Prima parte: Da CSI a Ally McBeal
di Gianluigi Rossini
La tensione tra “legge” e “giustizia”, oltre a essere una delle antinomie che «lacerano» la giurisprudenza[1] è una di quelle tematiche che è possibile rintracciare nella narrativa di tutti i tempi. La serialità televisiva non fa eccezione, e sin dai suoi esordi ha affrontato il tema soprattutto nei due generi che hanno la legge come oggetto principale: il police procedural e il legal drama. Come è noto, mentre nel primo il motore narrativo è l’identificazione del colpevole e la produzione delle relative prove, nel secondo l’attenzione è posta principalmente sullo svolgimento del processo.
Analizzerò in questo intervento (in due puntate successive) il modo in cui questo conflitto è tematizzato in tre serie televisive: CSI: Crime Scene Investigation (CBS, 2000- ), Ally McBeal (Fox, 1997-2002) e The Wire (HBO, 2002-8), e cercherò sopratutto di mostrare come The Wire, lodatissima dalla critica e trasmessa dal prestigioso canale via cavo HBO, riesca effettivamente a superare i binarismi e i tabù della televisione generalista, scardinando i termini del problema.
È doveroso un chiarimento terminologico: il conflitto tra legge e giustizia si inquadra nel conflitto tra “legge positiva” e “legge naturale”. Questi termini, che hanno una tradizione filosofica lunghissima, verranno qui usati nel senso più intuitivo: con “legge”, o “legge positiva”, si intende il corpus normativo vigente in un dato momento e in una data società; con “giustizia”, o “legge naturale”, ci si riferisce a un qualche senso di “ciò che è giusto”, avvertito da una società, una comunità, un individuo indipendentemente dalle leggi vigenti e considerato superiore e preesistente ad esse. È chiaro che, anche in questa formulazione basica, si tratta di concetti estremamente problematici; tuttavia non intendo discutere l’esistenza o meno di una “legge naturale”, quanto fissare dei termini operativi utili a un’analisi del modo in cui la serialità televisiva statunitense ha tematizzato questo conflitto.
CSI: il diritto della vittima
La franchise di CSI è probabilmente l’epitome di quello che David Simon, creatore di The Wire, ha chiamato «horseshit police procedural». Altamente formulaica nella sua struttura narrativa, popolata da detective/scienziati praticamente infallibili e totalmente dediti al lavoro, la serie accorda alla polizia scientifica non solo la capacità di risolvere un delitto da sola, ma anche la possibilità di utilizzare un’enorme quantità di tempo e risorse materiali. Il che, come ha notato Donatella Izzo, ha del paradossale: «nel sistema sanitario meno garantista del mondo occidentale, in un paese nel quale – nella realtà – non è garantito a tutti i cittadini il diritto di accesso alle cure mediche da vivi, si ha diritto – nella fiction – a ogni dispendio di tempo e di fondi e ogni dispiego di sofisticata tecnologia purché prima ci si sia fatti ammazzare».[2]
Spesso i commentatori hanno posto l’attenzione su due aspetti di CSI: da un lato la contrapposizione tra l’innovatività dello stile visuale[3] e il conservatorismo della narrazione, sia dal punto di vista formale sia da quello dell’ideologia trasmessa; dall’altro le motivazioni del gigantesco successo mondiale di una serie con un’atmosfera così cupa e orrorifica. Per quanto riguarda il secondo punto, opinione diffusa è che la chiave sia nel valore consolatorio delle certezze offerte sulla scienza, sulla legge e sui suoi esecutori. Come efficacemente detto da Andrew Anthony: «in ultima analisi il successo internazionale di CSI può derivare dal fatto che, al posto del dubbio postmoderno, essa offre certezza post-mortem»[4].
