di Emanuele Zinato
[Fra le tante cose di cui si discute in questa campagna elettorale c’è il progetto di Potere al Popolo. Alcuni sono perplessi, altri lo considerano «la sola proposta politica italiana su cui val la pena di sperare e di riflettere». Così la pensa Emanuele Zinato, che ci ha inviato questo suo intervento, uscito su una nuova rivista on line, Figure].
I. La comparsa di Potere al popolo solleva questioni cruciali e concetti-chiave in cui il vecchio e il nuovo si intrecciano e in cui il seme del nuovo stenta ancora a germogliare. Eppure, da trent’anni in qua, è la sola proposta politica italiana su cui val la pena di sperare e di riflettere. Anzitutto il nome: contiene un termine che può suonare imbarazzante e che, a chi conosca il Novecento, può evocare una tradizione politica tragica o fallimentare. A esempio, quella dei Fronti popolari legati allo stalinismo, dalla Guerra di Spagna alle elezioni italiane del 1948 in cui socialisti e comunisti si presentarono uniti con un simbolo con il volto di Garibaldi incastonato in una stella verde. Unità popolare è anche il nome dell’alleanza fra socialisti democratici e comunisti che in Cile sostenne Allende fino al Golpe del 1973. Infine, il termine può rammentare i partitini maoisti dei primi anni Settanta, come Servire il popolo. Una parte, sia pure minima e residuale, di questa lunga tradizione della Terza internazionale è presente in Potere al popolo: penso soprattutto al PCI, che fin dal simbolo ripropone intatta l’icona del Pc italiano storico, togliattiano.
Oggi quasi nessuno ha memoria di questa storia sedimentata, e il termine popolo nel circo mediatico evoca piuttosto il populismo nella sua rozza accezione odierna. Ma con il termine populismo, il discorso dominante tende a rappresentare tutti i nemici dell’ordine neoliberista globalizzato, della libertà cioè concepita come libertà del mercato, la sola che garantirebbe ancora la promessa di benessere e il simulacro dello stato di diritto.
II. La proposta di Potere al popolo ha la sua ragione profonda in un’ altra catastrofe, conclamata: quella delle socialdemocrazie che, in ogni dove, tendono a coincidere con l’ordoliberismo, riservando alle proprie radici storiche poco più che un sorrisetto compiaciuto e impotente. Welfare, diritti sociali, beni comuni, per non dire della prospettiva socialista, sono subordinati alle “compatibilità” tecnocratiche e finanziarie delle istituzioni europee: ne è prova il pareggio di bilancio introdotto nella nostra Costituzione nel 2012, che ne ha sfregiato la natura democratica legittimando il sistema dei tagli, in nome dell’ideologia che impone politiche monetarie e divieto per lo Stato di qualsivoglia intervento in deficit spending sull’economia, illegalizzando in sostanza, con voto bipartisan, stato sociale e keynesismo.
E’ sempre più evidente, in tal modo, come i partiti moderati o di centrosinistra europeisti e le destre razziste siano due aspetti di una medesima unità, che si alimenta a spirale e dialetticamente. I soli movimenti politici europei nuovi che hanno qualcosa in comune con la neonata esperienza di Potere al popolo, Podemos e La France insoumise, vengono inclusi invece dal discorso dominante in un medesimo campo populista, con Marine Le Pen.
III. La parola popolo nel nome di un partito in potenza rivoluzionario, apre il problema dell’esistenza o meno di un soggetto politico di cambiamento e di come denominarlo. Per molti, specie per le generazioni tra i quaranta e i cinquant’anni (educate dalle neotelevisioni), che hanno interpretato la storia sociale degli ultimi trent’anni come una totale mutazione “immateriale” e postmoderna, sono evaporati i concetti di destra e di sinistra e divenute liquide le identità forti della modernità (nazioni, popoli, classi). Per questa visione del mondo, egemone, ci sono solo individui: monadi fluttuanti nello spazio globale, mosse dai desideri e disciplinate dalla cultura dei consumi; non è dunque più pronunciabile né il termine classe né il lemma popolo. E’ invece condiviso con euforia il concetto di popular culture, per indicare come soggetto collettivo le platee sociali che si nutrono degli spettacoli di massa.
