di Federico Gironi

Chissà se ci siamo mai incontrati, Andrea Pomella e io, che abbiamo praticamente la stessa età. Chissà se ci siamo incrociati senza saperlo, in una Roma anni Novanta fatta di avanti e indietro lungo la Tangenziale Est, di liceo e di università, di sale prove e feste di studenti, di alcol scadente e ultime sigarette accese con le prime luci del mattino. La Roma di un’era lontana, nella quale non dico Spotify, ma perfino Napster e gli mp3 erano fantascienza, e il massimo della tecnologia era il CD. Non c’erano file, non c’erano Torrent, ma c’erano negozietti che spuntavano come funghi dove i CD li potevi noleggiare: e ovviamente poi, a casa, li copiavi su cassetta, e quelle cassette suonavano negli stereo in camera, e ancora di più e più forte nelle autoradio, mentre viaggiavi alla volta del Villaggio globale, o del Circolo degli Artisti che – allora – era ancora in Via Lamarmora, dove adesso c’è il mercato dell’Esquilino. La Roma che Pomella racconta nel suo nuovo romanzo, Anni luce.

E la musica da cui per lui tutto è partito, e attorno alla quale ha scritto il suo libro – quella dei primi tre album dei Pearl Jam: Ten, 1991; Vs., 1993; Vitalogy, 1994 – l’ho ascoltata, suonata e cantata ossessivamente anche io. E poi, come ha fatto lui, l’ho messa in sospeso: perché era giusto così, perché quelle cose lì erano cambiate, passate, trasformate. Passaggi, trasformazioni. Appunto.

Parte da un incontro, Pomella. Dall’incontro con un compagno di strada che sarà il suo Neal Cassady: perché l’omaggio a Sulla strada è esplicito e dichiarato. Al posto delle strade americane, quelle di Roma – di quella Roma lì – e i vagoni di un interrail alcolico e randagio che comunque farà ricadere sia l’autore sia il suo compagno di strada sempre lì da dove erano partiti: perché non c’è – non c’era – via di fuga possibile al disagio che si sentiva addosso, e ogni ricerca, ogni esplorazione, ogni deviazione lasciava solo la possibilità di aggrapparsi a quel poco che si aveva e si conosceva. Parte da un incontro per poi finire con una separazione, con un incidente, con una cesura. Con una piccola pausa di silenzio sul nastro di un’audiocassetta che è come una cicatrice sul tessuto della sua giovinezza. Un confine invisibile ma percepibile tra un prima e un dopo; tra un’età della vita, in cui magari si gira e si rigira alla ricerca di qualcosa che non c’è, e una nuova stagione, quella in cui s’impara che forse da cercare non c’era nulla.

Di questo parla, allora, Anni luce: di quella stagione della vita in cui la tua giovinezza – che come ogni giovinezza deve essere anche un po’ ribelle e scapestrata, e insofferente – si va poi a incastrare con gli ingranaggi di una vita adulta che ti risucchieranno dentro un mondo altro, diverso da quello che volevi e che pensavi. Quella che Pomella racconta è una storia personale, e autobiografica. Quanto, non mi è dato saperlo, ma so che riesce a raccontare atmosfere e sentimenti comuni a tutta una generazione. Una generazione, quella degli adolescenti degli anni Novanta, che ha trovato nel grunge, “il primo genere musicale fondato sul disturbo depressivo”, i suoni e le parole per descrivere il suo smarrimento senza precedenti. “Gli adolescenti di ogni epoca hanno finto di essere tristi; gli adolescenti dei primi anni Novanta lo hanno fatto più di tutti gli altri,” scrive Pomella. Tanti quarantenni di oggi che allora andavano in giro senza una meta precisa, con addosso anfibi, jeans sdruciti e camicione di flanella indossate sopra t-shirt di seconda mano potranno ritrovare dentro Anni luce molte cose su quel che voleva dire essere così, vivere quei vent’anni lì, e su cosa vuol dire essere diventati come siamo oggi.

Anni luce esce nello stesso anno in cui, a ventidue anni dal loro ultimo concerto a PalaEur, i Pearl Jam tornano a esibirsi a Roma. “Isn’t it ironic?”, cantava qualcuno. Ma quella era Alanis Morisette, era un’altra musica, un’altra storia.

 

[Immagine: Pearl Jam, Live].

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