Lo stile visuale, per quanto innovativo, è uno strumento di questa missione ideologica: la possibilità di esplorare il cadavere e di “vedere” con gli occhi dell’espero, mediante la grafica computerizzata, è un dispositivo retorico che rafforza questa sensazione di certezza, di controllo sugli eventi. Il detective/scienziato ha, infatti, un grande vantaggio sugli agenti di polizia: le sue deduzioni possono essere dimostrate come oggettive e inconfutabili, non si devono affidare né all’intuito né alle dichiarazioni dei testimoni o dei sospettati.
Da qui deriva il rapporto tra legge naturale e legge positiva, che per lo più non è un rapporto di vero conflitto: difficile trovare in CSI critiche al sistema giudiziario statunitense. Ma d’altra parte la legge positiva ha, per Grissom e soci, un’importanza del tutto relativa: la legge naturale superiore alla quale i protagonisti obbediscono è il diritto della vittima a essere risarcita. Quello è il motore etico, lo scopo di tutta l’attività degli investigatori. Qualsiasi legge che dovesse frapporsi fra l’indiscutibile verità messa in luce dalla scientifica e l’arresto del colpevole sarebbe, senza dubbio, una legge ingiusta.
In Pilot (1×01), la nuova recluta Holly Gribbs (Chandra West) rivela a Catherine Willows (Marg Helgenberger), che è invece una veterana, di non sentirsi tagliata per il lavoro. Catherine, che vede la confusione nella ragazza, le spiega perché la scientifica è il miglior corpo di polizia esistente: «I poliziotti? Lascia perdere. Non distinguerebbero un’impronta digitale dall’orma di un animale e i detective… danno la caccia alle bugie. Noi risolviamo. Noi ripristiniamo la pace mentale e quando sei una vittima, è tutto». Va notato che Catherine non sta solo dicendo che i CSI sono gli unici in grado di ricostruire la verità, perché si basano sull’analisi scientifica delle prove e non sulle dichiarazioni dei sospetti o dei testimoni («Concentrati su ciò che non può mentire: le prove» aveva detto poco prima Grissom), ma ha anche definito quella che deve essere la missione dei tutori della legge: restituire la pace alle vittime. E con “vittime” non si intendono solo i parenti, ma gli stessi cadaveri. Nello stesso episodio Holly, lasciata da sola a prendere le impronte in un appartamento da poco derubato, viene uccisa dal colpevole tornato indietro. Catherine è ossessionata dai sensi di colpa per averla convinta a restare, e nell’episodio successivo (Cool Change) si incarica dell’indagine e la risolve, grazie a un cercapersone trovato sulla scena del delitto (che le permette di rintracciare il sospetto) e a un graffio che Holly aveva fatto all’aggressore durante la colluttazione (che con la prova del DNA le permette di incastrarlo). Di fronte ai risultati del test, la battuta di Catherine è «Mi ha dato abbastanza… abbastanza per catturarlo». Segue la visualizzazione del delitto, dalla quale sembra davvero che Holly abbia fatto in modo da dare degli elementi ai CSI che dovranno indagare sulla sua morte. Ancora in Cool Change, una donna arrestata per aver ucciso il suo ragazzo chiede a Grissom, che l’ha appena indotta a confessare con una ricostruzione perfetta del crimine: «Tutte quelle robe che hai tirato fuori. Come facevi a sapere tutto questo?». «Me l’ha detto il tuo ragazzo», è la risposta.
Il cadavere stesso, quindi, è la vittima che ha diritto ad essere risarcita, e l’esperto ha un canale privilegiato di comunicazione con esso. Questo potere è ciò che lo mette al di sopra di tutto, tanto per l’indiscutibile verità di cui è portatore quanto per l’indubitabilità della legge superiore di cui è infallibile braccio.
Ally McBeal: il tribunale dei sentimenti
Ally McBeal (FOX, 1997-2002), uno dei vari giganteschi successi messi a segno dallo sceneggiatore e produttore David E. Kelly, è un legal dramedy sulla scia di L.A. Law (NCB, 1986-1994), nel senso che gli avvocati sono ricchi, alla moda e difendono clienti per lo più facoltosi (rispetto alla tradizione di un Perry Mason, paladino dei deboli contro le storture del sistema giudiziario).
