a cura di Maria Teresa Carbone

[Secondo rilevazioni già obsolete – settembre 2017 – Instagram avrebbe 800 milioni di utenti nel mondo. Più donne che uomini, più urbani che rurali, più giovani che anziani. Così sta scritto nella voce di Wikipedia dedicata all’applicazione di condivisione delle immagini (questo è Instagram: un’app, non un social), ma i dati sono così vecchi – 2014, quando la popolazione instagrammica era meno della metà di quella attuale – da suonare inconsistenti.
In fondo, degli abitanti di questa entità sovranazionale più popolosa dell’intero continente europeo sappiamo solo che hanno un congegno per fotografare – uno smartphone, per lo più – e che lo usano ogni volta che vedono un oggetto degno di attenzione: se stessi, i loro gatti e i loro cani, la torta di compleanno, il sole al tramonto, la stazione di servizio illuminata di notte, la hall dell’aeroporto in attesa dell’imbarco. E sappiamo che questa massa di immagini (circa cento milioni di foto caricate ogni giorno, pare) non è neutra. Di certo sta cambiando il mondo – le facce, i vestiti, le architetture, gli arredi, oggi sono curati per essere instagrammabili al meglio. Ma forse cambia anche gli occhi degli adepti di questa neofotografia, nella misura in cui lo scatto, prima, e il confronto con gli altri scatti, poi, guidano lo sguardo a una maggiore attenzione. (Non a caso una ricerca britannica del 2017 condotta su 1500 adolescenti ha concluso che Instagram è massimamente ansiogeno).
Nasce da qui l’idea di una piccola indagine condotta presso scrittori, fotografi e cultori a vario titolo della materia. Dopo
Francesco Pecoraro, Emmanuela Carbé, e Sabrina Ragucci, oggi parliamo con Hypermediacy. La sua pagina Instagram è questa].

Come Hypermediacy esisto solo su Instagram, dal primo giorno di novembre del 2017.

Con il mio nome ci sono dal 2012. Sono su Facebook, Linkedin, Tinder, Flickr, Snapchat, Twitter, Soundcloud, Mixcloud, Spotify e prima ancora Netlog e duepuntozero. Faccio calls e scambio messaggi, incontro, lavoro, racconto, cinguetto, ascolto e classifico musica, ho fatto selfie quando ancora non c’era lo smartphone e accedevo a Forumfree quando per farlo mi serviva un cavo di sei metri per collegare il modem nella mia stanza. Da più di 10 anni sono un profilo. Essere, non avere. Nella rete siamo e non possediamo niente. Siamo perché compiamo una scelta, quella di cedere ciò che abbiamo, i nostri dati e i contenuti che produciamo, al sistema di cui decidiamo di fare parte. Questa cessione può essere vista come un patto d’esistenza in una dimensione che ha un proprio censimento finalizzato alla diffusione di messaggi che hanno interesse ad arrivare a me. Ma io come posso possedere la rete? Come fermare un momento… e trasformarlo secondo la mia volontà?

L’idea di Hypermediacy prende forma dalla considerazione che l’esperienza dei media possa essere esperienza del reale. Un reale diversamente fisico ma ugualmente percettibile, interpretabile e spesso problematico da raccontare. Lazlo Moholy Nagy nel 1922 già aveva messo nero su bianco che la tecnologia sarebbe stata la realtà del nostro secolo il cui spirito sarebbe stato determinato dal rapporto di attività o passività utente / macchina (buttando poi lì che le macchine avrebbero rimpiazzato lo spiritualismo trascendentale delle ere passate…ma non trascendiamo). Mi è sembrato che il fotografo del Bauhaus avesse scovato nelle sue fantasie oscure e immaginarie un momento simile all’oggi in cui 4 miliardi di persone sono connesse a Internet e utilizzano dispositivi per connettersi e condividere dati. Abbiamo instaurato un rapporto con la macchina. Instagram conta 800 milioni di iscritti, quindi 1 miliardo e 600 milioni di occhi sul mondo, differenti punti di vista e incalcolabili forme espressive che acquistano, per me, maggiore interesse nel momento in cui vengono disposte dall’interfaccia per essere fruite dagli utenti. Basta aprire la home dell’applicazione e scorrere giù per notare un ordine composto da assonanze tra i post date da forme, colori, soggetti, etc. Una volta che si trova la prima coppia di simili non si guarda più quella sequenza di immagini nella stessa maniera e ne appariranno molte altre. Provare per credere.

