di Maria Antonietta Grignani
[Esce in questi giorni, pubblicato da Mimesis, Il custode della soglia. Il sacro e le forme nell’opera di Carlo Levi, di Riccardo Gasperina Geroni. Pubblichiamo la prefazione al libro, scritta da Maria Antonietta Grignani, che ringraziamo insieme all’autore e all’editore (gs)]
La monografia di Riccardo Gasperina Geroni ripercorre la storia, il contesto culturale, le motivazioni specifiche e le caratteristiche di alcuni dei libri più importanti di Carlo Levi: Paura della libertà, Cristo si è fermato a Eboli, L’Orologio e Quaderno a cancelli, escludendo i vari reportages di viaggio, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla ex-URSS, dall’India e dalla Cina; opere che pure, a rileggerle, restano documenti essenziali di un osservatorio sempre vigile, puntuale e fuori dagli schemi allora – e forse anche ora – consueti.
(…) Per il primo capitolo su Paura della libertà, steso in pochi mesi del terribile anno 1939 all’inizio della seconda guerra mondiale a La Baule sulla costa atlantica francese, dove Levi si era rifugiato, vengono ricordate e comprovate le suggestioni leviane ricavate da Vico, da Jung, dalla Bibbia e naturalmente dalla lezione di Piero Gobetti, che il giovane concittadino torinese Carlo aveva conosciuto e seguito nei pochi anni della «Rivoluzione Liberale» (1922-1925), in parte sulla scorta delle idee dello zio Claudio Treves, parlamentare turatiano. Come altri illustri intellettuali Carlo sviluppò le tesi di Gobetti, partecipando poi al movimento di “Giustizia e libertà”. Le due Italie, quella dei fascisti e quella degli oppositori, più o meno impegnati in prima persona, vengono messe a fronte contro l’idea crociana del fascismo quale pura fase di passaggio, eccezionale e patologica quanto si voglia, nella storia dell’unità d’Italia. Dopo il delitto Matteotti Levi si accorge che queste due Italie stanno separate nettamente in due mondi dai riferimenti culturali e politici ben diversi. La prima è in qualche modo solidale con il “genio tradizionale”, con una endemica vocazione ad abdicare alla propria libertà. L’altra, forse più auspicata che verificata, è costituita dagli spiriti amanti appunto della libertà, un concetto di cui Levi precisa le sfumature risalendo fino a Kant. La presenza del sacro, non della religione, da Vico a Jung, è illustrata con cura da Gasperina Geroni e spiega il carattere di vera narratio del mito (cfr. il saggio Paura e coraggio dei miti opportunamente convocato a motivare i caratteri della scrittura di Levi). Sia detto per inciso, in questo lungo capitolo sembrano interessanti e meno frequentate le idee sul cinema, “ipnopedia della contentezza”.
Il secondo capitolo è dedicato a Cristo si è fermato a Eboli, uscito nel 1945 nella collana di saggistica dell’Einaudi per la sua fisionomia non inquadrabile nella media dei romanzi che venivano pubblicati nel clima del Neorealismo, cui Levi non appartiene affatto. Memoriale? Libro di denuncia? Libro di conferma del vichianesimo e junghismo dell’autore? Come è noto Carlo Levi, rifugiato nella casa di un’amica a Firenze per l’imperversare dell’occupazione nazi-fascista, nel 1943-1944 ritorna con il pensiero e la penna al periodo passato in esilio cioè al confino in Lucania tra il 3 agosto 1935 e il 26 maggio 1936, tra Grassano – per poco più di un mese – e poi Aliano (da lui chiamato Gagliano secondo la pronuncia locale degli abitanti): due paesi che gli hanno poi sempre riservato riguardo e attenzione, come del resto la critica e l’antropologia meridionalistica. Sulla scorta di un’esperienza personale e di studi come quella del Ramo d’oro di Frazer Levi scopre, come dirà parecchio più tardi nella famosa lettera di presentazione a Giulio Einaudi per la riedizione del 1963, «la Lucania che è in ciascuno di noi».