Molti, tuttavia, hanno dubitato della possibilità di ascrivere Ally al genere legal: secondo Giorgio Grignaffini, ad esempio, la serie è «apparentemente legal drama, in realtà dramedy sentimentale […] parte da casi spesso bizzarri, per portare elementi di originalità a uno schema da commedia sentimentale»[5]. Le udienze-farsa in cui si discutono casi assurdi sono, in effetti, una delle firme della serie (un ragazzo disabile che cita Dio in giudizio, un uomo che vuole legalmente riconosciuto un matrimonio con due donne). Il triangolo amoroso Ally-Billy-Georgia è il motore iniziale della narrazione, gli intrecci sentimentali sono sicuramente al centro della scena e le storie dei clienti si riverberano sempre, più o meno direttamente, sulle vicende personali dei personaggi.
Eppure, per quanto filtrato dalla commedia e intrecciato al tema sentimentale, il ragionamento legale è una costante di ogni episodio, e paradossalmente sono proprio la quirkiness dei personaggi e la stramberia dei casi a permettere di dare uno sguardo disincantato al meccanismo giudiziario. D’altra parte Paul R. Joseph, tra gli altri, ha fatto notare come non sia così strano, per chi frequenta i tribunali, imbattersi in cause anche più ridicole di quelle mostrate in Ally McBeal[6]. Ancora di più, secondo due studiosi di legge, Naomi Mezey e Mark Niles, la comicità è, in questo caso, un modo specifico di affrontare la rappresentazione del sistema giudiziario: «Se la critica sociale o giudiziaria non sembravano l’interesse primario della serie, la forma commedia e la sua autocoscienza hanno permesso un ventaglio di possibilità interpretative più ampio della maggior parte dei programmi televisivi sulla legge»[7]. È proprio la forma commedia, continuano i due autori, a permettere ad Ally McBeal di formulare una certa quantità di critiche al sistema giudiziario statunitense. La stramberia dei personaggi, il loro infantilismo e la loro ridicolaggine si riverberano sul meccanismo stesso del processo (civile).
John Cage (Peter MacNicol), da tutti riconosciuto come il miglior avvocato dello studio in cui Ally (Calista Flockhart) lavora, è noto per come manipola giudici e giuria con trucchi grotteschi, come scarpe che stridono sul pavimento o fischietti per segnalare le obiezioni. L’aula di tribunale è un teatro in cui tutti recitano secondo regole altamente formalizzate ma intrinsecamente ridicole, che spesso hanno poco a che fare con la determinazione di innocenza e colpevolezza.
In Forbidden Fruits (1:16), ad esempio, l’avvocato dell’accusa, una donna molto attraente, è temutissima per il suo sorriso seducente. John consiglia ad Ally di fare pratica, perché deve essere in grado di sorridere meglio della sua avversaria. Durante il processo, in una scena le due si avvicinano allo scranno del giudice per discutere un elemento procedurale, entrambe sorridendo a più non posso. Rapidamente la musica copre le parole, la camera stringe progressivamente sulle due bocche, e quello che vediamo è un campo/controcampo tra i sorrisi (dei due avvocati) e gli sguardi (del giudice, della giuria e della platea), finché un cenno d’assenso ci fa capire che Ally ha vinto. L’impressione è, ovviamente, di aver assistito a una guerra di seduzione e non a un argomento legale: ciò che le due donne dicevano non aveva nessuna importanza. Se è per scene come questa che la serie è stata indicata come la pietra tombale sul movimento femminista, c’è da dire che neanche il sistema giudiziario statunitense sembra venirne fuori molto bene.
Il motivo del processo-farsa è piuttosto comune nella letteratura occidentale: ad il processo a Meursault nello Straniero di Camus, ad esempio, quello al fante di cuori in Alice nel paese delle meraviglie, o quello a Giovanna d’Arco in Santa Giovanna di G. B. Shaw, ed è spesso usato come strumento di critica della legge.