Il termine popolare, unitamente a nazionale, compare tuttavia nel luogo forse più alto nella storia del pensiero politico novecentesco italiano: nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Per Gramsci, uno dei temi cruciali della questione ideologica del nostro Paese, fin dall’unità nazionale, sta nella distanza tra i ceti intellettuali e il popolo. Su questo ragionamento si basa la connessa nozione di egemonia, che in tempi recenti ha conosciuto un’importanza internazionale negli Studi culturali, specie in America latina.
IV. Alzando gli occhi dal nostro orticello contemporaneo, putrido e provinciale, si scopre dunque come il termine popolo nella denominazione del nuovo partito sia meno “imbarazzante” di quanto gli osservatori liberal nostrani, sempre un po’ cinici e “apoti” per vocazione, siano disposti ad ammettere.
L’ argentino Ernesto Laclau in Egemonia e strategia socialista (1985) scritto con Chantal Mouffe, ha a esempio tentato di attualizzare Gramsci e di dare una risposta al thatcherismo e al motto «la società non esiste». L’approccio di Laclau è maturato sul campo in Argentina, culla del populismo contemporaneo di Peron studiato ne La ragione populista. Il populismo è una «logica sociale» ed è il modo con il quale si è costruito il «politico» durante la modernità. Il gruppo sociale che s’impossessa del «popolo», inteso da Laclau come significante, riesce a tradurre la propria egemonia nella società. Esiste per il neogramsciano Laclau, insomma, un populismo di «destra» che esprime posizioni corporative o nazionalistiche, e un populismo di «sinistra» fondato su un’immagine capace di unificare le esperienze di sfruttamento con lo scopo di rovesciare i rapporti di forza esistenti.
Il «popolo» resta così per Laclau un «universale vuoto» che viene occupato e risignificato nella lotta per l’egemonia tra i diversi «populismi»: questa lettura politica ha conosciuto in Europa ricadute concrete sorprendenti, dato che Iñigo Errejón, l’intellettuale spagnolo di Podemos, ha adottato Laclau come punto di riferimento. Può essere, per ipotesi “folle”, che Syriza e Podemos, abbiano esaurita la loro spinta e che tocchi ora all’Italia, il Paese di Gramsci, il compito di riprendere in mano il testimone per la ricerca, radicale e concreta, di un’alternativa sociale.
V. Il motto Potere al popolo, pur di apparente derivazione romantico-ottocentesca, mostra così di avere una sua storia, memoria e potenzialità. Non credo, del resto, che un progetto radicale di questo tipo possa essere fondato con l’armamentario concettuale della French Theory, vale a dire con il rilievo foucaultiano del nesso molecolare fra potere e linguaggio, spesso tautologico e comunque egemone in campo teorico dagli anni ottanta in poi. Questo nesso, a dire il vero, fa capolino anche nella terminologia postmarxista di Laclau che con significante vuoto fa riferimento a Lacan e alla cosiddetta “sinistra lacaniana” ma lì viene temperato dalla matrice gramsciana e dal radicamento concreto nelle lotte sociali popolari dell’America latina.
La dilagante fortuna di Foucault, di Derrida, dell’heideggerismo “di sinistra”, dai tardi anni ’70 in poi, in geometrica coincidenza con il terrorismo e la reazione, è viceversa alla base delle definizioni, seducenti e perniciose, di un soggetto collettivo sfuggente e “desiderante”: il concetto di moltitudini di Negri e Hardt. Per gli autori di Impero le “moltitudini” avrebbero essenza potenzialmente rivoluzionaria, nel senso che le loro forze singolari sarebbero immediatamente produttive di forme di vita, di affetti attivi, di diritti vivi, di capacità creatrici della metropoli.
