di Hippolyte Taine, traduzione di Laura Tortonese
[Hippolyte Taine è stato uno dei più importanti e influenti intellettuali francesi del secondo Ottocento. In Italia non è ancora conosciuto come meriterebbe. Da poco è uscito, nella collana dell’Associazione Sigismondo Malatesta, il saggio La storia, il suo presente, il suo futuro (Pacini 2017), a cura di Paolo Tortonese, che ha scritto anche l’introduzione. Ne presentiamo un brano].
La storia si è trasformata da cento anni in Germania, da sessant’anni in Francia, e tutto ciò attraverso lo studio delle letterature.
Si è scoperto che un’opera letteraria non è un semplice gioco di immaginazione, il capriccio isolato di una testa calda, ma una copia dei costumi circostanti e il segno di uno stato d’animo. Si è concluso che si poteva, a partire dalle opere letterarie, ritrovare il modo in cui gli uomini avevano sentito e pensato parecchi secoli fa. Si è provato e ci si è riusciti.
Si è riflettuto su questi modi di sentire e pensare e si è capito che si trattava di fatti di prim’ordine. Si è capito che essi erano collegati agli avvenimenti più importanti; che li spiegavano, che ne erano spiegati, che ormai bisognava dar loro un posto, e uno dei posti più importanti nella storia. Glielo si è dato e da allora tutto è cambiato nella storia: l’oggetto, il metodo, gli strumenti, la concezione delle leggi e delle cause. Ed è questo cambiamento, nel modo in cui avviene e deve avvenire, che si tenterà di esporre in queste pagine.
I
Quando voltate le pagine grandi e rigide di un in-folio, i fogli ingialliti di un manoscritto, un poema, un codice, un simbolo di fede, qual è la vostra prima osservazione? È che non si sono fatti da soli. Non sono altro che uno stampo, simile a una conchiglia fossile, un’impronta, simile a una di quelle forme lasciate nella pietra da un animale che è vissuto e che è morto. Sotto la conchiglia, c’era l’animale, e sotto il documento, c’era l’uomo. Perché studiare la conchiglia, se non per immaginare l’animale? Allo stesso modo, si studia il documento con l’unico fine di conoscere l’uomo. La conchiglia e il documento sono detriti morti, e valgono solo come indizi dell’essere intero e vivo. È fino a quell’essere che bisogna arrivare; bisogna cercare di ricostruirlo. È sbagliato studiare il documento come se fosse solo. Significa trattare le cose da semplice erudito, e cadere in un’illusione da biblioteca. In fondo non ci sono né mitologie, né lingue, ma soltanto uomini che sistemano parole e immagini secondo i bisogni dei loro organi e la forma originale del loro spirito. Un dogma non è nulla in se stesso; osservate le persone che l’hanno fatto, un certo ritratto del Cinquecento, la figura rigida ed energica di un arcivescovo o di un martire inglese. Nulla esiste se non tramite l’individuo; è l’individuo stesso che bisogna conoscere. Una volta stabilita la filiazione dei dogmi, o la classificazione dei poemi, o il progresso delle costituzioni, o la trasformazione delle lingue, si è soltanto sgomberato il terreno; la vera storia sorge solo quando lo storico comincia a distinguere attraverso la distanza del tempo l’uomo vivo, attivo, dotato di passioni, ricco d’abitudini, con la sua voce e la sua fisionomia, con i suoi gesti e i suoi vestiti, distinto e completo come quello che abbiamo appena lasciato nella via. Cerchiamo quindi di sopprimere, nei limiti del possibile, quel grande intervallo di tempo che ci impedisce di osservare l’uomo con i nostri occhi, con gli occhi della nostra mente. Cosa si nasconde sotto le graziose pagine satinate di una poesia moderna? Un poeta moderno, vale a dire un uomo come Alfred de Musset, Hugo, Lamartine o Heine, che ha acquisito esperienza e ha viaggiato, che indossa un abito nero e dei guanti, ben visto dalle signore e che ogni sera fa cinquanta saluti e una ventina di battute di spirito in società, che legge i giornali la mattina, che abita solitamente a un secondo piano, non troppo allegro perché ha i nervi a fior di pelle, soprattutto perché, in questa spessa democrazia che ci soffoca, il discredito dei titoli ufficiali ha aumentato le sue pretese accrescendo la sua importanza, e perché la raffinatezza delle sue normali sensazioni gli dà una certa voglia di credersi Dio. Ecco ciò che scorgiamo dietro a meditazioni o sonetti moderni. Allo stesso modo, dietro a una tragedia del Seicento, c’è un poeta, un poeta come Racine ad esempio, elegante, misurato, cortigiano, fine dicitore, che porta una parrucca maestosa e