Tuttavia, se è innegabile che Ally McBeal sia pervasa da un intento satirico nei confronti del sistema giudiziario, la satira non viene mai spinta fino a diventare una critica radicale. E questo non soltanto perché alla fine, per lo più, lo spettatore viene lasciato con la sensazione che la decisione della corte sia stata quella giusta, ma anche perché l’esposizione delle debolezze della legge viene neutralizzata dal parallelo con le debolezze umane in generale.
È in questo senso che l’ambientazione in uno studio legale diventa fondamentale: trovandosi ad affrontare casi limite, infatti, avvocati e giudici sono costretti a sviluppare ragionamenti che si tengono in equilibrio tra l’argomento legale e una sorta di eudemonologia in perenne costruzione. È indubbio che le problematiche centrali della serie riguardino la sfera personale: l’amore sopravvive alla separazione? È possibile essere innamorati di due persone contemporaneamente? Come conciliare la ricerca della soddisfazione personale e il desiderio di essere amati? Esistono bugie a fin di bene? E così via. Portare queste domande all’interno dell’aula di tribunale permette, da un lato, di sviluppare intorno ad esse un ragionamento più astratto, dall’altro, di mostrare che la legge, per quanto arbitraria, ambigua, opinabile, è un sincero tentativo di raggiungere la giustizia, imperfetto come lo siamo tutti. In altre parole, il parallelo che si crea è tra il conflitto legge/giustizia e la ricerca del bene e della felicità nella vita quotidiana.
Uno dei punti fermi della serie, ribadito in ogni episodio, è che bisogna essere molto cauti nel giudicare le persone, perché analizzando il contesto, le motivazioni, la storia personale di ognuno, è possibile arrivare a capire quello che prima ci sembrava immorale o semplicemente anormale. Anche in questo caso il processo, per quanto possa sembrare ridicolo, è il mezzo giusto per portare alla luce tutte le informazioni necessarie a valutare, caso per caso, come la legge vada applicata. Ed esso è anche ciò che costringe personaggi e spettatori a riflettere su come, prima di applicare agli altri il proprio personale codice morale, sia necessario ascoltare le parti in causa.
Riferendo entrambi i termini dell’opposizione legge positiva/legge naturale tanto al meccanismo giudiziario quanto alla vita quotidiana, la serie mette in dubbio che si possano formulare norme universali con le quali discernere il giusto dall’ingiusto. Ma questo dubbio non si spinge mai fino a negare l’esistenza di una legge naturale, di un senso di giustizia condiviso: dopo la doverosa valutazione del contesto, delle motivazioni personali, della storia personale di ognuno c’è sempre la possibilità di arrivare, per prove ed errori, caso per caso, a “fare la cosa giusta”. La legge positiva, come le regole di comportamento che a volte ci imponiamo nella vita quotidiana, è esattamente quel percorso di prove ed errori, ed è dunque tanto imperfetta quanto necessaria.
(Una versione completa di questo articolo apparirà nel numero di maggio 2012 di Between” – www.between-journal.org)
[1] L’espressione è di Richard Posner, in Law and Literature, Harvard University Press, London, 2009.
[2] Donatella Izzo, “Crime Scene Do Not Cross”: i limiti della giustizia in CSI, «Ácoma» n. 36, 2008, p. 43. Corsivo nel testo.
[3] Con particolare riferimento alle scene in CGI che esplorano l’interno del cadavere o ricostruiscono l’impatto di un proiettile su un corpo umano, solitamente mostrato al rallentatore. Questo tipo di scene sono ormai note come “CSI shots”. Cfr. Glen Creeber, CSI, in G. Creeber, T. Miller e J. Tulloch (eds.), The Television Genre Book, Palgrave Macmillian, 2008 p. 30.
[4] Andrew Anthony, No need to Pathologise…, in Michael Allen, Reading CSI. Crime TV Under the Microscope, I.B. Tauris, London, 2007, p. 34.
[5] Giorgio Grignaffini, I generi televisivi, Carocci, Roma, 2004.