Si tratta in sostanza di superare queste nomenclature non mediate e estetizzanti, e le loro ricadute politiche (la prassi interstiziale d alcuni Centri sociali) e di nutrire la nozione vuota di popolo del pieno desunto dai conflitti sociali, di classe e sul lavoro. Potere al popolo ha dunque compiti ben più vasti che raccogliere voti alle prossime elezioni: si tratta di ritessere un poco alla volta la rete del conflitto sociale distrutta e di ripensare, a partire da questa, la forma-partito. Si può sperare che questa nuova realtà politica si doti degli strumenti adatti a non cadere nella coazione a ripetere, se uno dei suoi nuclei fondatori, il collettivo Clash City Workers, è virtuosamente ripartito dalle prime forme associative e resistenti dell’organizzazione del lavoro, e dagli strumenti dell’inchiesta, là dove insomma i sindacati tradizionali hanno da tempo lasciato il vuoto più desolante. Il fiume carsico del movimento proletario non è costellato solo di sconfitte e di errori: è viceversa un patrimonio ricco e vivo, sedimentato e rimosso, che attende – oltre le caricature a cui è stato ridotto, – di essere riletto e riscoperto, proprio come i morti che, in Franco Fortini, attendono un colloquio con i vivi.
VI. L’altro lemma (Potere) di cui si compone il nome della nuova proposta presuppone di fare i conti con la fortuna e la sfortuna della parola Rivoluzione, esattamente a un secolo dall’Ottobre. E dunque di inventare forme di partecipazione dal basso e di autogoverno, di democrazia diretta accanto a quelle, logore, della rappresentanza liberale. Qui mi limito a dire che, rispetto alla vicenda della Grecia, e in specie alla volontà popolare del 61,5% dei greci che, dopo aver mandato al governo una formazione di sinistra radicale, nel Referendum si sono rifiutati di obbedire alle richieste dei creditori europei, credo che la lezione per Potere al popolo sia cruciale. Le organizzazioni politiche che rappresentano gli interessi degli sfruttati sono in Europa assai deboli, in Italia debolissime. E, tuttavia, dalla lezione della Grecia deriva che il partito, o la coalizione di partiti di sinistra che mira a assumere il governo, in un futuro, dovrà proporsi di disobbedire, in modo chiaro e annunciato, alla Commissione Europea. Ne deriva anche la necessità di organizzare la mobilitazione popolare. Syriza, come il Governo Allende che nel 1973 si trovò davanti a una stretta non del tutto dissimile, non aveva previsto infatti di fare appello alla mobilitazione.
Va viceversa capito fin da ora che non c’è margine di manovra per uscire dalla dittatura delle politiche di austerità e per riprendere il controllo democratico senza prendere misure radicali contro il grande capitale. La situazione finanziaria dell’Europa, la dittatura della Banca Centrale europea e la crisi del capitalismo globale sono incompatibili con la sovranità dei popoli e non vi sono forze antagoniste in grado di ostacolare questa realtà: questa è la tragedia del nostro presente. Ridurre il tempo di lavoro proteggendo il salario, introdurre un salario sociale, deprivatizzare, abrogare le leggi antisociali e adottare leggi per tassare i grandi patrimoni: su questi punti programmatici però fino a pochi anni fa nessun partito di sinistra radicale poteva sperare di ottenere oltre l’ 1,5 per cento e le medesime istanze di lotta sono state impugnate, grottescamente sfigurate dal nazionalismo e dal razzismo, solo dalle destre neofasciste. Viceversa Syriza, Podemos, France insoumise e il labour di Corbyn hanno guadagnato consensi vasti intorno ad alcuni di questi punti, di tipo più o meno marcatamente anticapitalista.
Un altro vento può darsi sia destinato a soffiare: lo stesso che qua e là, – da Lampedusa alla Valle di Susa, dalle lotte nella logistica ad Almaviva, – non ha mai smesso di levarsi, a ben guardare. Potere al popolo dovrà immaginarsi fin da subito all’altezza di alzare le vele e di raccogliere quel vento, non tanto come cartello elettorale ma come coordinamento di lotte, per ora disperse, ignorate o caricaturizzate.
[Immagine: Spencer Tunick, Ring].
Io mi chiedo solo perché, mentre in altri paesi questo campo elettorale è unito, in Italia è sempre diviso in due o più parti.
(Osservo poi tra parentesi che l’accostamento tra “la dittatura della Banca centrale europea” e la politica di Kissinger in Sudamerica mi sembra un po’ forte.)