calzature con nastrini, monarchico e sinceramente cristiano, «che ha ricevuto da Dio la grazia di non arrossire in nessuna compagnia, né del re, né del Vangelo»; capace di divertire il principe, di tradurgli in un bel francese il «gaulois d’Amyot», molto rispettoso dei potenti e sempre capace, accanto a loro, di «stare al suo posto»; zelante e riservato a Marly come a Versailles, tra le bellezze simmetriche di una natura levigata e decorativa, tra le riverenze, le grazie, gli intrighi e gli artifici dei signori adorni di ricami che si sono alzati la mattina per meritare una survivance, e affascinanti signore che contano sulle dita le genealogie per ottenere un tabouret. Al riguardo, potete consultare Saint-Simon e le stampe di Pérelle, come prima avete consultato Balzac e gli acquerelli di Eugène Lami. Allo stesso modo, quando leggiamo una tragedia greca, la nostra prima cura deve essere quella di immaginare dei Greci, vale a dire uomini che vivono seminudi, in palestre o piazze pubbliche, sotto un cielo radioso, di fronte ai più remoti e nobili paesaggi, occupati a rendere il loro corpo agile e forte, a conversare, a discutere, a votare, a effettuare scorrerie patriottiche, per il resto oziosi e sobri, che hanno per mobilio tre brocche nella loro casa, e per provviste due acciughe in una giara d’olio, serviti da schiavi che lasciano loro il tempo di coltivare lo spirito e esercitare le membra, senza altro pensiero se non il desiderio di avere la più bella vita, le più belle processioni, le più belle idee e gli uomini più belli. A questo riguardo una statua come il Meleagro o il Teseo del Partenone, oppure la vista di quel Mediterraneo brillante e azzurro come una tunica di seta e dal quale spuntano le isole come corpi di marmo, insieme a venti frasi scelte di Platone e Aristofane vi istruiranno molto di più di tante dissertazioni e commenti. E allo stesso modo, per capire un Purana indiano, cominciate con l’immaginare il padre di famiglia che, «avendo visto un figlio sulle ginocchia di suo figlio», si ritira, secondo la legge, nella solitudine, con un’ascia e un vaso, sotto un banano in riva a un ruscello, smette di parlare, moltiplica i digiuni, sta nudo tra quattro fuochi e sotto il quinto fuoco, intendo il terribile sole divoratore e rinnovatore continuo di tutte le cose viventi; che, di volta in volta, e per intere settimane, mantiene l’immaginazione fissa sul piede del Brahma, poi sul ginocchio, poi sulla coscia, poi sull’ombelico, e così via fino a quando, sotto lo sforzo di questa intensa meditazione, compaiono le allucinazioni, fino a quando tutte le forme dell’essere, confuse e trasformate l’una nell’altra, oscillano in quella testa trascinata dalla vertigine, fino a che l’uomo immobile, trattenendo il respiro, con gli occhi fissi, veda l’universo svanire come un fumo al di sopra dell’Essere universale e vuoto, in cui aspira a inabissarsi. A questo riguardo, un viaggio in India sarebbe il miglior insegnamento; in mancanza d’altro, i racconti dei viaggiatori, i libri di geografia, di botanica e di etnologia, ne faranno le veci. In ogni caso, la ricerca deve essere la stessa. Una lingua, una legislazione, un catechismo non sono mai soltanto una cosa astratta; la cosa completa, è l’uomo che agisce, l’uomo che ha un corpo visibile, che mangia, che cammina, che combatte, che lavora; lasciate perdere la teoria delle costituzioni e del loro meccanismo, delle religioni e del loro sistema, e cercate di vedere gli uomini nella loro bottega, nei loro uffici, nei loro campi, con il loro cielo, la loro terra, le loro case, i loro abiti, le loro culture, i loro pasti, come fate quando, sbarcando in Inghilterra o in Italia, guardate i volti e i gesti, i marciapiedi e le taverne, il cittadino che passeggia e l’operaio che beve. La nostra grande preoccupazione deve essere quella di supplire, per quanto possibile, all’osservazione presente, personale, diretta e sensibile, che non possiamo più praticare: perché è la sola via che ci faccia conoscere l’uomo; rendiamoci presente il passato; per giudicare una cosa, è necessario che sia presente; non esiste esperienza degli oggetti assenti. Probabilmente, questa ricostruzione è sempre incompleta; può soltanto dar luogo a giudizi incompleti; ma bisogna rassegnarvisi; una conoscenza parziale è meglio di una conoscenza inesistente o sbagliata, e non c’è altro modo di avvicinarsi alla conoscenza delle azioni del passato, se non quello di vedere o quasi gli uomini del passato.
