di Krystyna Dąbrowska
a cura di Leonardo Masi
[Krystyna Dąbrowska (1979) è una delle più importanti poetesse polacche contemporanee. Con La faccia del mio vicino, tradotto da Leonardo Masi, ha vinto il Premio Valigie Rosse 2017. Pubblichiamo una scelta di testi e un estratto dalla prefazione di Leonardo Masi]
La faccia del mio vicino di casa
I
La faccia del mio vicino di casa, un professore
a cui è morta la moglie,
è diventata all’improvviso nuda, ha perso ogni velo.
Quando l’ho incontrato nel cortile
e un po’ a sorpresa ha cominciato ad aprirsi,
a dire quante cose gli ricordano lei,
mi è sembrato di vedere la sua faccia per la prima volta.
Come quella casa di fronte –
fino a poco fa coperta da un enorme ippocastano
che poi una tempesta ha spezzato e lo si è dovuto abbattere.
E prima che l’abitudine ricresca sull’assenza
vedo le finestre della casa, la vita che avviene lì dentro.
II
La camicia chiara. La testa da patrizio romano.
Il posto macchina intoccabile
presso il muretto dove quando è piovuto
parcheggiano anche le lumache.
Per molto tempo ho pensato: un signore impeccabile
che attraversa la sua vita ordinata
come ogni mattina attraversa il cortile.
Gli avrei dato al massimo settant’anni.
Ce n’ha ottantadue, mi ha detto di recente,
e da bambino era nel ghetto di Varsavia.
Il padre e il fratello morirono. Lui si salvò con la madre.
Alina Szapocznikow ha scritto del battesimo della disperazione.
Quanti non dicono di averlo attraversato.
III
Quando nel cortile è arrivato il camion dei pompieri
e la scala è salita su fino al balcone del professore
ho realizzato che era da molto che non lo vedevo.
Nell’ultimo anno era cambiato, un po’ ripiegato,
non più un patrizio romano, ma un uomo avvolto dalla nebbia.
Qualcuno diceva che a chiamare i soccorsi era stato il figlio:
il padre non gli rispondeva al telefono,
era in casa, ma non apriva la porta.
Aspettavamo giù, un gruppetto di curiosi,
il camion ronzava, le luci lampeggiavano.
Alla fine sono scesi degli uomini con i caschi:
“Falso allarme – hanno detto – il professore
dormiva, non sentiva niente”.
Sembrava finita qui
e che i pompieri sarebbero andati.
Ma si è inceppato qualcosa e non hanno ritirato la scala.
Si è fatto buio e quella è ancora lì
davanti al balcone del professore.
Nella metropolitana
Il lampo di uno specchietto. Come in un piccolo acquario
si presentano occhi, sopracciglia, bocche voraci.
Nella folla che spintona, una ragazza con mano sicura
traccia una linea sulla palpebra, si trucca le ciglia.
Giornata calda. Coppia di anziani, tesi, in silenzio,
con un nipote magrolino, tutto imbacuccato.
Nel vagone quasi vuoto stanno davanti alla porta
come se dovessero scendere tra un attimo. Ma vanno oltre.
Giocano a scaldamano. Fratello e sorella? Le mani piccole di lui
paf, sui palmi della signorina vestita alla moda,
sexy dalle zeppe agli occhiali da sole.
Lei ride. Pura gioia. Per un attimo di nuovo bambina.
Sera presto di dicembre. Portati dal ritmo della corsa
i volti nella metropolitana lanciano smorfie, travestimenti,
sprofondano in se stessi, si allargano come una calligrafia
che si fa sempre più illeggibile via via che si scrive.
Prefazione
di Leonardo Masi
Negli ultimi decenni gli appassionati italiani che ne hanno sentito la necessità si sono potuti fare un’idea delle tendenze e degli autori più notevoli nella poesia polacca del secondo Novecento. Ciò è stato possibile un po’ grazie al fatto che alcuni grandi poeti polacchi si sono guadagnati un’ottima reputazione all’estero, specialmente dopo i due premi Nobel a Miłosz e Szymborska (rispettivamente nel 1980 e nel 1996), un po’ grazie ad una politica di sostegno alla letteratura polacca nel mondo che l’Istituto del Libro di Cracovia ha svolto negli ultimi anni (in Italia con l’Istituto Polacco di Roma come preziosa controparte), un po’ grazie all’autorevolezza di alcuni nostri traduttori e promotori culturali.