@Mauro Piras: Dipende che cosa si intende quando si parla di “questo campo elettorale”. Se includiamo, per esempio, anche LeU forse è meglio lasciar perdere dato che la maggior parte dei suoi esponenti, nel corso di questa legislatura, non ci ha nemmeno provato a contrastare le politiche del Pd. Se invece guardiamo alla galassia di sinistra, Potere al popolo si pone come un primo tentativo di unire questo campo, non sulla base di alleanze o candidature dell’ultima ora (penso alla candidatura di Anna Falcone per “Liberi e Uguali”), ma partendo dalle assemblee territoriali.
Per chi non ha voluto aderire da sinistra invece, la questione che lei pone rimane aperta. Da quello che mi risulta, l’unico partito che ha motivato la sua mancata adesione al progetto in maniera approfondita è stato il PLC di Ferrando, le cui ragioni penso siano, in parte, anche valide. Inspiegabile, invece, la scelta del PC di Rizzo che mette nello stesso Calderone LeU e Potere al popolo. Cito da un’intervista a Rizzo:
“Il nostro è un progetto che va oltre il voto, è un programma di lotta e di mobilitazione. Per gli altri, l’elezione è il fine ultimo”.
Affermazione evidentemente falsa dato che in ogni assemblea territoriale di Potere al popolo, si continua a ricordare quanto il fine ultimo non sia l’appuntamento elettorale, ma la riorganizzazione e il collegamento di tutte le esperienze di lotta sparse in Italia. In questo senso mi sembra che PaP sia in controtendenza rispetto all’andamento diviso della sinistra italiana, su cui lei ha giustamente posto l’accento.
In merito all’accostamento tra dittatura della BCE e il golpe cileno appoggiato dagli Stati Uniti: a una prima lettura può essere forte. Però le chiedo (e mi chiedo, dato che non ho una posizione chiara sull’argomento) se la violenza non possa assumere diverse forme: da quelle più dirette e immediate del colpo di stato, promosso da un Paese estero, a quelle più indirette e mediate, nascoste sotto la neutralità di parametri scientifici e direttive da rispettare.
Tutti stiamo riflettendo molto sulle prossime elezioni. So anch’io che la scelta socialdemocratica porta prima o poi
a votare per soluzioni liberali, se non liberiste. Ma è anche vero che nelle periferie, nei quartieri malfamati ci lavorano i fascisti e basta. Invece ci dovremmo stare noi. Che di Potere al popolo si sa poco e neanche i nomi vengono diffusi. Ci vuole uno spazio a sinistra, che sia radicale, ma che aggreghi davvero.
Forse la soluzione più corretta sarebbe quella di entrare tutti in un partito di sinistra un po’ più numeroso(è inutile dire che va escluso il PD di REnzi), e cercare di far emergere con la vis polemica e dialettica, col lavoro nelle periferie e nelle zone più povere,la linea radicale e più attenta alle esigenze del ‘popolo’, Bisognerebbe lavorarci un po’ su, continuare un lavoro che è andato disperso.Per riuscire almeno ad avere una piazza di sinistra. Fare scuola di partito, entrare negli organismi dirigenti per allargare, convincere. Così in pochi non si combina niente, neanche in Spagna e in Gran Bretagna… Entrare in un partito socialdemocratico, e lavorare dentro e fuori per far emergere la linea dell’uguaglianza, del lavoro e del potere al popolo.
Intanto sto leggendo il Minotauro globale di Varoufakis e Badiou…
Le ragioni di Potere al popolo! sono nobilissime, ma non mi convincono. Non credo alle istituzioni, in parlamento non vanno i migliori ma i furbi e gli arrivisti. Il gioco è talmente evidente e palese. Sono stanco di fare al massimo da gregario e, una volta tanto, voterò per me stesso: non andrò.
Grazie a Mauro Piras e a Filippo Gobbo.
In effetti, penso non ci sia un campo comune fra l’iniziativa di LEU e la nascita di Potere al popolo. La prima è un cartello elettorale in maggioranza di fuoriusciti dal PD che ne hanno condiviso per molto tempo il tragitto, il secondo non è un cartello elettorale ma un tentativo di costruzione di un partito di alternativa sociale, collegando le lotte per il lavoro e quelle dei migranti. Per il primo le elezioni sono un fine, per il secondo un mezzo. Solo il secondo, infine, ha qualcosa a che fare, sia pure in modo larvale, con le esperienze di Syriza, Podemos e con l’esperimento di Melenchon.