[6] Cfr. Hal Erickson, Ally McBeal, in Id, Encyclopedia of Television Law Shows. Factual and Fictional Series about Judges, Lawuers and the Courtroom, 1948-2008. pp. 31-35.
[7] Naomi Mezey, Mark C. Niles, Screening the Law: Ideology and Law in American Popolar Culture, Georgetown Law Faculty Publications, 2010, p. 127-126.
Di CSI non ho mai visto nemmeno una puntata, però di Ally McBeal sì, diverse puntate.
Credo che Simonetti abbia fatto una bella disamina di questa serie statunitense che ha incassato consensi da quasi tutti gli angoli di mondo ed ha avvitato come un giravite la gente nei divani.
Tralasciando il fatto personale che io amo le bizzarrie e non ho sempre voglia di stare a fare il sociologo dei media ogni volta che guardo i teleromanzi, le telenovelle o i Simpson, dico che sta bene che questo telefilm abbia dato una dignità ed una centralità al diverso, allo stravagante, al freak, all’abnorme, ma la cosa che non mi piace è che la sua gradevolezza è stata messa al servizio di un’accettazione classista del diverso. E’ come se questo diverso, questo essere eccentrici e laterali, fosse alla fine giustificato da un contrappeso stabile nella serie: il successo, il denaro, la riuscita, la classe sociale.
Questo modo di ragionare è molto pericoloso: si fa luce sulla persona e sulle sue idiosincrasie quando questa persona può permettersi di pagare fotografi, tecnici del suono, operatori delle luci e montatori: la luce è il medium per ribadire la propria centralità, nonostante tutto.
Ally McBeal è questo, secondo cui la “meritocrazia” giustifica i mezzi, i fini e i diversi. I processi di discriminazione, in fin dei conti, sono diversi tra ceto e ceto, così tra un disutilaccio che bighellona tutti i giorni per i bar della periferia e uno che staziona tutti i giorni tra ristoranti e cafè di lusso, non c’è dubbio su chi sia più condannabile e sciantoso. Così come tra un omosessuale ricco e uno povero non c’è dubbio che sia più condannabile “il secondo tipo” di omosessualità.
Ally McBeal, la dolce Ally, viaggia su questa tratta, inutile a dire, per quanto non si possa imporre, come vorrebbe Saviano, ai creativi di parlare esclusivamente di mafia e di gente perbene.
Caro Dinamo,
l’autore della bella disamina è Gianluigi Rossini – che è un esperto in materia di serialità televisiva. Io sono solo il postino.
e io mi sa che sono il cretino…
chiedo venia a Rossini.
Bellissima analisi, che mi piacerebbe estendere anche a serie che non sembrerebbero essere né police procedural né legal drama.
Per esempio, il “Dottor House” di David Shore, che solo apparentemente è un medical drama, mentre rimanda chiaramente al modello dell’indagine per inferenza induttiva di Sherlock Holmes, mette in scena paradigmi simili a quelli descritti per CSI. Anche nel DH, infatti, il diritto preminente è quello della “vittima”, che in questo caso è il malato, il quale però, e la differenza non è da poco, è (ancora, ma non per molto, se House non interviene) vivo.
Anche per questo, il conflitto mi sembra ancora più interessante che in CSI, perché House non solo persegue il suo obiettivo di guarire il paziente a dispetto di tutto (leggi, regole gerarchiche, buon gusto, simpatia, regole deontologiche, budget ospedaliero), ma spesso anche CONTRO il paziente, visto come un paradossale antagonista, e anzi aiutante del “cattivo” (la malattia): il paziente, per definizione, “mente”.
House è una moderna Antigone, perché sta dalla parte della legge naturale (il benessere del paziente) contro ogni altro criterio. In questa sfida titanica risulta (quasi sempre) vincente,ma paga la sua hybris con il fallimento nella vita sentimentale, la dipendenza dalla droga, la deformità fisica.