Il libro ebbe un’accoglienza pronta ma variegata, fitta di giudizi contrastanti: taluni infatti, e l’autore del presente libro li ricorda, accusarono Levi di insufficiente maturità ‘ideologica’ (gli Alicata, i Muscetta); altri di populismo o di narcisismo. Quest’ultimo aspetto della figura di Levi, uomo, scrittore e pittore, emerge anche dalle poesie e perfino dalle lettere ai famigliari di quel periodo, ma a ben vedere è una postura provvidenziale, non tanto di autocontemplazione contro i rovesci della Storia generale e dei suoi danni su quella personale (il carcere a Roma, indi il confino in Lucania), quanto di immersione ottimistica o almeno serena nell’alterità e nella leviana “invenzione della verità”. Ciò che stupisce è l’armoniosa intertestualità che emerge dai tanti quadri e disegni fatti a Grassano e Aliano, dalle lettere da quel confino, dai colori fissati sulle tele, dalle leggende, dai modi di dire appuntati amorosamente in loco e dalle parole chiave che attraversano tutte le varie forme di espressione emerse a caldo durante il periodo lucano e poi recuperate dopo circa otto anni per la costruzione del Cristo. E’ un fatto abbastanza eccezionale nella nostra letteratura una tale armonia di passaggi da uno ad altro genere di espressione, che non si sarebbe potuta verificare se Levi non avesse conservato documenti e memoria visiva delle impressioni, registrazioni di personaggi, animali e colori della scoperta di un mondo altro, fuori dalla Storia. La scoperta del tempo ciclico e non lineare del mondo contadino («luogo non luogo / tempo non tempo», come dice una poesia), insomma della contemporaneità dei tempi nell’universo contadino separato dalla civiltà, crea immagini e descrizioni indimenticabili del paese costruito sulle ossa dei morti, della natura plurale che circonda la povera gente di Lucania: la capra metamorfica, i fruschi, i licantropi, le superstizioni, perfino Barone, il cane di Carlo, per la comunità secondo il suo nome mezzo barone e mezzo leone. Come ricorda Gasperina Geroni che cita Walter Benjamin su Leskov e Hannah Arendt, il racconto ‘epico’ non può fissarsi sulla psicologia dei personaggi come quello borghese, deve affidarsi a profili somatici o tipologici, a posture, a racconti inseriti nel racconto. Non sarà un caso che Sud e magia di Ernesto De Martino si sia basato in parte sul libro di Carlo Levi.
Quanto a L’orologio, pubblicato da Einaudi nel 1950 di nuovo in una collezione di saggi, la prima cosa da dire a mio parere è che è un libro di straordinaria attualità per l’immagine delle varie Italie che ne esce a caldo, certo fotografata negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, già segnati da grandi delusioni nei confronti del rinnovamento che la Resistenza aveva vagheggiato, ma ancora in atto. La immediata sconfitta di Ferruccio Parri che si deve dimettere da Presidente del Consiglio e quindi la crisi del Partito d’Azione cui Levi ha aderito andando a Roma a dirigere un giornale, pochi anni dopo la disfatta del Fronte Democratico Popolare; questi eventi pubblici sono il contesto politico in cui si inquadrano, come scrive Gasperina Geroni «tra sonno e veglia», i tre giorni e tre notti della narrazione, che in verità svaria tra sogni, ritorni al passato torinese, peregrinazioni nella città eterna, viaggi. I ritratti dei capi politici di allora, le discussioni ideologiche di alcuni amici giornalisti, il centralismo impunito della Roma politico-burocratica, la miseria delle sue periferie, un viaggio avventuroso e una visita a Napoli in occasione di un lutto personale vengono inquadrati entro una scansione temporale che pare dilatarsi all’infinito ben oltre i tre giorni, in accordo con le idee di Levi, sempre pronto a travedere dietro le apparenze del presente le emergenze di una temporalità grande, stratificata.
