a cura di Massimo Gezzi

[In questa nona uscita, la rubrica degli inediti a cura di Massimo Gezzi ospita alcuni testi e una nota di Gherardo Bortolotti, autore tra l’altro di Tecniche di basso livello (Lavieri, 2007), Senza paragone (Transeuropa, 2013) e Quando arrivarono gli alieni/When the Aliens Arrived (Benway Series, 2016). Bortolotti è incluso nell’antologia Prosa in prosa (Collana Fuoriformato, Le Lettere 2009), cura insieme a Michele Zaffarano la collana Chapbooks per Arcipelago edizioni, che pubblica letteratura sperimentale dalla Francia, dall’Italia e dagli Stati Uniti, ed è stato tra i fondatori e curatori del blog di traduzioni e letteratura sperimentale GAMMM. I testi qui presentati fanno parte di un libro che sarà prossimamente pubblicato dalla collana Chapbooks di Tic Edizioni].

Le storie del pavimento

11 marzo 1794

Il silenzio che occupava il pomeriggio aveva un doppio fondo, dove Paolino aveva perso alcune parole e il suo aereo preferito, bianco e verde, pilotato da una Divinità dell’inverno. Con lo sguardo cercava di solcare i volumi delle stanze, per vivere lungo il soffitto, dove stazionavano come balene i corpi deformi delle sue paure, le idee mute che lo accompagnavano ancora. Camminando credeva di nuotare nell’aria, nelle immagini successive delle stanze. Credeva che Dio fosse dietro la porta e la solitudine era una dimensione parallela, aperta oltre il suo viso, che esplorava ogni volta più a fondo.

Talvolta l’orrore attraversava le stanze e le urla dei Grandi rovinavano nel corridoio, si infrangevano in echi e boati tra le porte e i tendaggi. Le pareti si scuotevano nella deflagrazione, spinte dall’odio, dalla solitudine, dal livore; franava la giornata; le domande si disfacevano in ringhi. Paolino scappava dall’Omino dell’ombra, che lo accoglieva, lo uccideva e lo smembrava, lasciando le braccia nei cassetti, un piede nell’armadio, la testa tra le tende della cameretta. Paolino rinasceva in un angolo, mentre il corpo grigio di una falena morta, dietro il comodino, attirava il suo sguardo.

12 marzo 1794

Durante i riti della mattina, mentre i giochi fatti in presenza della nuova luce si astraevano, Paolino veniva spesso visitato dal Futuro e dalle forme dei suoi sogni. La più assidua era la Madre dell’estate, i cui sguardi senza fondo prefiguravano pomeriggi interminabili, abbracci riparati da muri e da ombre. Negli anni a venire si innestava un lungo dolore, la radice sottile, ritorta e nera del segreto che lo educava, che lo disprezzava.

13 marzo 1794

Dietro l’armadio in corridoio era installata una delle Macchine dell’appartamento, una ragnatela colma di ombre e di polvere che prosciugava le stanze dall’amore quotidiano e dalle deboli intenzioni di gentilezza che, ancora, nascevano endemiche nelle camere e in cucina. Estendeva i suoi filamenti sotto gli strati dell’intonaco, costruendo venature microscopiche per tutto l’appartamento, tra gli spessori lamellari della calce, del cemento e della tinteggiatura. Vi facevamo ritorno in cicli di anni, per compiere i riti del futuro imminente, della dedizione alla rovina, e vi incontravamo spesso il Piccolo padrone, quello che ci aveva visto arrivare, ricordando tantissimi altri prima di noi.

14 marzo 1794

Accostando l’orecchio al pavimento, Paolino sentiva i brusii lontani di qualche vita segreta, di qualche episodio che non gli apparteneva. Credeva che negli spessori, distanti sotto i suoi piedi, si fossero stratificate epoche altrui, fatte di acque che gorgogliavano, brevi trambusti, bambini che ridevano in pomeriggi felici per sempre. Un giorno anche la sua voce si sarebbe aggiunta, trascritta nei mormorii che attraversavano le pareti, nelle spinte, nelle tensioni che percorrevano i laterizi, le tubature, il cemento. Sarebbe diventato un’eco compressa, registrata e imprigionata per sempre sotto la superficie dei mobili, delle mattonelle, lasciata all’ascolto lontano dei Successori, dell’Omino dei sogni che, forse, l’avrebbe aiutato.

All’altezza della cucina ci fermavamo spesso ad ammirare le superfici lucide e uniformi, le cromature, gli elementi d’arredo. Per il culto delle fiammelle azzurre dei fornelli a gas, nel buio dei mattini d’inverno, raggiungevamo l’altipiano dove si ergevano le calotte nere e caliginose da cui scaturivano. Ci riunivamo vicino alla loro vampe, sentendo il calore, studiando il loro palpitare, seguendo, sulle piastrelle, i giochi di luci e di ombre che generavano. In altre occasioni, di notte, mentre il fuoco era spento, il rubinetto chiuso, la stanza deserta, dalla finestra assistevamo, tra le tendine, al sorgere di Aldebaran e della Cintura di Orione.

15 marzo 1794

Sapevamo che, in epoche passate, in qualche stanza segreta aveva già abitato la Morte. Ci avevano portato a visitare un muro, all’ingresso, la cui tinteggiatura mostrava un’ombra antica, che era il monumento del suo primato. Avevamo visto il fondo dei cassetti, gli specchi, una vecchia busta con tre monete dimenticate. Aspettavamo che un giorno la Morte ritornasse, per raccontarci che cosa era successo, dove riposava il dolore maggiore e dietro quale porta fosse il vero cuore dell’appartamento.

Nota

Mi è capitato, da ragazzo, di trovare sullo scaffale di un remainder la copia un po’ spaesata del Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, un piccolo testo à la Sterne che non mi sembrò riuscitissimo ma che non sapevo liquidare e che, di tanto in tanto, ho progettato di riscrivere. Le storie del pavimento è un tentativo di adempiere a quel progetto. La vicenda, tuttavia, non si riduce alla riscrittura. Cerco di riprendere il tema dell’infraordinario e del suo esaurimento da un punto di vista sentimentale, rivisitando la dimensione dell’infanzia e del piccolo. E cerco, ancora una volta, di capire quali sono i limiti delle sequenze di prosa su cui sto lavorando ormai da anni. Pensavo di averli esauriti con Quando arrivarono gli alieni ma forse, come sempre negli spazi ridotti, c’è ancora margine di manovra.

 

[Immagine: Giulio Paolini, Trionfo della rappresentazione].

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