Si tratta oggi in definitiva secondo me – schematizzando molto – di scegliere da che parte stare: con chi pensa in vario modo, con vari gradi di disagio, “There is no alternative” (la linea di pensiero che considera il neoliberismo come la sola ideologia e pratica economica e che vede il cambiamento radicale indesiderabile perché possibile solo in direzione catastrofica o fondamentalsta), e chi pensa invece che la tradizione di lotta degli sfruttati della modernità non sia evaporata nel nuovo millennio, sebbene duramente sconfitta. E che senza quella tensione al cambiamento radicale, la barbarie sia destinata a crescere, alimentandosi di quelle stesse ragioni sociali, negate, sfigurate, che ritornano sempre più sulla scena in forme spettrali.
Infine: comparando il ricatto che ha subito la Grecia da parte dei creditori e quello imposto con le armi a Allende in Cile, naturalmente pensavo ai Chicago Boys, formatisi con Friedman e assunti negli anni ’70 dal ministero dell’economia di Pinochet. La privatizzazione sperimentata in Cile dopo il Golpe è stata poi applicata su scala globale soprattutto ai paesi che chiedono prestiti al Fondo monetario.
Nei primi anni ’90 Francis Fukuyama scrisse The End of History
PaP: TROPPO DISSENSO E POCA AUTORITÀ
Caro Emanuele,
personalmente sono incerto tra non andare a votare o dare una pacca d’incoraggiamento a PaP malgrado tema che non ce la faccia ad arrivare in parlamento. Ma questo è un aspetto in fondo secondario. Quello principale è come nei tempi lunghi si possa contribuire davvero a uscire dal «nostro orticello contemporaneo, putrido e provinciale». E allora devo esporti le mie perplessità sulla tua generosa presa di posizione, sperando che non siano scambiate per quelle di un «liberal» nostrano né di un “apota” né di un vecchio conservatore.
Non devo certo ricordare a te «Il dissenso e l’autorità» (maggio 1968), la riflessione che sui «Quaderni piacentini» Fortini rivolse a quanti (noi compresi e allora giovani!) partecipavano al movimento degli studenti del Sessantotto (ben 50 anni fa, purtroppo!); o invitarti a riflettere su un brano in particolare che diceva: «Non si lotta efficacemente contro l’autoritarismo se non se ne sa il perché. Bisogna sapere in nome di quale autorità si combattono le forme e le armi di cui si veste l’autorità che rifiutiamo. In nome, insomma, di quale prospettiva»; e che proseguiva forse un po’ enfaticamente così: « il gesto del marinaio di guardia al ponte che nella notte dell’Ottobre 1917 respinge senza tanti argomenti tutto un secolo di ideologia democratico-borghese nelle persone del consiglio municipale di Pietrogrado avviate in corteo patriottico verso il Palazzo d’Inverno non è, come potrebbe sembrare, della famiglia di tanti altri gesti analoghi, di centurioni o di granatieri, soltanto perché (ma è tutto) a due chilometri di distanza sta lavorando il cervello di Lenin che direttamente o indirettamente lo ispira (e se ne ispira)» (F. Fortini, Il dissenso e l’autorità, pagg. 1416-1417, in «Saggi ed epigrammi», Mondadori, Milano 2003).
Ma è con in mente questo scritto e l’assillo per il sempre irrisolto problema del rapporto tra spontaneità ed organizzazione che mi sento di criticare sia i pensieri che hai esposto in questo tuo articolo sia la scelta – secondo me frettolosa, approssimativa e senza convincente prospettiva – di partecipare a *queste elezioni* con la lista di PaP.
Emanuele, queste liste galleggiano in un ideologismo generico e a mezz’aria. Non hanno vere radici nella società (tranne in alcune situazioni particolari). Nelle sempre e da tutti trascurate ( e solo di tanto in tanto idealizzate periferie, in cui io da decenni vivo) raccolgono giovani o semigiovani, spesso rampanti e maneggioni al solito vecchio modo più qualche vecchio militante imbolsito e spesso troppo rancoroso.
