di Massimo Barone, con una nota di Carlo Bordini

[Massimo Barone (Roma, 1942) nasce come narratore (tra l’altro Amici di chiave, Fazi 1998, Il Console Stendhal, Avagliano 2008). Recentemente si è impegnato in poesia, con Sangue misto, Empirìa, 2015. Le poesie qui proposte fanno parte di una raccolta ancora in formazione.
I motori della sua scrittura sono la memoria e un forte sguardo critico verso la realtà. In poesia i temi esistenziali si sono accentuati e si intrecciano con un preziosismo linguistico in cui ha gran parte la sua passione gaddiana. Per uscire da schemi letterari, è lo sguardo di chi guarda il passato ed è cosciente che il futuro ha ben poco da offrire. Il presente è qualcosa di immobile e di indeterminato.
Possiamo definire la sua poesia come una poesia che ha a che vedere con l’amarezza e la disillusione. Una disillusione vissuta con fermezza, da ex militante politico. La critica della società, la critica del presente, è sempre più amara, accidiosa, e in essa ha posto lo sberleffo. “A fare amicizia coi ragni / m’inviti tu, che eviti d’uscire”. “Va bene così, ce ne stiamo a casa / scriviamo dormiamo / se costretti alla televisione / teniamo a freno la voglia / di portare le mani alla testa”. Nel Notturno che chiude questa raccolta il microuniverso di una camera che non è buia (anche il buio rappresenta un’utopia) sostituisce le luci dell’universo reale.
Va aggiunto, per la cronaca, che la poesia latina non gli è affatto estranea. E che l’amarezza, in fondo, è un male necessario (Carlo Bordini)].

Notturno

la notte è piena di luci: bianche, rosse, blu. Le ha introdotte nelle case il progresso, così favorito dalla gente che lavora, dalla gente che produce.
Verrebbe da pensare che ci si voglia risarcire con un firmamentino da interno per l’opacità di quello che sta sopra la testa di tutti. E tra i due firmamenti, l’opaco e il privato, c’è, ci deve essere un nesso. Vale forse la pena di improvvisarsi astronomi da interno.
Il led della sveglia in camera da letto segnala ogni secondo che cade e, nel contempo, svela le tarsie dell’armadio, gli spigoli del comodino e la forma della mummia che non prende sonno.
Nello studio c’è un sistema in cui il sole è il pulsante quadrato della plafoniera, sistemata alla meglio su uno scaffale basso. È giallo-arancione, stella anziana, che tuttavia insanguina qualche dorso di libro. Langue anche il pianetino qualche scaffale più su. È rosso, tenue, e appartiene al micro hi-fi component system, o coso per ascoltare musica in scatola. A lato, ma non tanto, i due pianetini blu del computer. Un blu anaffettivo, ospedaliero.
Nella sala l’astro di rispetto è il pulsante da piede pertinente ad una lampada a stelo. È triangolare, rosso vivo con brevi e irregolari variazioni d’intensità. Sole ansioso, da cui dipendono tre pianetini, quello in alto a sinistra d’un dismesso micro hi-fi etc., uno appena più sotto del televisore e l’ultimo del dvd recorder, o coso per vedere tutti i filmi in scatola che vuoi, tutte le volte che vuoi.
Il buio dell’ingresso è offeso dal modem, oggetto di design, realizzato perciò in forma di zecca biancastra. La sua luce (l’astro) corre su un lato del coso. Probabilmente, nelle intenzioni del designer è quello da cui la zecca si alimenta. A guardarla come si guardano gli oggetti di casa, con la testa altrove e lo sguardo proprietario che scivola via, sembra un sorriso. L’astro è il sorriso cordiale della zecca. Appare d’un arancione esangue che di notte rivela tuttavia un notevole potere. Il lume vicino al quale è posto di giorno è una brocca color zabaione con viole e peonie dipinte, oggetto dunque ordinario e senza tempo. Di notte la zecca lo trasforma in un blocco di coratella in forma di brocca. E spande un’aura vinosa in tutto l’ingresso…
Ci si domanda: ma Il buio, fosse pure quello casalingo e conosciuto, che contiene e avvolge il tuo, e quello del mondo, che contiene ogni cosa, la gioia e i tormenti di San Sebastiano, la protezione e il pericolo, che fine ha fatto il buio 

 

*

A fare amicizia coi ragni
m’inviti tu, che eviti d’uscire
e parli della loro complessa esistenza
di architetti e tessitori:
altro, dici, che archistar,
altro che tessitrici d’oriente
legate per anni al panno
che fiorisce e s’abbellisce
succhiando a loro mattino e sera.
Mi dispiace, rispondo, mi dispiace davvero.
Per te, per i ragni
e le tessitrici

*

al tramonto t’affacci e ascolti
senza rammarico o nostalgia
la gioventù per via che schiamazza e strilla.
Non scorre inizio o fine, lo sai,
non ricordi non allarmi
che possano sottrarre profumo alla sera

*

1
Va bene così, ce ne stiamo a casa
scriviamo dormiamo
se costretti alla televisione
teniamo a freno la voglia
di portare le mani alla testa,
perciò ce ne stiamo a casa
dormiamo
qualche volta sogniamo

 

2
(tu eri diversa, con te il confronto
era un fiume gonfio
con barbagli e rami appuntiti nel ventre,
il sonno non era rifugio
si evadeva infine dal campo
si sognava,
un po’,
per intervalla)

 

3
il fischio del merlo nel primo mattino
come un’acqua appena salata
contiene stupore
il merlo si meraviglia di un’altra
giornata, il merlo nasce con l’alba,
sa cosa lo aspetta durante il giorno
e tuttavia saluta stupito
l’avvento del sole

 

*

(canzonetta per Viola)

Viola rubava il cibo il vino
i libri che poi lasciava
nel cesso d’un bar o sull’erba

l’inverno dormiva da altri
nel caso pagava pegno
Viola rubava Viola teneva
per sé la giornata

per sempre fuggita,
non c’era un grammo
di astio nel suo gabbare
lo strascico grande

Viola Viola
per sempre fuggita

*

è inutile andare a fondo
la causa canzona l’effetto
si mostra sfrontata e nuda,
strillava Stornello il matto esperto
di piazza delle erbe
e intorno assentivano tutti
per tenerlo tranquillo e perché era vero.

 

 

[Immagine: Gail Albert Halaban, Out my Window]

 

 

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