Interessante poi, sempre in relazione a CSI, è il rapporto messo in gioco tra scienza e verità. Trattandosi di medicina, ci sarebbero le basi per una fiducia nella scienza senza sfumature come quella ben descritta da Rossini. E invece la soluzione per House arriva soltanto grazie ad un’intuizione geniale, che collega tra loro indizi fino ad allora non adeguatamente valorizzati, mentre le prime prove scientifiche (analisi, tac, ecc.) avevano fornito soltanto indicazioni parziali, e per lo più fuorvianti.
Nella puntata tipica del DH, il protagonista ha l’intuizione illuminante che risulta decisiva, e che viene comprovata a posteriori da un’analisi finale esclusivamente confermativa (secondo le buone regole del poliziesco “classico”, generalmente concluso, dopo l’exploit intellettuale del detective, da un’ammissione da parte del colpevole, sotto forma di improbabili confessioni o azioni equivalenti come la fuga o una reazione aggressiva).
Non ho mai visto una puntata dei telefilm citati, ma la lettura di Rossini è interessantissima. Mi piacerebbe sapere dall’autore in quali serie televisive degli anni’70 e ’80 – a suo parere – c’erano già i germi di questo modo di presentare il tema.
Grazie.
@Alessandro Mongatti
Il tema del conflitto legge/giustizia è ovviamente presente in molte serie al di fuori dei generi polizieschi e legal. A me viene da pensare anche a ER (curare gli interessi del paziente/curare gli interessi dell’ospedale come struttura) o alle prime stagioni di Lost (dove si deve ricostruire uno stato di legalità), ma si potrebbero fare mille esempi.
Il paragone tra CSI e House è molto interessante e sono perfettamente d’accordo sulla lettura che ne dai come più vicina alla detection che al medical. Un’analisi simile, se non mi sbaglio, è in un contributo all’interno di “Mondi Seriali”, a cura di Pozzato e Grignaffini.
Come giustamente dici, in entrambe le serie il soggetto deputato a ristabilire l’ordine (il medico, la scientifica) è portatore di una missione superiore che se ne infischia allegramente della privacy, del dolore inflitto, perfino dell’habeas corpus, se necessario. House fruga e fa frugare senza ritegno il corpo, l’abitazione, i parenti del malato, né più né meno di ciò che fanno i CSI con il cadavere.
Non sono molto d’accordo, invece, né sull’idea di House come Antigone, né sul fatto che House e CSI propongano due visioni diverse della scienza.
Se Antigone è il simbolo del diritto naturale inteso come più attento al singolo individuo che alla società, che riguarda la sfera degli affetti del sentimento, vedrei come Antigoni moderne più i medici di ER, ad esempio, che sono disposti a infrangere le regole per curare pazienti senza assicurazione. House infrange le regole per vincere la sua personale sfida contro la morte e dimostrare di essere un genio, ed è interessato alla sfida intellettuale, non al benessere del paziente. E’ più da Antigone l’eutanasia che l’accanimento terapeutico, a mio parere.
L’immagine della scienza, invece, secondo me, è figlia della stessa visione in entrambe le serie. In House si suggerisce che la scienza non è così esatta e infallibile come si dice, ma si vuole comunque dimostrare che il metodo funziona, e al massimo il problema è che non tutti i medici sono abbastanza competenti. Le intuizioni di House sono geniali ma sempre perfettamente esplicabili, non si tratta di divinazione. Lui ci arriva prima (vincendo la corsa contro il tempo e salvando il paziente) grazie alla sua genialità, ma ci riesce perché è uno scienziato migliore, non perché usa metodi diversi. Altri magari ci sarebbero arrivati lo stesso, ma troppo tardi.
Ed è grazie alle analisi e all’incrocio dei sintomi sulla famosa lavagna, per lo più, che House scopre le menzogne dei pazienti: il metodo scientifico e gli strumenti arrivano alla verità, oggettiva e inconfutabile, mentre la testimonianza diretta è corrotta dalla soggettività, non è affidabile.
@Rossini
Grazie davvero della risposta.