Davvero esito a parlare di «un partito in potenza rivoluzionario»; e esiterei a richiamare Gramsci come se ancora si ponesse il semplice(!) problema di una «distanza tra i ceti intellettuali e il popolo». No, la situazione è di una disgregazione angosciante dell’intellettualità di massa e delle ex- classi o dell’ex- popolo o dell’ex- ceto medio. La prima fatica a ripensarsi (ho l’esperienza di Poliscritture che me lo dimostra..). Le seconde non riescono a uscire dal mugugno, dal silenzio, dalla paura. E quando leggo le tue parole: «La proposta di *Potere al popolo* ha la sua ragione profonda in un’altra catastrofe, conclamata: quella delle socialdemocrazie», mi chiedo se essa sia contrastabile con la lista di Potere al Popolo, ammesso che non rientri del tutto nel “populismo di sinistra” e non sia soltanto uno dei segni della crisi. E ti chiedo ancora: ma quanto desiderante è il concetto di «potere al popolo»? quanto si distingue davvero dalle criticate “moltitudini” teorizzate da Negri? Non è in modi diversi anch’esso seducente ma in fondo pernicioso (perché manca – detto in fretta – l’eco vero della lezione di Lenin)? E si può sfuggire ai limiti delle “moltitudini” presentandosi alle elezioni? Per me c’è un vuoto di pensiero proprio sul “che fare”/”che pensare”; e non può essere coperto da auspici generici o troppo metaforici (« Potere al popolo dovrà immaginarsi fin da subito all’altezza di alzare le vele e di raccogliere quel vento, non tanto come cartello elettorale ma come coordinamento di lotte, per ora disperse, ignorate o caricaturizzate».
P.s.
Da meditare:
VOTO, NON VOTO: due posizioni all’interno di Carmilla
https://www.carmillaonline.com/2018/01/17/voto-non-voto-due-posizioni-allinterno-carmilla/
Stralcio:
Senza entrare nel merito delle attuali liste previste (Potere al Popolo ed altre) vorrei sottolineare che nel 1976, a chiusura di una straordinaria stagione di lotte non ancora sconfitte, la lista di estrema sinistra allora presentata alle elezioni, Democrazia Proletaria (comprendente Lotta Continua, PDUP e le altre forze a sinistra del PCI), raccolse all’epoca il favore dell’1,52% degli elettori (per un totale di 557.025 voti e 6 seggi in Parlamento). Fino a quell’anno la partecipazione al voto si aggirava intorno al 92% degli aventi diritto e con il proporzionale anche con una percentuale così bassa era possibile ottenere dei seggi. Dal 1979 iniziò a declinare la partecipazione al voto e con essa anche i già scarsi favori per l’estrema sinistra (in quelle altre elezioni politiche NSU, Nuova Sinistra Unita una sorta di Democrazia Proletaria senza il PDUP che era tornato a presentarsi da solo, raccolse lo 0,8% dei voti e nessun seggio).
Tutto ciò rivela che per l’elettorato, almeno fino al 1976, il riferimento istituzionale doveva essere solido (il PCI aveva nel 1976 quasi il 35% dei voti oltre a quelli che andavano al PSI) per poter garantire, anche se sotto il ricatto delle lotte e con limitazioni rispetto ai “desiderata” di massa, dei sicuri vantaggi economici e sociali. Posso assicurare personalmente che all’epoca molti operai, anche militanti di Lotta Continua, si chiesero perché votare una lista debole e con poche prospettive invece di una, pur sostanzialmente avversa alle lotte spontanee dal basso che avevano guidato quella stagione, in grado di fornire maggiori garanzie di successo immediato. Insomma, una forma di equilibrio”dal basso” che coglieva la differenza tra lotte e rappresentanza istituzionale. Oggi non ci sono più quelle lotte (le assemblee territoriali non sono tali e di solito raccolgono i soliti quattro gatti della deriva politica) e non c’è più, nemmeno lontanamente un riferimento istituzionale forte, a meno che non si parli della Lega di Salvini o dei 5 Stelle. Oggi non c’è nemmeno un sistema proporzionale che garantisca la presenza in parlamento con un certo numero, anche minimo (sopra l’1%), di voti, mentre gli stessi parlamenti “nazionali” contano poco o nulla nelle grandi decisioni di politica economica e sociale. Per questi motivi “contarsi” non servirà a nulla se non a scoraggiare ancora di più i più giovani e i lavoratori precari che non si renderanno conto che in effetti siamo in numero superiore a quello che uscirà dalle urne, anche se a quelle “liste” non possiamo più credere.