I poeti polacchi più giovani, anche se non scrivono all’insegna della continuità con una tradizione, si presentano indirettamente come i discendenti di quelli che, anche nella loro patria, sono considerati i tre grandi maestri: Czesław Miłosz, Zbigniew Herbert e soprattutto Wisława Szymborska, che ha conosciuto da noi un successo eclatante e senza precedenti. Accanto a loro, il lettore italiano può collocare altri due grandi vecchi, presenti in ottime traduzioni: Tadeusz Różewicz e Julia Hartwig, scomparsa nel 2017 all’età di novantacinque anni. Inoltre si può avere accesso, più o meno agevole, all’opera degli autori della Nowa Fala (Nuova Ondata), ossia la generazione che debuttò intorno al 1968: Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Krzysztof Karasek, Ewa Lipska. Un po’ meno rappresentati sono quei poeti che alla fine degli anni Ottanta hanno inaugurato una nuova tendenza in Polonia, Jacek Podsiadło e Marcin Świetlicki, forse perché il loro linguaggio dell’epoca, ispirato dalla poesia americana (O’Hara e Ashbery), ci risultava poco interessante. Ma della loro generazione sono stati tradotti in italiano libri di Eugeniusz Tkaczyszyn-Dycki e Jarosław Mikołajewski; e troviamo anche poeti più giovani, ma già classici, come Tomasz Różycki e Wojciech Bonowicz. “Forse è vero – scrive Alfonso Berardinelli in calce ad una bella antologia della poesia polacca dopo il 1989 – che rispetto ai poeti del pieno Novecento, da Milosz a Szymborska, c’è stata un’interruzione di continuità: ma mi sembra che ispirazione e tecnica siano varianti attuali dello stesso tipo, l’energia ritmica e il bisogno di capire che avevano i maestri non sono andati perduti.”
Se vogliamo trovare un comune codice stilistico per i poeti più giovani, mi paiono degni di attenzione ancora un paio di spunti di Berardinelli, che scriveva: “con questi giovani poeti polacchi scopro […] che potremmo anche noi scrivere poesia così, ma non ne siamo capaci, non abbiamo abbastanza vitalità, o fede, o naturalezza e siamo troppo (per istinto italico) prudenti”. Inoltre il verso libero che questi poeti usano in prevalenza “permette a questi poeti di giocare, invece che sulla metrica, sul ritmo della semantica, sulle figure di pensiero, sulle similitudini, le metafore e i paradossi più audaci e imprevedibili”.
Difficile dire se dalla prospettiva degli anni a venire riusciremo a distinguere nel panorama della poesia polacca più recente delle tendenze chiare, ma sul futuro di alcuni nomi non c’è alcun dubbio.
Il caso più interessante è, a mio avviso, quello di Krystyna Dąbrowska, poetessa nata nel 1979, la cui affermazione in Polonia è legata due premi importanti: quello della Fondazione Kościelski e quello della Fondazione Szymborska (ex-aequo con Łukasz Jarosz), entrambi nel 2013. Dąbrowska ha ottenuto questi riconoscimenti all’età di trentaquattro anni e, poiché in Polonia i premi letterari hanno un prestigio reale e gli viene anche data una relativa importanza mediatica, la poetessa si è imposta all’attenzione di pubblico e critica, restando tuttavia una presenza eccentrica.
Dąbrowska racconta in un’intervista di avere veramente cominciato a pensare seriamente alla poesia soltanto dopo la laurea all’Accademia delle Belle Arti: in precedenza c’erano stati appunti, dialoghi sentiti nelle strade, che si erano inaspettatamente trasformati in una propria voce ed erano andati a formare le poesie poi raccolte nel primo libro, Agenzia viaggi (2006) che già piacque molto alla critica. Poi le due raccolte successive, Sedie bianche (2012) e Tempo e diaframma (2014), con i quali la poetessa ha definito un suo mondo, una voce, uno stile. Una presenza eccentrica, si diceva, in quanto la poesia polacca non è abituata ad una “semplicità” del tipo di quella proposta dalla Dąbrowska. Casomai è abituata all’autoreferenzialità: la poesia polacca tuttora parla spesso di poesia polacca, oppure di Polonia, nonostante famosi poeti, soprattutto all’indomani dei grandi eventi storici, per tutto il Novecento si siano proposti di evitare l’argomento.
Dąbrowska invece parte dalla sua formazione per percorre altre strade. Fa tesoro della conoscenza della pittura e della fotografia, ma non è una poetessa per caso: sa bene quali zone non raggiungibili dalle arti figurative sono invece raggiungibili dalla poesia. Oltre alle immagini tradotte in parole, vi è una serie di caratteristiche molto evidenti, che Antonia LLoyd-Jones ha così elencato: “l’onestà nei confronti della vita, a livello personale; l’abilità di confrontarsi con le proprie emozioni profonde e di incapsularle in modo da farci comprendere le nostre; la curiosità per il mondo; la varietà della sua poesia, in termini di ambientazioni e tematiche, ispirate dai suoi viaggi e dalla sua empatia per le persone, ovunque e chiunque esse siano; il suo umorismo pungente e l’abilità di vedere il lato comico della vita; infine, la sua incredibile padronanza del linguaggio”.
