di Andrea Cortellessa

[Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias». il 7 gennaio. Domani alle 15, Andrea Cortellessa parteciperà alla giornata di studi su Luigi Ghirri e Paolo Icaro Le pietre del sogno, a cura di Chiara Bertola e Giuliano Sergio, alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Ai lavori parteciperanno anche Paolo Icaro, Arturo Carlo Quintavalle e Lara Conte (autrice di Paolo Icaro. Faredisfarerifarevedere, Mousse Publishing 2016)]

Con un quanto di superstizione, come sempre in questi casi, non riesco a non notare come per arrivare alla piccola quanto importante mostra di Luigi Ghirri, al MAXXI di Roma (Atlante, a cura di Margherita Guccione, Bartolomeo Pietromarchi e Laura Gasparini, chiusa il 21 gennaio), si dovesse passare per l’assai diversa, ma non meno bella, Gravity (dedicata all’«Immaginare l’universo dopo Einstein»), e poi per il grande atlante stellare di Anselm Kiefer (Sternenfall, 1998), che fa parte della collezione permanente del museo. La prima e le ultime delle 41 fotografie (di recente ritrovate) che Ghirri raccolse nel 1973 in un libro d’artista intitolato Week End, e vennero poi esposte col titolo Atlante nella sua prima grande personale (quella curata a Parma, nel ’79, da Arturo Carlo Quintavalle), sono a loro volta, infatti, immagini di stelle. La prima è presa appunto da un atlante astronomico (con segnati i nomi delle costellazioni: HOROLOGIUM, SCULPTOR ecc.), le ultime due invece parrebbero riprese “dal vero”, rivolgendo l’obiettivo verso il firmamento (così anticipando la più celebre serie dell’anno seguente, Infinito, coi 365 cieli diurni ripresi uno al giorno).

E proprio questa dialettica – fra rappresentazione segnica del mondo e sua riproduzione diretta – è a ben vedere il tema di Atlante, come in generale del primo Ghirri. Salendo lungo le scale del MAXXI si leggeva, scritta sul muro, una sua frase: «tutti i viaggi possibili sono già descritti e gli itinerari sono già tracciati […] il solo viaggio possibile sembra essere oramai all’interno dei segni, delle immagini: nella distruzione dell’esperienza diretta». La premessa concettuale Ghirri la esplicita nel ’78, nel testo che accompagnava Kodachrome: quando erano state pubblicate le foto della Terra riprese dallo spazio, nel ’66, si era avuta «la prima fotografia del Mondo», comprensiva di tutte le sue «immagini precedenti, incomplete […]: graffiti, arabeschi, dipinti, scritture, fotografie, libri, film». Con Lo sguardo dal di fuori di cui parlerà di lì a poco Alberto Boatto, trovava una conferma eloquente il paradigma malinconico della «Fine dei viaggi», enunciato già nel ’55 dal Lévi-Strauss di Tristi tropici. Verso la fine della sua parabola Ghirri sintetizzerà questa malinconia, condendola d’un testamentario senso di urgenza, con parole di Cézanne (rubate a un documentario di Wenders), augurandosi che «avesse torto quando diceva: “tutto sta scomparendo, bisogna far presto se si vuole vedere ancora qualcosa”». Distrutta l’esperienza diretta (come già aveva mostrato Walter Benjamin, nel 1936, nel celebre saggio sul Narratore), le foto di Atlante si riducono a immagini di immagini, descrizioni di descrizioni: ingrandimenti delle tavole di diversi sistemi cartografici, che ne evidenziano i rispettivi toponimi e sistemi di coordinate.