Perché anche chi si pensa di “sinistra estrema” finisce coll’accompagnarsi con alcune vecchie cariatidi di partiti usciti dalla Storia già da qualche anno (Rifondazione, Comunisti italiani, etc.), che non attendono altro di poter rivivere come le mummie dei film della Hammer (grazie a un misero ed irraggiungibile seggio frutto del rito parlamentare), oppure col rivalutare termini (popolo) e programmi (uscita dall’euro) che appartengono ad altri (nazionalisti e populisti). Dimenticando che per la classe operaia in lotta e per il proletariato in genere (oggi prevalentemente migrante e/o precario) non ha importanza la nazionalità del padrone contro cui si lotta e nemmeno la moneta con cui si è retribuiti. Questo conta invece per i padroni e l’economia nazionale, a meno che non si voglia riproporre l’ennesimo e farlocco Risorgimento interclassista di stampo togliattiano.
Meglio sarebbe dedicarsi allo sviluppo e alla moltiplicazione delle lotte sui territori, dalla NoTav al No Tap solo per fare due esempi, o contro la precarizzazione del lavoro, in cui ricreare un’autentica unità di classe tra proletari italiani e stranieri, invece di cercare di sfruttarle per i propri fini elettorali, e soltanto da lì ripartire per la ricostruzione dal basso di uno schieramento che travalichi i limiti di un’idea di Partito bolsa, dannosa e superata. Dixi et salvavi animam meam.
@gloria gaetano
“è vero che nelle periferie, nei quartieri malfamati ci lavorano i fascisti e basta. Invece ci dovremmo stare noi”
E’ esattamente questo che chi è ancora legato a un’immagine di società del desiderio, delle pure superfici e delle pulsioni di consumo, non si accorge che sta rapidamente accadendo: il “ritorno alla realtà” è ben altra cosa di una tendenza letteraria. Come negli anni ’30 in Germania, i fascisti stanno egemonizzando i temi, i luoghi stessi della contraddizione sociale. Il luogo di nascita di Potere al popolo, l’ex opg di Napoli è tuttavia una realtà in controtendenza: nel quartiere Materdei è stato sottratto all’abbandono un luogo di servizio pubblico (laboratori, corsi di lingua, mostre, aule studio, sportelli per i diritti del lavoro ) dove la normalità è data da disoccupazione, malavita e razzismo.
@Ennio Abate : del resto, la riflessione teorica non sprovveduta che sta alla base della nuova esperienza è tutt’altra che quella dei vecchi babbioni della sinistra esangue. Basta vedereil libro sul lavoro di Marta Fana o il libro collettivo dei Clash City Workers “Dove sono i nostri?Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi”.
Da cui si evince come Potere al popolo potrebbe avere una vita attiva e feconda nella rete delle lotte (a partire dalla salute, dalla scuola e soprattutto dal lavoro e dai migranti) più che nella vicenda elettorale che – se non come megafono – non ha grande rilievo, a mio parere (@Falcone)
“Tutti stiamo riflettendo molto sulle prossime elezioni.”(Gloria Gaetano)
Sì, ma non si vede…Ho dichiarato la mia simpatia e le mie riserve verso l’*esperimento* di Potere al Popolo. Spiace molto il silenzio che ha accolto questo post.
A mio avviso l’elemento qualificante e di novità rappresentato da Potere al Popolo consiste proprio nell’essere un tentativo di costruzione di una rete di movimenti sociali, una coalizione di soggetti antagonisti, espressione di punti di vista critici rispetto al sistema sociale vigente.
In questo senso trovo miope criticare il progetto pensando che sia il solito tentativo elettoralistico autoreferenziale o quantificarne il successo in relazione al consenso nelle urne. La lista elettorale di Pap ha solo motivazioni tattiche, vuole cioè essere uno strumento di azione politica, un’occasione per far emergere dalla censura mediatica temi e punti vista rimossi dal sistema dominante. Lo scopo della partecipazione elettorale è quindi funzionale e subordinata all’obiettivo politico principale: costruire e ri-articolare un popolo.