È questo il primo passo fatto nello studio della storia; è stato fatto in Europa con la rinascita dell’immaginazione, alla fine del secolo scorso, con Lessing, Walter Scott; un po’ più tardi in Francia con Chateaubriand, Augustin Thierry, Michelet e tanti altri. Ecco ora il secondo passo.
II
Quando osservate con i vostri occhi l’uomo visibile, che cosa cercate? L’uomo invisibile. Quelle parole che arrivano al vostro orecchio, quei gesti, quegli atteggiamenti del viso, quei vestiti, quelle azioni e quei comportamenti sensibili di ogni genere, sono per voi solo delle espressioni; qualcosa vi si esprime, un’anima. C’è un uomo interiore nascosto sotto l’uomo esteriore, e il secondo non fa altro che rendere manifesto il primo. Guardate la sua casa, i suoi mobili e il suo abito; lo fate per cercarvi le tracce delle sue abitudini e dei suoi gusti, il livello della sua eleganza o della sua rustichezza, della sua prodigalità o della sua parsimonia, della sua stoltezza o della sua intelligenza. Ascoltate la sua conversazione, notate le inflessioni della sua voce, i cambiamenti del suo atteggiamento; lo fate per farvi un’idea del suo brio, della sua rilassatezza e della sua allegria, oppure della sua energia e della sua rigidità. Considerate i suoi scritti, le sue opere d’arte, le sue imprese economiche o politiche; lo fate per misurare la portata e i limiti della sua intelligenza, della sua inventiva e del suo sangue freddo, per scoprire qual è l’ordine, quali sono il genere e la forza abituale delle sue idee, in che modo pensa e decide. Tutte queste apparenze non sono altro che grandi arterie che si riuniscono in un centro, e voi vi ci inoltrate soltanto per giungere a quel centro; dove c’è l’uomo vero, intendo dire l’insieme delle facoltà e dei sentimenti che producono il resto. Ed ecco un mondo nuovo, un mondo infinito, perché ogni azione visibile porta con sé un susseguirsi infinito di ragionamenti, di emozioni, di sensazioni antiche o recenti, che hanno contribuito a portarla alla luce, e che, simili a quelle lunghe rocce conficcate in profondità nel suolo, raggiungono in essa il loro compimento e affiorano. Quel mondo sotterraneo è il secondo oggetto di studio, l’oggetto proprio dello storico. Quando la sua educazione critica è sufficiente, diventa capace di identificare sotto qualsiasi ornamento di un’architettura, sotto qualsiasi tratto di un quadro, sotto qualsiasi frase di uno scritto, il particolare sentimento da cui l’ornamento, il tratto, la frase sono scaturiti; assiste al dramma interiore vissuto dall’artista o dallo scrittore; la scelta delle parole, la brevità o la lunghezza dei periodi, il genere delle metafore, l’accento metrico del verso, l’ordine del ragionamento, tutto è per lui un indizio; mentre i suoi occhi leggono un testo, il suo animo e la sua mente seguono il continuo svolgimento e la mutevole serie delle emozioni e dei concetti da cui è nato quel testo; ne fa la psicologia. Se volete osservare questa operazione, guardate al promotore e modello di tutta la grande cultura contemporanea. Goethe, che, prima di scrivere l’Ifigenia, passa giornate a disegnare le statue più perfette e che, alla fine, con gli occhi gonfi di nobili forme del paesaggio antico e la mente imbevuta di bellezze armoniose della vita antica, giunge a riprodurre così esattamente in se stesso le abitudini e le inclinazioni dell’immaginazione greca da offrire