Molti anni dopo nel 1973 Levi è costretto da una grave malattia agli occhi (un distacco di retina con ricaduta) a stare per un certo periodo al buio. Dalla situazione negativa nascono più di cento disegni e un numero molto alto di pagine scritte con un marchingegno che consentiva all’autore di vergare appunti su appunti su quello che si chiamerà nell’edizione postuma del 1979 Quaderno a cancelli, un titolo che allude sia al sistema inventato per poter scrivere nonostante la cecità parziale, sia ai quaderni a quadri grandi che vengono forniti ai bambini per l’apprendimento della scrittura, sia infine alle grate di una prigionia metaforica che tuttavia ricorda le esperienze carcerarie patite da Carlo a metà degli anni Trenta a Regina Coeli, in quanto ebreo e oppositore del regime mussoliniano. I ricordi, i sogni, le riflessioni di sintesi sulla propria esperienza intellettuale e espressiva vengono così fissati a riscatto di una malattia invalidante, ma nel presagio della morte che verrà di fatto pochi anni dopo. Gasperina Geroni affronta quest’opera testamentaria, di non facile decifrazione, con dispositivi ermeneutici sia interni che esterni. Gli interni sono le frequenti citazioni da poeti che Levi produce per costeggiare la sua idea della Futilità, che «sta come una grigia spiaggia dove nessun piede si è posato né si poserà mai, e nessun vento soffia a muovere la sabbia, né alcuna onda a inumidirla, asciutta, arida, intatta». Non a caso gli appunti rinviano tra l’altro a Meriggiare pallido e assorto e a Non chiederci la parola degli Ossi di seppia di Montale oppure all’Infinito di Leopardi, con una siepe che del verde leopardiano non ha più nulla. Il concetto leviano di futilità può rinviare alla teologia negativa, al neoplatonismo e a Heidegger, comunque si accompagna alla decadenza del mito, alla fine di ogni elemento materno in una serie di definizioni che avvengono soprattutto nella prima parte per via di negazione. Qui soccorrono letture psicologiche e psicanalitiche che l’autore del libro assembla con cura per accompagnare il lettore nel mondo complesso, ben poco ottimistico, del Levi postremo.
“ Lunedì 13 ottobre 1997 – Raccontava l’altro giorno la zia Giuditta – c’eravamo appena lasciati alle spalle la sorprendente faraona alle bacche di ginepro, era alle viste il cospicuo dessert, si notavano i primi segni di alterazione fra i commensali sopraffatti dalle portate – che una volta Sklovskij, che si trovava in Italia, accettò di farsi fare il ritratto da Carlo Levi. Per un’ora buona se ne stette calmo e immobile come si conviene a chi posa per un pittore, poi, improvvisamente, si alzò e si mise a fare ginnastica – era già vecchio, ma ancora assolutamente arzillo. Così io, che non sono completamente vecchio, e francamente nemmeno arzillo, mi sono alzato e sono andato a fare un giretto. Uscito all’aperto, affacciandomi in vista del suggestivo orizzonte di crete, sottoponendomi al vertiginoso azzurro del cielo di quest’ottobre che sembra ancora un settembre, respirando a pieni polmoni la libertà euforizzante dello spazio aperto, ho avuto voglia di non rientrare più. Ma poi, considerando che non sono più tanto giovane, e che ho creduto sempre poco alla libertà, sono tornato sui miei passi, sono rientrato, sono – tanto per essere franchi – tornato dentro. Lì dove c’è sempre qualcuno che cerca di farti il ritratto, un pittore, un fotografo, uno che ti preferisce immobile, per ragioni non sempre onestamente professionali. Comunque, pazienza. Guardate, guardate, vedete se ci riuscite, dico a vedermi. Guardatemi mentre mangio il dolce della sposa. Era buonissimo, lo dico io che sono uno a cui i dolci non piacciono, e ancora, se ci ripenso, mi lecco i miei – metaforici – baffi. “.
Grazie mille!