Pap vuole essere un elemento di trasformazione sociale, non è un marchio pubblicitario indirizzato al fine di racimolare un pugno di voti all’interno di quella riserva indiana che è oggi il pensiero di sinistra. Il popolo a cui si riferisce ancora non esiste, è da costruire. Utilizzando le già citate categorie pensiero di Laclau è un “universale vuoto” che va dotato di senso attraverso l’articolazione di una “catena di equivalenti” frutto delle lotte e mobilitazioni sociali.
In questi termini Pap propone, nè più nè meno, due temi:
– Fare egemonia partendo dai punti di vista dei movimenti sociali diffusi sul territorio (ambientalisti, femministi, anticapitalisti, libertari)
-Utilizzare come metodo di azione politica la democrazia-radicale.
Si riuscirà nell’impresa di creare un soggetto politico di questo tipo con possibilità reali di essere un elemento di trasformazione del modello sociale costituito? Qualora ciò avvenisse quali contenuti specifici saranno poi veicolati o che tipo di società verrà immaginata? Sono tutte domande legittime a cui ora non esiste risposta. Proprio perchè Pap vuole essere un movimento democratico non esistono scelte precostituite, sarà la dinamica politica espressa nella sua contingenza a darci le risposte.
Quello che per ora mi sento di affermare è che il grande merito di questo progetto è quello di far riemergere, di riattivare, il momento ontologicamente fondante della dimensione dell’esistenza sociale: il politico. Per troppi anni in Italia tale elemento è stato sopito, nascosto tra le numerose sfumature delle sub-culture. Potere al Popolo rappresenta, a mio avviso, una possibilità di riapertura dello spazio politico, una scintilla. A tutti quelli che sperano possa generare un grande fuoco non resta altro da fare che partecipare e dare il proprio contributo.
Saluti
LETTERA A UN AMICO GIOVANE CHE STA CON “POTERE AL POPOLO”
Caro X.,
beh, aspettiamo ‘sto 4 marzo e ne riparliamo. Le riserve ce l’ho io e credo ce l’abbia tu. Ma io sono vecchio ed esterno al tentativo di PaP e vedo di più i suoi buchi. Tu, giovane, li vedi lo stesso, ma sei dentro e sembri avere più fiducia. Il mio atteggiamento è comunque di simpatia controllata non di ostilità. Soprattutto per la presenza di giovani come te e come i tuoi amici. Vedo che anche persone più ferrate politologicamente hanno un atteggiamento di relativa simpatia e mi fa piacere (ad es. Giannuli: http://www.aldogiannuli.it/elezioni-politiche-e-regionali-2018-ecco-come-votero/).
Invece mi sento d’insistere sul “vuoto di pensiero” o, meglio ancora, di riflessione approfondita. Il contenuto politico per questa operazione/sperimentazione mi pare cucinato in fretta. Preciso però che la richiesta di colmarlo o di cominciare a colmarlo non l’ho rivolta a “un partito che si presenta alle elezioni”, cioè che ha già dato la precedenza a una scelta contingente o valutata urgente, ma a quanti oggi ancora considero *pensanti* (che votino o non votino, si attivino o meno per queste elezioni). E quindi a gente che ancora scrive, fa riviste, dibatte. Qui siamo davvero indietro e si riesce a scambiare poco. O arranchiamo (almeno noi vecchi) sempre col rischio di incarognirsi o di appartarsi ormai sfiduciati; mentre temo che i giovani più facilmente si lascino attrarre dalla contingenza e rimandano a dopo la riflessione. Teoria e prassi non vanno mai veramente a braccetto, anche se l’auspicio scolastico e rituale è sempre quello: tenerle “strettamente” unite (una parola!). Non sono sincronizzate; e spesso bisogna proprio decidere di strapparsi alla quotidianità per trovare lo spazio per pensare, senza farsi bloccare da certi stereotipi sulla “sterilità della teoria”. Specie oggi che siamo più di prima sottoposti al rumore di fondo globalizzato.
Ci sentiamo presto.