Temo che, a continuare la discussione usciremmo fuori tema rispetto al post (se è così, chiedo scusa in anticipo). Tuttavia, un paio di spunti vorrei raccoglierli.
Quando dici che lo scopo di House è “vincere la sua personale sfida contro la morte e dimostrare di essere un genio, ed è interessato alla sfida intellettuale, non al benessere del paziente”, non sono esattamente d’accordo. Mi pare che questa sia soltanto l’autorappresentazione che House per primo ama dare, per un certo gusto masochistico e snob per l’autodenigrazione. Ricordo un capitolo assai convincente del volume Blitris, La filosofia del Dr. House. Etica, logica ed epistemologia di un eroe televisivo (Ponte alle Grazie, 2007) sull’argomento. La sfida di House è sicuramente contro se stesso e i propri limiti, ma col fine supremo di salvare il paziente. Per il quale prova fondamentalmente empatia, nonostante il disprezzo che in qualche modo simula e che gli serve anche da maschera difensiva. È come se ogni suo sforzo fosse teso a salvare, ogni volta, l’umanità anche a dispetto di sé stessa, e soprattutto quando il singolo individuo, personalmente, non lo merita. Per come la vedo io, al di là della superficie,
House salva i pazienti non tanto e non solo per la propria “genialità”, quanto perché, rispetto agli altri medici della squadra, bravi, preparati e coscienziosi come bravi dottori, come QUALUNQUE bravo dottore deve essere, House ci tiene veramente e il distacco e il disprezzo che regolarmente ostenta è quasi uno strumento per non lasciarsi sopraffare e rimanere lucidi.
Ora non ho i mezzi per portare pezze d’appoggio, citando singoli episodi o battute significative, e posso solo rimandare al volume che ho citato. Magari, stasera, quando vado a casa trovo il libro e cerco qualche passo.
Quanto secondo punto.
Beh, certo, “Le intuizioni di House sono geniali ma sempre perfettamente esplicabili, non si tratta di divinazione (…) ci riesce perché è uno scienziato migliore, non perché usa metodi diversi (…) il metodo scientifico e gli strumenti arrivano alla verità, oggettiva e inconfutabile”.
È tutto vero. Però mi pare anche abbastanza ovvio: in fin dei conti non potrebbe essere diversamente, si tratta di pur sempre di medicina, virus, batteri, fisiologia. Mi sembra ben più significativo che un’analisi del sangue, di fatto, non dica quasi mai niente di utile, e che per risolvere il caso sia necessario indagare nella vita del paziente, nella sua etica spesso. In questo senso CSI e DH mi paiono opposti: CSI trasforma un genere come il poliziesco, tradizionalmente collegato alla sfera dell’etica e dell’indagine psicologica, in una questione di analisi chimiche; DH compie il percorso inverso “umanizzando” la medicina. (Scusate, sto procedendo rozzamente, ma penso si capisca)
CSI ci dice che si può distinguere il bene e il male in laboratorio; DH che per curare un virus occorre mettere il paziente sul lettino.
Un articolo davvero interessante complimenti.
Mi permetto di consigliare all’autore, se non l’ha già fatto, dei libri della professoressa Paola Mittica. “Il divenire dell’ordine” e “Raccontando il possibile. Eschilo e le narrazioni giuridiche” e “Cantori di nostoi. Strutture giuridiche e politiche delle comunità omeriche”. Ovvio che siamo di fronte a diversi esempi narrativi, ma gli spunti rintracciabili sono tutt’altro che forieri.
Anch’io ho trovato l’articolo molto interessante e ricco. Con una rapidità di cui mi scuso, dovuta a ragioni contingenti, due osservazioni: non definirei quello a Meursault un processo farsa (è un processo che, causa la totale frattura tra imputato e rappresentanti della legge, finisce per risultare una farsa, quello sì; ma è un’altra cosa); varrebbe la pena di legare la riflessione su queste serie a quella sulla tradizione del courtroom movie (ricchissima soprattutto in area angloamericana; ma non mancano esampi francesi e italiani).