Luigi Ghirri, Atlante (1973)

Evidente, ancorché pour cause negletta dalla consacrazione di superficie che di Ghirri fa tanto immaginario contemporaneo, la sua «matrice concettuale» (come la ricorda lui stesso nelle preziose Lezioni di fotografia tenute a Reggio Emilia nel 1989-90 e pubblicate da Quodlibet nel 2010). Nella prima parte della ricca quanto per certi versi discutibile monografia di Ennery Taramelli, Memoria come un’infanzia. Il pensiero narrante di Luigi Ghirri (Diabasis, pp. 275 con 262 ill. a col., € 28), si insiste opportunamente, invece, sulle radici forti di questa ricerca nella couche artistica emiliana dei Guerzoni, dei Della Casa, dei Parmiggiani (a sua volta strettamente collegata al «parasurrealismo» post-63 dei Costa e degli Spatola: in Verso la poesia totale di quest’ultimo, che è proprio del ’69, già si sottolineava come «il poeta oggi si trovi di fronte a una realtà già scritta, a un mondo coperto di segni, e la poesia consista ormai quasi soltanto nell’utilizzazione a fini estetici di questo repertorio illimitato»); e al MAXXI è esposto, come un volevasi dimostrare, un libro d’artista appunto di Claudio Parmiggiani (accompagnato da testi di Emilio Villa e Balestrini) che già nel ’70 aveva per titolo Atlante: le fotografie contenute nel libro, di mappamondi sgonfi e accartocciati in barattoli di vetro, erano realizzate proprio da Ghirri (che con Parmiggiani tornerà a collaborare cinque anni dopo, in Alfabeto).

In uno dei tanti scritti da lui dedicati a Ghirri, suo amico e mentore (ancorché di lui più giovane di sei anni…), Gianni Celati riporta un’idea di Ermanno Cavazzoni: a lui le foto di Ghirri fanno venire «un’usanza diffusa nel teatro barocco, dove c’erano degli spettatori seduti in scena che osservavano lo svolgersi del dramma, e così il mondo rappresentato diventa un mondo osservato», e «l’atto di osservazione è un lavoro di lettura, come la lettura d’un libro». Rarissime, si sa, le figure umane presenti negli scenari “metafisici” di Ghirri; e, quasi sempre, riprese di spalle (era risolutamente avverso, Ghirri, all’alluvione di facce nella cultura dell’immagine del suo tempo – figurarsi cosa potrebbe dire oggi…). Dall’appassionante saggio di Luigi Grazioli, Figura di schiena (pubblicato qualche anno fa come e-book da doppiozero), imparo che il tòpos dell’“osservatore incluso” – che nasce nel XV secolo e si afferma nel XVII, più o meno in contemporanea coll’istituirsi del genere-paesaggio, sino a codificarsi come genere-nel-genere nel romantico Friedrich – ha quasi sempre, in origine, una valenza teatrale: la scena rappresentata è incorniciata dai suoi spettatori (i quali sono in parte ripresi di spalle, appunto), come a sottolinearne l’importanza ma anche con l’effetto di riportarla, a noi, come “già-vista”. Ed è sintomatico che nel quadro celeberrimo di Vermeer dal quale prende le mosse Grazioli, L’atelier del pittore, la figura di schiena sia un autoritratto del pittore reso anonimo dalla postura, e che davanti a lui ci si mostri una carta geografica

Luigi Ghirri per Gianni Celati, Narratori delle pianure (1985)

Sempre Celati ha codificato quello di Ghirri come un «grande teatro naturale delle immagini». E sino alla fine, in effetti, Ghirri amerà incorniciare le sue immagini in quelle che definisce «inquadrature naturali», e che nelle Lezioni chiama esplicitamente «quinte teatrali» (citando, al riguardo, il dispositivo ottico di Dürer a suo tempo posto da Calvino in copertina a Palomar). Il fascino delle sue immagini più canoniche degli anni Ottanta, i grandi scenari padani e le “marine” della riviera romagnola, sta nel sistema di piani e contropiani, nelle ascisse e nelle ordinate rappresentate dal filo dell’orizzonte e dalle linee verticali o diagonali che lo vanno a incontrare. È il caso di molte delle magnifiche fotografie di paesaggio esposte, insieme alle sculture di Paolo Icaro, nella severa e sognante cornice di pietra e acqua dell’area Carlo Scarpa della Fondazione Querini Stampalia, a Venezia (Le pietre del cielo, a cura di Chiara Bertola e Giuliano Sergio, sino al 28 gennaio): l’en plein air è raffigurato dalla specola di una cornice effettiva, o in quella “mentale” del tracciato di una strada e dei filari d’alberi ai suoi lati (sintomatico il titolo del libro pubblicato nell’89 con Celati, Il profilo delle nuvole). Non è un caso che, tanto per Icaro che per Ghirri, fondamentale sia stato a un certo punto l’incontro con l’architettura (con quella di Aldo Rossi in particolare, ma anche con quella dello stesso Scarpa, per Ghirri).

