, in relazione alla questione dei classici, ossia dei capolavori di lunga durata in letteratura e nelle arti (cfr. Capitolo 4). Palesemente, queste opere non sono riducibili alla moda e al contesto che le ha generate, dato che vengono riprese e reinterpretate a distanza di più generazioni. I motivi di tipo ideologico e socio-culturale idonei a spiegare il fenomeno sono stati opportunamente sondati da molte angolature (cfr. almeno Fortini 1978; Settis 2004; Martindale e Thomas 2006 e, per una serie di osservazioni a partire da Gadamer, Blanchot e Derrida, Aquilina 2014), ma bisogna considerare anche aspetti sinora non evidenti. Anticipando l’analisi, si può intanto ipotizzare che i capolavori lascino aperte sinapsi dovute alla loro particolare stilizzazione e alla densità dei loro nuclei di senso/elementi attrattori, e che tali sinapsi possano essere completate quando intervengono prospettive cognitive inedite (per esempio, si coglie la rapidità del montaggio narrativo in un episodio del poema dantesco dopo che è diventata familiare grazie al cinema).

Ciò spinge a cercare nuove definizioni di ‘classico’. D’altronde, persino i grandi ideali umanistici che sostenevano una concezione dei classici come modelli, specialmente ma non necessariamente antichi, validi come canoni di bellezza, e quindi di moralità, sono ormai soggetti a una forte demistificazione: essa si collega, nel contesto dell’attuale globalizzazione iniziata dopo la fine della Seconda guerra mondiale, al fatto che le Weltanschauungen occidentali e in specie eurocentriche sono state sottoposte a una revisione ideologica radicale. Il concetto di tradizione è ormai da reinterpretare ben diversamente rispetto alle ancora salde convinzioni di Eliot (cfr. Eliot 1921, 1944-1945), eventualmente virate nel senso della mobilità della ricezione (cfr. Kermode 1975, 1985), ma anche rispetto alle riflessioni filosofiche di Gadamer o a quelle contrapposte, nell’ambito del razionalismo critico, di Habermas (cfr. almeno Gadamer 1993; Habermas 1981). Nella condizione socio-culturale sottoposta a un processo di modificazione incessante e variabile, creatasi effettivamente con il Web-Cloud, ogni assunto ‘tradizionale’ sembra destinato a perdere la sua consistenza e a diventare liquido, nelle arti così come nelle altre discipline. Ma, pur accettando le sintesi sociologiche recenti in questo campo (come quelle, molto fortunate, di Zygmunt Bauman, su cui si veda Jacobsen 2016), nel Capitolo 5 si sottolineerà il fatto che nella nuova ‘sfera’ globale-virtuale continuano ad agire alcuni motori economici consolidati, ormai iper-capitalistici, ed è opportuno o necessario aprire nuove vie per arrivare a riproporre forme di stilizzazione biologico-cognitiva e culturale non semplificate, ma anzi capaci di generare ibridazioni artistiche ricche e irriducibili al mainstream del pensiero unico.

Appendice: L’indice del libro

Premessa. Nota ai testi

Introduzione. La materia dei sogni

I. Fondamenti biologico-antropologici in campo artistico: dai pittori nelle grotte agli autori del Gilgamesh

II. Lo stile come attrattore: le forme, i simboli, il punctum

III. Generatori e limiti: l’eventfulness e l’oscurità nella letteratura

IV. Il senso o il peso della storia: come si diviene / come si rimane un classico

V. Web-Cloud: una conclusione sulla e nella contemporaneità

Congedo. Ulisse salvato, ovvero: il Mito continuato nel Globale

Riferimenti bibliografici

Aquilina, M. (2014), The Event of Style in Literature, Palgrave-MacMillan, Basingstoke.

Badiou, A. (1988), L’essere e l’evento, trad. it. Il Nuovo Melangolo, Genova 1995.

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[Immagine: Jaakko Kahilaniemi, Studies in Romanticism and Patriotism (Visions of NatureKunst Haus Wien 2017)].

 

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