di Andrea Cortellessa

«Ci vuole un secolo o quasi […] / Ci vuole tutta la fatica tutto il male / Tutto il sangue marcio / Tutto il sangue limpido / Di un secolo per farne uno». Così riporta Sereni, in Stella variabile, quanto diceva del poeta (di ogni poeta) Ungaretti. Lo stesso strillerà Moravia ai funerali di Pasolini: «di poeti non ce ne sono tanti, nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo […]. Il poeta dovrebbe esser sacro». Il poeta, insomma, figlio del suo secolo. Consustanziato del suo sangue: in tutti i sensi, anche i più terribili, di quest’espressione. Di sé, e della sua famiglia massacrata, dirà Amelia Rosselli: «siamo figli della guerra». L’accento prepotente con cui la poesia ci vulnera e ci sferza, da questo deriva: dalla risoluzione morale con cui si riconosce, senza alibi, figlia di una storia: della storia letteraria, e di quella senza aggettivi. Riconoscendo i segni di una genealogia che magari, con una parte di sé, rifiuta o addirittura esecra. «Ognuno riconosce i suoi», diceva quell’altro poeta.

Di questo parla il formidabile terzo libro di Davide Orecchio: che un marketing furbo, e dunque sciocco, ha portato in libreria alla vigilia del centenario della Rivoluzione cui s’intitola. Come se un libro siffatto si potesse digerire d’un fiato, nei tempi ridicolinizzati dell’infotainment. La scrittura di Orecchio – volitiva e tambureggiante come un fante dell’Armata Rossa all’assalto; ma anche screziata, come di chi il DNA della poesia, appunto, si ostini a portare nelle storie – è il prodotto di una macerazione interminabile. Dunque la si deve assumere a piccole dosi, dandole tempo di echeggiarci dentro; di riverberare in quello che siamo, e forse abbiamo dimenticato di essere. Facendoci davvero ricordare, insomma, di chi siamo figli. Chi dice che scriva «troppo bene» (così è capitato di leggere), lo fa dal grigiore cui è coatto da una fiction industriale che in tal modo omaggia (si sarebbe detto una volta) «oggettivamente».  

Come ha ricordato Marcello Flores, il mito della rivoluzione d’Ottobre fu l’esito tanto di un progetto cinico che di una, oggettiva appunto, necessità storica. Sono le due facce di una storia insieme gloriosa e infame. E in questi undici più uno, iperdocumentati racconti (dodici, già, come nel celebre poema di Blok), nulla si nega: né di quella gloria, né di quell’infamia. Una rivoluzione, quella d’Ottobre, che (per scherzo dei diversi calendari) si consumò in Novembre: allegoria perfetta di una storia da subito tradita, appunto, dal suo mito. Mitico, fra tutti, il protagonista di Orecchio: Trockij – il «profeta armato» della Rivoluzione, il grande sconfitto, l’esule, la vittima esemplare di colui che per antonomasia, di quella Rivoluzione, fu il traditore. Nei decenni seguiti a quel giorno del ’40 in cui Mercader, il sicario di Stalin, lo raggiunse in Messico e gli sfondò il durissimo cranio con una piccozza da ghiaccio, non è mai mancato il what if su quale piega avrebbe preso, la Rivoluzione, se invece del «montanaro del Cremlino» dai «baffetti da scarafaggio» (come ritrasse Stalin, nei versi che gli costarono la vita, Mandel’štam; Orecchio lo immagina, invece, come un Golem robotico) fosse succeduto, al «padre» Lenin mummificato, l’indomito guerriero dagli occhi lampeggianti e la chioma leonina. È una pia leggenda, un mito appunto, quello del «buon» Trockij: se tanto lo odiava, il «cattivo» Stalin, era soprattutto per l’angoscia della sua influenza. Fu proprio Trockij – soffocando nel sangue, nel ’21, la rivolta dei marinai di Kronstadt che proprio alla sua parola d’ordine della rivoluzione permanente s’ispiravano – a spingere la storia oltre il punto di non ritorno dell’orrore. Fu il gran tradito, a tradire per primo.

Orecchio, che su Trockij ha letto tutto e s’è spinto sulle sue tracce in Messico, lo sa meglio di ogni altro. E ciò malgrado è alla forza del mito che si, e ci, consegna: «Trockij è il mio astrattissimo eroe del what if, contro il Trockij storico io conservo il mito di Trockij». Un Trockij che immagina sopravvissuto, per esempio, nel ’56 in cui Chruščëv denuncia i crimini di Stalin alla tribuna del PCUS. O su cui immagina – e quasi compone – un intero album di un Bob Dylan alternativo. Il ribadito etimo fantastorico di Borges, infatti, si tinge qui d’una vena ucronica che pare uscita, piuttosto, da Philip K. Dick (uno che Borges, del resto, se l’era letto senz’altro): come nell’orribile e fantasmagorica sintesi-metafora di Stalin e Hitler.

I percorsi alternativi della storia, questi futuri mai stati (è di Orecchio un conio irresistibile, «disavvenire»), non sono mai, però, mero divertissement postmodernista fuori tempo massimo. Sono il segno, o il sogno, di una storia che poteva davvero essere diversa (come dice lo splendido racconto su Abraham Plotkin, o quello commovente su Rosa Luxemburg). C’è una volontà di sapere ostinata e struggente, in chi si sa estraneo alla storia del secolo più sanguinario e fiero e terribile della storia, ma di esso si considera, in tutti i sensi, figlio. E, per un solo apparente paradosso, una fedeltà accorata quanto severa proprio alla disciplina che, in tutti i modi, si parrebbe invece voler sovvertire; come nell’esergo da Marx che suona: «quasi tutta l’ideologia si riduce o a una concezione falsata di questa storia o a un’astrazione completa da essa». La storia, sì. Città distrutta (in tal senso andava letto il titolo dell’opera prima di Orecchio, Città distrutte, che dopo insensate traversie, nel 2012, finalmente approdava ai lettori) ma anche ricostruita, una magnifica pagina dopo l’altra. Con pietà pari alla spietatezza, con speranza figlia della disperazione. È bellissimo quanto atroce, che le ultime parole del testamento di Trockij inneggino allo splendore della vita.

Davide Orecchio, Mio padre la rivoluzione, minimum fax, 313 pp., € 18

[Una versione più breve di questo articolo è uscita il 9 dicembre su «Tuttolibri»].

 

[Immagine: Dimitri Bal’termanc, Attacco].

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