Hypermediacy è un esperimento che si svolge all’interno di Instagram che è contemporaneamente oggetto d’indagine ma anche soggetto ripreso.

Oggi l’immaginario comune associa ancora il computer al database, statico, e non alle intelligenze artificiali in grado di evolversi, dinamiche, su cui si basano i sistemi contemporanei con cui interagiamo ogni giorno. I database rappresentavano il mondo come una lista mentre, al contrario, una narrazione si muove creando una traiettoria causa-effetto su oggetti apparentemente non ordinati, quali sono gli eventi. Per questo motivo database e narrazione sono nemici naturali che competono per lo stesso territorio della cultura umana, reclamando il diritto esclusivo di dare senso al mondo.

Instagram però non è pensato per essere un database di immagini, ma un flusso di contenuti visuali che scorre in un tempo che non può accadere e in un luogo senza spazio.

Sono su instagram per registrare un vuoto.

Per farlo ho pensato ad un progetto fotografico e di archivio.

Visivamente Hypermediacy si presenta come una galleria di foto quadrate che a loro volta sono divise orizzontalmente in due rettangoli, uno superiore e uno inferiore, che corrispondono esattamente a quelle compresenze casuali che compaiono della home.

Una raccolta di incidenti felici, di incontri casuali che possono generare nuove storie.

Tra le prime scoperte davvero rivoluzionarie del cinema c’è il montaggio che permette di creare un movimento, un discorso, contrapponendo due punti di vista differenti. Due immagini contrapposte liberano una terza, montare due immagini scollegate tra loro può crearne una nuova. Una danza di frammenti eterogenei.

Durante il giorno apro l’applicazione continuamente per lavorare e per gestire altri profili, riesco a mantenere un certo distacco nei confronti di Instagram o forse semplicemente rivesto diversi ruoli all’interno dello stesso spazio che non mi sembra di subirne le adulazioni. Accedere a Hypermediacy significa cercare materiale, nuovi post, nuovi profili da seguire e quindi nuovi mondi con cui creare a mia volta contenuti. Utilizzando post di altri è necessario farlo presente ai legittimi proprietari con credits e tag. Al momento solo una volta mi è stato chiesto di rimuovere un’immagine perchè l’autore era contrariato nel vedere una sua foto ritagliata. Delete post/Unfollow. Le Stories invece servono a rivelare l’immagine originale, come prova di quello che è successo e per spiegare che quelle della galleria non sono mie invenzioni ma fotografie.

Le fotografie di Hypermediacy sono prodotte con la funzione screenshot dello smartphone. Per fermare il tempo virtuale servono due dita, di norma il pollice destro e l’indice sinistro. Il semplice gesto e il rumore dello scatto assicurano la cattura dell’immagine.

Intendo la fotografia come un “momento” in cui si attua una scelta consapevole, I due frammenti sono come due soggetti qualunque. Catturo un momento in cui due immagini si incontrano e danno vita ad un’immagine che non c’era. La scelta del momento non è data da una disposizione fisica (Einstellung), impossibile, ma psicologicamente intesa come l’atteggiamento con il quale ci “si dispone a qualcosa”, per riprendere un evento/soggetto.

Selezionando i profili da seguire costruisco un set in cui questo incontro può accadere.

Per me la fotografia è l’atto che segue un incontro che dà forma a uno o più sensi di lettura. Su Hypermediacy è riflesso un modo comune di produrre immagini. Ognuno di noi fa screenshot ogni giorno, come prova di realtà o come strumento. Basti pensare a quelle volte in cui uno screenshot è servito per denunciare o diffondere dei contenuti come dimostrazione di un fatto avvenuto e non più reperibile, per esempio.

Nel mondo delle immagini abbiamo imparato a conoscere e quindi a riconoscere i loro significati, i loro generi, un linguaggio non verbale (e di massa) per esprimerci.