Se proprio vogliamo trovare delle affinità letterarie fra Dąbrowska ed altri autori non sarà azzardato citare Robert Frost o Charles Simic, visto che sono alcuni dei poeti tradotti da Krystyna. Li accomuna una poesia che si propone di essere semplice, quotidiana. Ma davanti ad una poesia così legata al visuale ci si chiede dove sia il confine fra quello che si può scrivere e quello che non si può fotografare? È il confine “fra ciò che si vede / e tutto ciò che è nascosto” di Una poesia insonne, che dietro all’atmosfera da poesia d’amore, ha una dichiarazione programmatica fin dal titolo: la poesia di Dąbrowska non dorme mai, le immagini sono in continua fibrillazione, le attraversa un senso di empatia sempre presente, benché molto sottile e misurato. Anche gli oggetti, nota Piotr Matywiecki, “si aprono al flusso della psiche di qualcuno che li descrive e dopo un attimo diventano una forma in movimento di quella psiche”.
Henri Cartier-Bresson, “il tale con la Leica”, il fotografo che sosteneva che sulla stessa linea del mirino si devono trovare la testa, l’occhio e il cuore, è come un alter ego letterario della poetessa. Essere i personaggi fotografati e restare al di fuori (ma nell’originale polacco della poesia Il tale con la Leica leggiamo “być obok”, che è più ambiguo, si poteva anche tradurre: essere accanto a quei personaggi, empaticamente).
Si aprono così quei molteplici punti di vista che inizialmente quasi causa imbarazzo alla poetessa, come nella poesia che apre programmaticamente la seconda raccolta: “Guardo ora nei tuoi occhi, ora con gli occhi tuoi […] Così tanti punti di vista, ma io resto a un punto morto”). Ma nella raccolta successiva la molteplicità dello sguardo è diventata motivo di virtuosismo. Questa volta la poesia che apre la raccolta, intitolata La rossa e la grigia, ci presenta due personaggi che osservano due uccelli, i quali osservano a loro volta la coppia, mettendo in discussione, nel finale, i confini fra veglia e sonno, giorno e notte, camminare e volare. Ma non c’è metafisica in tutto ciò, l’evento quotidiano non è l’ispirazione per una meditazione sui misteri della vita. Dąbrowska, in questa poesia, prima di tutto ha “cercato a lungo con lo sguardo”, e poi ha invitato il suo compagno, e con lui il lettore, a guardare, e ancora a spostarsi per guardare meglio. E in una delle ultime poesie di Tempo e diaframma, Nella metropolitana, la poetessa getta un ponte fra la visione e la scrittura, una calligrafia che la velocità rende sempre più illeggibile.
“Un modo di guardare di tipo palinsestico”, lo ha definito Eliza Kącka, per analogia con i manoscritti antichi dove i vari strati di (ri)scrittura si sovrapponevano. O potremmo parlare di variazioni sul tema dello sguardo, di uno sguardo declinato in tanti modi diversi. Come fosse una macchina da presa, la scrittura di Krystyna Dąbrowska evoca movimenti: segue i voli d’uccello, il vortice “intorno alle assi” di due occhi assenti, il moto subacqueo di un fotografo fra la folla, fa panoramiche, si muove ora lenta, ora veloce, crea effetti di campo-controcampo. Lo sguardo è spesso doppio, come nella Signora F., o nella poesia Ad un incrocio, dove dall’intersecarsi di due sguardi scaturisce una riflessione sulla vita di coppia, sull’individualità che può diventare valore aggiunto (per poter dire “noi” gli amanti devono sapere guardare con quattro occhi e non con due, si dice in un’altra bella poesia d’amore della Dąbrowska). Sempre che non si fermi al livello dell’incomunicabilità, come in Palloni sull’acqua.
Forse per evitare che il virtuosismo visivo diventasse maniera, le poesie più recenti, quelle della quarta raccolta ancora inedita in Polonia, esplorano in maniera molto originale la sfera uditiva e quella tattile. Ora la poetessa si mette le cuffie e ascolta “ciò che non si può ascoltare”. Nella densa calura dipinge con i suoni: il chiocciare, l’abbaiare, la voce nelle cuffie, i rumori da dietro la parete, la musica sguaiata; nella seconda parte di Colonne sonore ricorre inaspettatamente a delle onomatopee. Senza parlare delle aperture “cosmiche” che chiudono la terza parte del trittico appena menzionato, si veda l’ultima poesia di questa raccolta, Statue per ciechi: più che una negazione del visuale è uno sviluppo, un ampliamento in senso tridimensionale delle immagini delle poesie precedenti, con quella lineetta che lascia il testo aperto verso…
[Immagine: Foto di Harry Gruyaert]