Eppure è innegabile che, come nella traiettoria di Celati, vi sia in quella di Ghirri una svolta del respiro. Lui stesso dirà della necessità di passare «da una fotografia di ricerca a una ricerca della fotografia». In un’intervista a un giovane Marco Belpoliti, pubblicata sul manifesto nel 1984 (in occasione della mostra collettiva da lui curata, Viaggio in Italia), dirà Ghirri che l’immagine del nostro paese è ormai codificata dalle «fotografie degli Alinari, dai sussidiari, dalle cartoline illustrate, dai libri del Touring Club» e da tutte le altre icone che compongono un «luogo comune». Ma proprio per questo, davanti per esempio a Piazza San Pietro, «il problema è quello di vedere attraverso tutte le immagini precedenti quel luogo e nel contempo di cancellarle per avere una propria “prima visione” di piazza San Pietro». Le “coordinate”, che nel “primo” Ghirri sono fisicamente iscritte nell’immagine, nel “secondo” sono solo virtuali: a priori della rappresentazione. Se nell’Atlante si vedono solo i segni sulle carte, dei suoi paesaggi dirà alla fine, Ghirri, di aver voluto fare una «geografia sentimentale», cioè, scrive proprio, «una cartografia imprecisa, senza punti cardinali».

Sostiene Celati che l’isolamento della “scena” serve, a Ghirri, alla «cancellazione mentale del rumore circostante»: e proprio grazie a questa cancellazione, si legge nelle Lezioni di fotografia, ci si mostra «sempre nella realtà una zona di mistero, una zona insondabile». In un’occasione parla dei luoghi da lui fotografati, Ghirri, come depositati nelle «teche di un museo»: i suoi paesaggi sono “incantati” come quello invernale nella palla di vetro che, sino alla fine, si tiene stretta il cittadino Kane nel Quarto potere di Orson Welles. Pare a me che la sfera della memoria sia vissuta e raffigurata, da Ghirri, meno in maniera “sentimentale” e proustiana – come insiste invece a colorirla Taramelli – che in modo illusionistico e catottrico, barocco in senso appunto wellesiano: cioè teatrale.

Luigi Ghirri, Modena (1975)

È davvero una metafisica, la sua: un raddoppiamento del reale in una sfera di astrazione, di sospensione dal tempo, simile a quella codificata da Leopardi in una celebre pagina dello Zibaldone (4418, 30 novembre 1828): «All’uomo sensibile e immaginoso […] il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose».

La rivoluzione copernicana di Ghirri consiste nel fare delle sue griglie, di questi «segni», «traguardi», «confini entro cui lo spazio si rappresenta», delle Soglie (come scriverà quasi in limine, nel ’90): «la soglia per andare verso qualcosa» (Verso la foce, s’intitola appunto il testo di Celati che aveva accompagnato Viaggio in Italia). E il lavoro del fotografo, come quello dello scrittore, sarà in primo luogo quello di uscire di casa. Da quel momento in avanti, le fotografie dell’uno come i racconti dell’altro saranno quasi sempre all’aperto. All’Aperto, anzi. La figura inconfondibile del fotografo, ancorché insolitamente taciturna, appare a sorpresa fra i compagni di viaggio messi assieme dall’Ulisse-Celati nel suo viaggio in un torpedone scassato, verso le foci del Po luogo della propria origine, nel suo primo racconto per immagini (che allo sguardo di Ghirri, come i successivi, ispira il proprio): Strada provinciale delle anime del 1991. A guardare le scene in cui si vede Ghirri riprendere in posa, come un amateur qualsiasi, la compagnia picciola di amici parenti e complici raccolta dall’Ulisse-Celati in questo piccolo film picaresco e ilarotragico – pensando come siano state queste, verosimilmente, fra le ultime uscite del fotografo all’Aperto – un po’ ci si commuove.