Il linguaggio della fotografia è fatto di luci e colori, prospettiva e inquadratura, calore e saturazione ma Instagram ha fornito (e deciso) gli strumenti attraverso cui i suoi utenti potevano codificare i propri messaggi. La “fotografia” è diventata semplice nel momento in cui la post produzione è diventata un gioco sociale e un’occasione per diffondere il proprio lavoro, le proprie idee creative ma anche selfie e foodporn, ovviamente. Instagram ha preso gli elementi che costituiscono il linguaggio della fotografia e ha creato un ‘interfaccia che ne facilita l’uso e quindi la comprensione e permette l’espressione attraverso le immagini che sono usate come una nuova lingua. Gli utenti sono più dei comunicatori che dei fotografi.

Ogni galleria che visito è diversa dalla mia, anche se alcune hanno analogie tra loro, dal momento che cerco sempre di seguire produttori di immagini valide per “costruire” i miei set. Mi piacciono i profili di creativi indipendenti, che magari hanno ancora poco seguito e nei quali riconosco una qualche vena sperimentale, sentimentale o particolarmente caustica. E comunque non penso che Instagram sia un portale d’espressione del proprio narcisismo più degli altri social network, selfie più selfie meno.

Instagram non può essere considerato un fenomeno sociale ma una realtà virtuale in cui interagiscono profili di utenti che si riconoscono in un mezzo comunicativo reputato efficace, la condizione base che ci porta poi a produrre contenuti. Questo significa esprimersi con un linguaggio comune declinato a sua volta in generi e sottogeneri nei quali però permane un comportamento dell’utente che è codificato (quindi influenzato) dalle funzioni fornite dal sistema stesso (hashtag,geolocalizzazione, tag, filtri, video, stories, dirette etc). Se l’utente si trova ad agire all’interno di una struttura che fornisce strumenti e istruzioni allora posso pensare che un’estetica comune esista ma intesa come un modo di percepire e interpretare la realtà. L’estetica appartiene però all’Arte che su Instagram non è un obiettivo ma un topic con un manipolo di fan. Alla fine nessuno ha mai preteso di affermare che Instagram sia il mondo delle immagini ma è solo il fenomeno di massa più pervasivo di questi anni legato questo discorso.

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“La cultura contemporanea vuole allo stesso tempo moltiplicare i propri media ed eliminare ogni traccia di mediazione: idealmente vorrebbe cancellare i propri media nel momento stesso in cui li moltiplica” (J.D. Bolter, R.Grusin)

Bolter e Grusin definiscono doppia logica della rimediazione: la nostra cultura è caratterizzata dal bisogno sia di immediatezza sia di ipermediazione.

Il desiderio di immediatezza si manifesta attraverso il tentativo di offrire al pubblico “esperienze reali e trasparenti” nei quali il mezzo di comunicazione scompare e l’utente è lasciato solo con l’oggetto rappresentato: il tipo di coinvolgimento delle dirette tv, delle stories e delle fotografie perfettamente costruite con la prospettiva lineare (griglia).

La logica dell’immediatezza prende forma, in questo caso, nell’interfaccia grafica con l’obiettivo di mettere l’utente nella condizione di abbandonare la consapevolezza di confrontarsi con un medium in favore di una relazione immediata con i contenuti di quel medium. L’immediatezza dipende convinzione che esista un punto di contatto tra il medium e ciò che viene rappresentato.

La logica dell’ ipermediazione privilegia la frammentazione, l’indeterminatezza e l’eterogeneità. E’ il processo (o la performance) ad essere enfatizzato e non l’oggetto della rappresentazione. Sperimentiamo quotidianamente pratiche come quelle di aprire simultaneamente più finestre, più applicazioni, a loro volta riempite di contenuti multimediali (testo, grafica, video) mentre icone, menu e barre contribusicono ad aggiungere ulteriori livelli di significato (verbale e visuale). Inoltre l’interfaccia non cancella se stessa, l’utente è infatti sempre riportato in contatto con essa. L’ipermediazione ci rende consapevoli dell’esistenza dei media e facendo ciò ci ricorda il nostro desiderio di immediatezza. Desideriamo l’inganno a tutti i costi.

[Immagine: Foto elaborata da Hypermediacy].

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