una sorella quasi gemella all’Antigone di Sofocle e alle dee di Fidia. Questa intuizione precisa e provata di sentimenti scomparsi ha, al giorno d’oggi, rinnovato la storia; la si ignorava quasi del tutto nel secolo scorso; si immaginavano gli uomini di ogni razza e di ogni secolo come più o meno simili, il Greco, il barbaro, l’Indù, l’uomo del Rinascimento e l’uomo del Settecento come fusi nello stesso stampo, e questo secondo una concezione astratta, che serviva per tutto il genere umano. Si conosceva l’uomo, non si conoscevano gli uomini, non ci si era addentrati nell’animo; non ci si era accorti dell’infinita diversità né della meravigliosa complessità degli animi; non si sapeva che la struttura morale di un popolo e di un’epoca è particolare e distinta come la struttura fisica di una famiglia di piante o di un ordine di animali. Oggi, la storia come la zoologia ha trovato la propria anatomia, e qualunque sia la branca storica cui ci si applichi, filologia, linguistica o mitologia, è attraverso questa via che ci si sforza di farle produrre nuovi frutti.
[Immagine: Jean Bèraud, Hippolyte Taine]
“ Giovedì 24 marzo 2011 – « Arras, septembre 1792 – Ce n’est pas la mode à present de fréquenter aucun lieu public; mais, comme nous sommes des étrangers et que nous n’appartenons à aucun parti, nous passons sou-vent nos soirées au théâtre. Je l’aime beaucoup, non pas tant à cause de la répresentation, que parce que cela me fournit une occasion d’observer les dispositions du peuple et la direction qu’on veut lui imprimer. La scène è devenue une sorte d’école politique où l’on enseigne au pu-blic la haine des rois, de la noblesse ou du clergé, selon la persécution du moment; et je crois qu’on peut juger souvent par les pièces nouvelles quels sacrifices on prépare. » (Un séjour en France de 1792 a 1795 / Lettres d’un témoin de la revolution française, traduit par Hyppolite Taine, 1883)
“ Mercoledi 26 giugno 2003 – « Sienne, 8 avril 1864 – De Chiusi à Sienne, le pays s’aplatit; on est entré dans la Toscane: des marécages étendent dans le lointain leur verdure sale et malade. Un peu plus loin sont des collines basses, puis des coteaux grisâtres, où la vigne tord ses sarments noirs: c’est un maigre et plat paysage de France. Une vieille cité, entourée de murailles rousses, apparaît à gauche sur une colline, et l’on entre à Sienne. C’est une ancienne république du moyen âge, et bien souvent, dans les cartes du seizième siècle, j’avais contemplé sa silhouette abrupte, hérissée de bastions, peuplée de forteresses, toute remplie des témoignages des guerres publiques et des guerres privées. Guerres publiques contre Pise, Florence et Pérouse, guerres privées entre les bourgeois, les nobles et le peuple, combats des rues, massacres d’hôtel de ville, bouleversement de la constitution, exil de tous les nobles en état de porter les armes, exil de quatre mille artisans, proscriptions, confiscations, pendaisons en masse, ligue des exilés contre la ville, coup de main populaires, désespoir porté jusqu’à l’abdication de la liberté et à la soumission aux mains d’un étranger, révoltes soudaines et furieuses, clubs semblables à ceux des jacobins, associations pareilles à celles des carbonari, siège désesperé, semblable à celui de Varsovie, dépopulation systématique pareille à celle de la Pologne – nulle part la vie n’à été si tragique. » (Hyppolite Taine, Voyage en Italie) “.