La foto forse più emblematica di Ghirri, quella del ’79 coi due escursionisti ripresi (ovviamente) di spalle mentre si dirigono confidenti verso le Alpi di Siusi all’orizzonte (che nell’87 figurerà in copertina sulle Quattro novelle sulle apparenze di Celati), non si leggerà allora più (solo) in chiave ironica (concettuale, appunto), come demistificazione di un “luogo comune”; ma, quasi al contrario, come un gesto perfettamente intenzionale, per non dire volontaristico. Un esorcismo, insomma, come quello del Barone di Münchhausen nell’ode Al mondo di Zanzotto: che per tirarsi fuori dalla palude prende se stesso per i capelli.

 

[Immagine:  Luigi Ghirri, Alpe di Siusi].

 

2 thoughts on “Luigi Ghirri, dall’Atlante al Mondo

  1. “ Venerdì 19 novembre 1997 – E, proposito di traduzioni, nonché a proposito di mutilazioni, proprio mentre sto per andarmene, apprendo, sbirciando una rivista, che Luigi Ghirri è morto cinque anni fa. Quello che so di Ghirri è che era un fotografo, che fotografava nuvole, che era amico di Celati, che – lo so ora – aveva più o meno la mia stessa età. Sulla rivista c’è una foto: « Firenze 1955, la prima foto di Luigi Ghirri ». Vi si vede il Ponte Vecchio, ma in primo piano c’è la murata dell’Arno e la base di un lampione. È la foto di un ragazzino, presa « dal basso » di un ragazzino. È stata fatta nello stesso anno, credo, in cui io ho fatto la mia prima foto. Anche per questo mi sento di aver perso un amico, anche se non l’ho mai conosciuto. “.

  2. ———————————-

    X

    Iene non nate, Orfeo muore!
    E mi congedo dai dettagli e dagli elogi,
    dalle sinistre bontà, come un negarsi
    ai tragitti e ai banchetti. Sono consunto
    dagli arcani. In ceppi, ginestre e palpebre
    sotto tumuli di riti.
    Consacro la gioia! Celebro la grazia!
    Altari di stupori! Scabrosi miti, leggende!
    Vigilia, epifanie, attutite le cadute!
    Narciso, affossa gli specchi e scanna
    l’angelo!
    Respiro, io sono figlio della mia Parola!
    Come poco c’importa dove mai siamo, e come.
    Non più essere e avere, non più canto,
    sognare non più… noi vivi, siamo fatti di scongiuri
    e di presagi. Sulla soglia la Nemesi…
    il sangue ritorna a scudisciate.
    Ignaro, trangugi spirali, da secoli, flagelli!
    Come (ti) sperona la vita: il gril-let-to sentilo!
    Senti come rumina il tamburo e il becchino!
    Padre, l’anello dal dito adunco t’ho sfilato, semivivo!
    Come la morte è chiusa al canto e al pane raffermo,
    e risacche di nerastre risa s’avvolgono, non in bende
    ma in nodi e cera, sputo di nero sperma, morbido
    sudore di denti. Come smania la bara che ho ingannato!
    Come il seme è mùtilo di spirali, di balsami!
    In gramaglie, nel pozzo, fuori!
    La mia risposta è: riti, riti! Mi ha sorpreso il Caso!
    Come sparviero la croce mi artiglia e una giostra
    di suoni mi governa. Ascolto gemiti e massacri,
    evangeli e cantici interdetti, surrogati di spine,
    e oltre gli argini, le misure e i limiti
    ti berrò a visioni, a fuochi, a ori,
    e nella tua mano sarò il volo,
    io, nella tua maschera… ròsa!

    ANTONIO SAGREDO

    Roma, i trentuno giorni di ottobre 1989

    ——————————————————–
    Camera

    Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
    le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
    vuote… il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
    e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

    Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
    la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
    il negromante a squarciagola: ecco, questi sono gli altari,
    dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi Cristo!

    Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
    e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
    con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
    la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

    Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
    Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
    al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
    Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

    Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
    capriccio e parvenza di se stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
    eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
    stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!

    antonio sagredo

    Vermicino, 16-20 maggio 2008

    ————————–

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *