di Francesco Rocchi

La questione del ruolo della cultura classica nell’istruzione contemporanea è ricorrente nel dibattito pedagogico italiano. Anche la Normale di Pisa, qualche tempo fa, ha affrontato il tema con un incontro molto interessante ed equilibrato, in cui a discutere c’erano sia professori di liceo, sia dell’università, nonché studenti e dottorandi di filologia classica. In questo articolo vorrei provare ad affrontare la questione della sopravvivenza della cultura classica slegandola da quella del liceo classico, al fine di ampliare la prospettiva all’insieme della scuola superiore non liceale. Il tema è tanto più attuale ora che i rapporti di Scuola in Chiaro hanno mostrato come alcuni licei classici ancora accarezzino l’idea di una separatezza dal resto dell’istruzione superiore che invece ormai è chiaramente astorica.

Il limite del dibattito attuale è proprio che si dà tacitamente per inteso che cultura classica ed istruzione liceale siano una cosa sola. Ciò che della prima si ritiene valido viene considerato automaticamente un atout della seconda, mentre i risultati positivi del liceo (quando ci sono) vengono attribuiti alle virtù della classicità. Una convinta e totale sovrapposizione, insomma. Ma davvero la classicità deve avere un rapporto così esclusivo col liceo (in particolare classico)? Se crediamo davvero nell’importanza della classicità, pare poi strano che la si voglia destinare soltanto al 7% (circa) della popolazione studentesca italiana. Se Roma e la Grecia antiche sono un nutrimento tanto salutare per l’anima, perché non distribuirne ovunque con larga mano?

La risposta più immediata è anche la più banale: non è che possiamo insegnare il latino e il greco a tutti quanti. Quando parliamo di cultura classica però non parliamo soltanto di lingua, anche perché ormai sappiamo tutti che non esistono lingue più virtuose di altre, checché ne dicano alcune pubblicazioni celebrative, anche recenti. Parliamo piuttosto di storia, di arte, di filosofia e di tanti altri campi del sapere cui la classicità ha contribuito e cui possiamo accedere anche in italiano, come alla fine si fa anche nello stesso liceo classico. È pur giusto così: se il classico serve a produrre eccellenti traduttori dal latino e dal greco, sarà anche il caso che qualcuno le loro traduzioni le legga e le usi.

Quale approccio dunque dobbiamo adottare per far diventare la cultura classica un patrimonio universale della scuola italiana? E a quale definizione di “classicità” vogliamo fare riferimento? Le due domande sono legate da un vincolo assai concreto: non possiamo espandere all’infinito il monte-ore delle scuole non liceali (i cui insegnamenti caratterizzanti non devono essere intaccati), ma è anche essenziale che gli studenti tecnico-professionali ricevano un’educazione civile, storica e umanistica di assoluta eccellenza. Nonostante il focus “lavorativo”, infatti, non dobbiamo mai dimenticare che gli istituti tecnici e professionali costituiscono il punto di arrivo finale dell’istruzione di una parte ancora ampia della popolazione italiana: dopo non ci sono altre occasioni per fornire a un cittadino quella base di cultura umanistica necessaria, insieme con quella tecnico-scientifica, per prendere attivamente parte alla vita sociale e civile. Tutto si gioca in quei cinque anni di superiori.

Ecco dunque che dobbiamo definire esattamente cosa sia quella classicità che vogliamo fare arrivare a tutti. Abbiamo a disposizione due diverse possibilità: guardare alla classicità come ad un oggetto (un blocco organico di conoscenze), oppure riconoscere nelle discipline che la studiano un metodo di studio degno di essere posseduto. Ci interessano entrambi gli approcci: il metodo di studio è quello filologico, riassumibile nell’acribia dell’analisi storica, letteraria e documentale, che però rimane vago e banale senza un adeguato retroterra di conoscenze.

Nelle scuole tecnico-professionali si fanno quattro ore di italiano e due di storia. È grosso modo quanto si fa anche nei licei, i quali però hanno anche molte altre materie umanistiche nel proprio portfolio: lingue classiche, storia dell’arte, filosofia, la letteratura delle lingue straniere moderne. È evidente dunque che se vogliamo far entrare la cultura classica in tutte le scuole superiori, dobbiamo trovare una strada ad hoc. Oggi l’insegnamento dell’italiano e della storia nelle scuole tecnico-professionali riposa sull’idea che gli studenti non siano in grado di studiare queste materie bene come i loro omologhi liceali, ragion per cui è necessario procedere ad una semplificazione, che in realtà altro non è che un appiattimento e una banalizzazione. In questo senso la cultura classica già oggi entra nelle scuole tecniche, ma nella forma, dunque, di “riassunto”. I manuali non fanno altro che riproporre quanto si fa al liceo in formato più o meno ridotto, e a volte si hanno due diverse versioni di uno stesso libro di testo, una per i licei e una per tecnici e professionali. L’esito più buffo di questo stato di cose è lo spazio spropositato dato alla storia classica nel biennio di scuole dove poi non si vede nemmeno più l’ombra delle civiltà greca e latina. È solo che si tratta degli stessi libri!

Anche le aspettative dei docenti sono minori, e i risultati conseguenti. Non è falso che la popolazione studentesca dei tecnici e professionali sia, purtroppo, mediamente meno preparata (il dato è confermato dalle rilevazioni INVALSI), ma questa è una tendenza da contrastare alzando i livelli di istruzione, non abbassando la didattica. Lo studio della classicità in chiave filologica può intervenire con efficacia a mutare questo deplorevole stato di cose: il mondo classico, il canone medievale e moderno e anche le classicità non europee possono e devono diventare patrimonio comune di tutta la scuola superiore italiana: in senso letterario, artistico e soprattutto storico. Fallire in questo implica che le scuole non liceali saranno sempre viste come una scelta di serie B, perché quella gracile didattica per studenti rassegnati ne rimarrà il marchio distintivo.

Ci dobbiamo perciò liberare del classicismo burocratizzato del bignami e assumere uno sguardo più ampio. Deve saltare il tradizionale enciclopedismo di impianto idealistico, quell’approccio ingenuo che fa sì che il ‘900 non possa essere studiato senza conoscere l’800, quest’ultimo senza conoscere il ‘700 e così via. Lo si dovrebbe gettar via anche al liceo, ma ancora di più nelle scuole tecnico-professionali, come peraltro le Linee Guida già suggeriscono, generalmente inascoltate. Questo approccio ha infatti due difetti esiziali: è incomprimibile (nessun anello della catena può essere saltato) ed è concettualmente sbagliato.

È bene sottolineare a questo punto che lo storicismo idealistico di marca ministeriale è ben diverso da quello filologico. La filologia ha la sana abitudine di collocare un documento (di qualsiasi tipo) nel suo giusto contesto storico, in modo che se ne possa correttamente apprezzare il significato. Conoscere lo sfondo sul quale si staglia il documento che abbiamo di fronte significa capirlo meglio, detto in soldoni. È un’impresa spesso non facile, nella quale si procede con la sobrietà e l’umiltà di chi conosce la difficoltà (ma anche la meraviglia) di dialogare con luoghi e tempi talora lontanissimi. Si è dunque prudenti, guardinghi, e si cerca di evitare il semplicismo delle spiegazioni facili, delle concatenazioni meccaniche o di un determinismo spicciolo.

Lo storicismo idealista, soprattutto nella banalizzazione scolastica, ha invece la pretesa di spiegare nientepopodimeno che gli intimi processi causali della storia (culturale, letteraria e anche politica) facendo diventare una necessità quasi matematica il passaggio, ad es., da Dante a Petrarca, da Petrarca all’Umanesimo, dall’Umanesimo al Rinascimento, e così via. A rigor di logica, il nostro vecchio idealismo, a prenderlo sul serio, dovrebbe avere addirittura capacità predittive. È un peccato che sia questo approccio a governare la scuola italiana, e non uno davvero filologico. Finché saremo legati a questo esausto idealismo, allargare lo sguardo alla classicità rimarrà impossibile. Come dicevo sopra, oltre a quello greco-romano c’è un classico medievale e moderno, e ci sono classici non europei. Dovessimo avvicinarli con l’approccio ministeriale, ci troveremmo di fronte ad una mole di lavoro per la quale non basterebbe una vita intera.

Come si fa, allora? L’approccio filologico ci dà la risposta. Lo studio delle classicità non deve essere un meccanico ingranaggio cronologico. La filologia è molto più ampia, feconda ed interessante di così. Senza avere la pretesa di studiare tutto, ci si può aprire allo studio di ampi e approfonditi quadri storici selezionati dalla sensibilità del docente, che sceglierà quel che gli sembra più utile ed importante, ma senza pretese enciclopediche. In un approccio del genere i confini tra italiano e storia svaniscono naturalmente e in maniera indolore. Scelto un periodo storico di riferimento, lo si studierà in chiave politica, culturale o più ampiamente antropologica, con le opere letterarie che saranno contemporaneamente oggetto di studio letterario e materiale documentario. Tanto meglio se ciò si potrà fare in chiave comparativa, cosa che nella scuola italiana si fa poco ed è invece assai utile e feconda.

Giusto per fare un esempio, si potrà studiare l’epica greca insieme con quella indiana, dandosi l’agio e lo spazio necessari per scoprire contestualmente come vivevano sia gli antichi greci che gli antichi indiani. Non importa che questo porti via tempo, tanto non si deve “fare tutto”, bensì soltanto un numero ragionevole di argomenti che facciano da base per una crescita culturale autonoma. In cinque anni, senza l’artata divisione tra biennio e triennio, la somma degli argomenti affrontati sarebbe notevole, ma si avrebbe maggiori coerenza e organicità nell’apprendimento.

Il risultato deve essere la creazione negli studenti di un’attitudine di fondo (o forma mentis, se l’espressione non sembra troppo retorica) la cui base sia la capacità di concettualizzare e categorizzare, notando analogie, differenze, contraddizioni, parentele e influenze, e imparando a capire cosa è essenziale e cosa accessorio. Glielo dobbiamo, ai nostri studenti. Per farlo non è esatto dire che abbiamo a disposizione quattro ore di italiano e due di storia. Piuttosto, ne abbiamo sei di materie umanistiche. Sarebbe bello se l’ordinamento recepisse una tale impostazione, che richiederebbe in concreto dei cambiamenti minimi o nulli, visto che nei tecnici i docenti di italiano insegnano già oggi entrambe le materie.

A quel punto il liceo classico perderebbe forse il suo senso di alterità, ma solo perché le altre scuole gli si sarebbero avvicinate – a esso o a quel che più possiede di vitale, almeno. Anzi, si troverebbe in condizione di uscire di slancio fuori da quella che Federico Maviglia, uno degli studenti intervenuti nell’incontro presso la Normale, ha correttamente definito come “la crisi di una pretesa”. Sarebbe una bella giornata.

 

[Immagine: Olivo Barbieri, Roma].

3 thoughts on “Cultura classica e istruzione tecnico-professionale

  1. D’accordo su tutto. Occorre però aggiungere un punto importantissimo: il problema fondamentale degli istituti professionali, ancora più delle materie e di come esse vengono insegnate, è il fatto che gli istituti professionali sono di fatto considerati dalla cultura tradizionale italiana delle scuole “di serie C”, a differenza delle altre scuole, in base al noto criterio di ascendenza gentiliana “letteratura arte e filosofia (intese non però come pratica reale di esse ma come memorizzazione della loro storia) = cultura buona che forma l’uomo” (dunque alla cima della piramide sta il liceo classi), poi “scienze = sapere meno buono, che ha valore solo se legato a letteratura e filosofia se no sono solo “ricette di cucina” per finalità pratiche” (da qui il gran numero di ore di latino e filosofia al liceo scientifico), infine “tecnologia = non-cultura e non-sapere cattivissimo e che riduce l’uomo a merce, e dunque di valore solo per i manovali nei loro faticosi lavori” (da qui i tecnici e professionali senza latino e filosofia).

    In base a questo criterio vengono stabiliti i modi in cui in terza media i docenti indirizzano gli studenti alle superiori e anche dopo. I più bravi in tutto vengono mandati al liceo classico, i i bravi solo in matematica e scienze vengono mandati allo scientifico, gli un po’ meno bravi vengono mandati agli altri licei e i peggiori vengono mandati ai tecnici e ai professionali (questi ultimi sono diventati in gran parte dei bronx per ragazzi più disagiati e dai comportamenti ai limiti della legge, parcheggiati lì per i due anni di obbligo scolastico).

    Occorrerebbe dunque distruggere prima di tutto questi pregiudizi fortemente radicati e fare in modo che i docenti delle medie prima di tutto aiutino molto di più gli studenti più svantaggiati per motivi sociali (perché hanno genitori con molti impegno poco tempo per assistere i figli, pochi libri e stimoli culturali in casa, distanza della scuola da casa, figli di stranieri che sanno pochissimo la lingua e così via) e che questi docenti indirizzassero gli studenti ai tecnici e ai professionali magari per prepararli anche a lauree di ingegneria a cui oggi vanno soprattutto studenti del liceo scientifico, inoltre bisognerebbe valorizzare molto più gli “istituti tecnici superiori” ovvero i corsi post-diploma che formano lavoratori ibridi tra i periti e gli ingegneri. Oramai la robotica e l’automazione fanno sì che saranno che i lavori di tornio, fresa e saldatura saranno sempre meno manuali e sempre più legati a conoscenze intellettuali di tipo informatico e simili, l’idea che ci siano lavori in cui serve meno capacità di ragionare di quella degli asini che tirano i carretti è una visione sempre più morta e sepolta.

    Un’ultima cosa: l’articolo parla di abbandonare l’approccio storicistico in letteratura, immagino sostituito con un approccio a temi come è nel biennio, o magari per generi (sarebbe interessante dividere nel triennio la letteratura nel seguente modo: poesia il terzo anno, teatro il quarto anno, prosa il quinto anno), sarebbe interessante inserire nei tecnici e professionali (e si è tentato di proporlo anche qualche mese fa dal Ministero) alcuni elementi di filosofia per temi, magari anche solo in compresenza in ore di italiano o storia. Io incentrerei la filosofia ai tecnici e ai professionali su due temi: la logica (proposizioni, connettivi, logica dei predicati, argomentazioni e fallacie deduzioni, induzioni, metodo scientifico) e l’etica (rapporti tra bene, felicità e dovere in epoca antica e moderna, rapporto tra individuo e stato, fondamenti dei diritti umani). Come già detto, oramai le divisioni nette tra le varie materie non hanno più senso e l’interdisciplinarità deve essere un fatto sempre più da valorizzare.

  2. Concordo pienamente con le idee espresse da Francesco Rocchi, che non conosco personalmente ma con cui mi sento in sintonia su questa complessa e affascinante tematica. Da molti anni sono personalmente impegnata nella diffusione didattica di tematiche classiche nelle scuole di ogni ordine e grado, soprattutto attraverso la formazione degli insegnanti. Ma si tratta di una strada sempre in salita, perché a livello istituzionale questa idea fa estremamente fatica ad affermarsi. Credo che le motivazioni siano essenzialmente politiche : se si fosse seriamente convinti che la cultura classica ( nei suoi prodotti più vari, anche se non accessibili da tutti in lingua originale ma solo in traduzione ) crea cittadini migliori, forse si costituirebbero delle priorità educative e formative. O forse- e questa è ipotesi più pessimistica ma probabilmente più vicina alla realtà- è proprio perché ci si rende conto che la cultura classica può rendere le persone migliori (nel senso di maggiormente critiche, consapevoli, abituate alla complessità e all’ alterità) che si esita a compiere questo passo, e si preferisce circoscrivere i ” danni” che tale consapevolezza può creare ai sempre più esigui numeri di coloro che il liceo classico possono permettersi di frequentarlo, spesso senza coglierne la potenzialità di apertura e di rottura rispetto ai processi di omologazione e appiattimento che la nostra società ci invita a seguire. Durante le lezioni che tengo all’Università di Siena ( ho scelto consapevolmente di tenere anche – oltre al corso di lingua e letteratura latina – quello di Civiltà classica ) l’ osservazione più frequente che mi fanno i miei studenti, in prevalenza provenienti da scuole diverse dal liceo classico, coincide con una domanda : ” Perché ci hanno defraudato fino a questo momento di contenuti così vitali ?”. Certe prospettive di studio aprono mondi: perché negarne l’ accesso ai cittadini del domani, a coloro che costruiranno il futuro per sé e per i loro figli ? E mi piace ricordare qui una figura illuminata che conobbi ormai molti anni fa nelle stanze del ministero dell’ allora ancora Pubblica Istruzione : il dottor Antonio Augenti, direttore generale dell’ Istruzione Tecnica. Avevamo elaborato insieme un progetto culturale di educazione al mondo classico per gli studenti delle Scuole tecniche che al suo Dipartimento facevano capo. Il progetto stava per diventare operativo, ma cadde il governo, cambiò il Ministro, il Dottor Augenti andò in pensione . Tutto fu bloccato. Percepii già allora il senso di uno spreco a tutti i livelli : di energie, di risorse economiche, di idee. Augenti , che ” classicamente” portava nel suo cognome l’ idea latina dell’ accrescimento, del potenziamento, della promozione , è diventato un bel ricordo, ma una memoria sbiadita. Il suo passaggio di consegne è stato ridotto a poco. Vorrei poter riprendere quella strada, insieme a chi come me crede che questa sia un’ urgenza, non un’ opzione possibile e dilettantesca. E credo di non poter essere tacciata di semplicismo , proprio per il fatto che la mia è stata una formazione rigorosamente classicista ( anche io ho studiato alla Scuola Normale di Pisa e, prima di accedere all’ Università , ho insegnato al Liceo classico): proprio per questo, e non ” nonostante” questo, credo che sia venuto il momento di abbattere e non di innalzare altri muri . Già ne abbiamo abbastanza, intorno a noi.

  3. Caro Francesco,

    sono d’accordo con te. Anche io, nel mio piccolo e in modo “artigianale”, mi sforzo di seguire questa via. Insegno Latino e Greco in un Liceo Classico, per lo più al triennio, ma nella mia scuola ci sono anche altri indirizzi, quello di Scienze Umane tradizionale, con tre ore settimanali di Latino, e quello Economico-sociale, senza nemmeno il Latino. A volte, quindi, la mia cattedra contempla poche ore in uno di questi indirizzi. Ho potuto constatare che anche questi studenti sono curiosi ed interessati al mondo antico, proprio per la sua intrinseca “alterità” (che di per sé reputo sia un valore cui educare i giovani, in un mondo sempre più plurale…).

    Quest’anno ho tre ore di Geostoria in una prima Economico-sociale e ho scelto come filo conduttore del mio programma LA CITTA’. Abbiamo letto il poema sumerico Gilgamesh, poi qualche pagina di Erodoto, e ancora: studiando la guerra del Peloponneso, abbiamo fatto un approfondimento sul colpo di stato oligarchico del 411 a. C. e gli studenti hanno scritto un’intervista impossibile ad Antifonte; abbiamo dedicato alcune lezioni ad approfondire il teatro classico e tra poco leggeremo l’ANTIGONE di Sofocle, riflettendo sul rapporto leggi scritte – leggi non scritte, sull’obiezione di coscienza ecc. Oltretutto nella mia scuola c’è una rassegna internazionale di Teatro Classico e anche i miei studenti assisteranno agli spettacoli. Pertanto alfabetizzarli al teatro significa integrarli meglio nella comunità scolastica; d’altronde al terzo anno andranno in Sicilia per le rappresentazioni di Siracusa dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico e al quinto anno faranno il viaggio di istruzione in Grecia. Anche alcuni progetti di Alternanza Scuola Lavoro di questo indirizzo riguardano i beni culturali materiali ed immateriali, accanto ad altri con attività con una curvatura psico-socio-pedagogica o di altro tipo.

    Per leggere in traduzione qualche classico antico e concedermi questi indugi svolgendo serenamente e compiutamente il programma del primo anno ho fatto qualche sintesi sulla Preistoria, su alcune civiltà preclassiche (cento pagine sugli Egizi mi sembrano davvero troppe!), sugli ultimi focolai bellici successivi alla fine della guerra del Peloponneso, curando invece in modo approfondito l’ascesa della Macedonia e le conquiste di Alessandro Magno. Insomma, i miei studenti di Economico -Sociale non sapranno rispondere bene o non risponderanno affatto a domande sulla guerra di Corinto, sulle battaglie di Conone e sulla pace di Antalcida (ma quali studenti del Classico sanno bene queste cose, a non voler essere ipocriti?).

    Ma, proprio perché spesso (non sempre: anche qui attenti alle semplificazioni che non sono al passo con i tempi nuovi…) sono socialmente o culturalmente più fragili, per me è ancora più importante che abbiano messo a fuoco una qualche questione o almeno una qualche curiosità sull’essere cittadini in modo responsabile e che abbiano qualche consapevolezza della enorme eredità materiale ed immateriale che deriva dal mondo antico alla cosiddetta “cultura occidentale” (categoria a cui per altro non sono particolarmente affezionata)…

    Ai più motivati ho anche fatto leggere qualche romanzo americano o di autori palestinesi o israeliani, anche questi ormai classici.

    Io stessa nel mio liceo classico di vent’anni fa ho studiato la letteratura greca, latina, italiana e un po’ di quella inglese. Se dunque oggi mi cimento nella lettura di autori latinoamericani, ungheresi, cinesi, giapponesi (certo, in traduzione, e senza la frustrazione di non conoscere tutta la storia del pensiero o della letteratura di queste millenarie civiltà) è perché già ai miei tempi ho incontrato insegnanti in grado di superare l’enciclopedismo puro, di fare tagli coraggiosi, di potare rami secchi per guadagnare invece spazi di riflessione libera, di lettura, fucine in cui erano in gioco soprattutto la curiosità e la voglia di aprire nuove finestre sul mondo. Coraggio! Osare si può!

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