di Mauro Piras
La sinistra, in Italia, non ha mai vinto le elezioni. Nella cosiddetta prima Repubblica non è mai riuscita a superare la DC. Nel 1994 le ha prese sonoramente. Nel 1996 il centrosinistra ha vinto solo perché la Lega correva da sola e il centrodestra era quindi diviso. Nel 2001 le ha prese di nuovo. Nel 2006 ha vinto di pochissimo, trovandosi quasi senza maggioranza al Senato. Nel 2008 un’altra sconfitta. Nel 2013 ha “non vinto”, trovandosi davvero senza maggioranza al Senato. E nelle elezioni appena svolte ha toccato il suo punto più basso, subendo una sconfitta gravissima. Che cosa ci insegna questa storia? Dopo la svolta del 1992-93 in Italia si è aperta una crisi del sistema politico che non si è ancora chiusa: il sistema politico precedente, fondato sul parlamentarismo, sul ruolo centrale dei partiti, sul proporzionale, sulla contrapposizione senza alternanza tra DC e PCI, è saltato; al suo posto si è formato inizialmente un sistema bipolare, fondato sull’alternanza tra centrodestra e centrosinistra, sul maggioritario, sulle alleanze, sull’indebolimento dei partiti e un appello più diretto agli elettori; questo sistema si è dimostrato instabile, incapace di governare, e sembra saltato a sua volta dal 2013, da quando è emerso il M5S. Ma le elezioni del 4 marzo mostrano qualcosa di diverso. Non è tutto il sistema politico a essere perennemente in crisi, ma solo una sua parte. Alla fine, pur con molti cambiamenti, dopo il passo falso del 1996 il centrodestra ha trovato la sua stabilità: la formula Forza Italia più Lega più destra ex-fascista funziona sempre, cambiando gli equilibri interni riesce sempre ad avere un certo successo, e con il 37% di quest’anno ha recuperato quasi tutto il suo bacino elettorale. La parte del sistema politico che non esce dalla crisi, che non si trova, è invece la sinistra: non riesce a trovare una sua identità, per quanto in diverse formazioni, che garantisca un vero ricambio, una vera alternanza. I suoi spazi vengono occupati da un altro soggetto politico, il M5S, che rischia così di chiudere a suo modo questa eterna crisi del sistema politico italiano, creando un nuovo bipolarismo.
1.
Il PD alla sua nascita ha preso il 33% dei voti, perdendo le elezioni del 2008, ma realizzando quello che è rimasto il suo massimo storico nelle elezioni politiche nazionali. Oggi è al 19%. Un tracollo. Si trova ora al livello di molti altri partiti della famiglia socialista europea, che navigano intorno al 20% (tedeschi, spagnoli) o stanno persino peggio (francesi, greci). Come i partiti socialisti, ha pagato il fatto di avere amministrato in modo moderato e coerente al sistema la più grave crisi economica dopo quella del ’29, senza riuscire a rispondere al senso di precarietà e insicurezza di ampi strati sociali, i più deboli, il suo antico elettorato di riferimento. In più, in Italia, ha partecipato dal 2011 in avanti a governi di larghe intese, che hanno ulteriormente indebolito la sua identità, e hanno esasperato tendenze già forti in altri paesi: da una parte, sentimenti “anticasta”, ostili a qualsiasi parte della classe dirigente tradizionale, alle istituzioni europee, alle politiche economiche più o meno liberali; dall’altra, rivendicazione dell’identità nazionale e invocazione del sovranismo, come si dice.
Questa breve sintesi è incompleta. Rispetto agli altri partiti della famiglia socialista europea, il PD ha attraversato un momento in cui non sembrava affatto destinato alla stessa fine: il momento Renzi. Il PD guidato da Renzi infatti ha fatto eccezione a questo quadro, all’inizio, per varie novità: ha spinto con forza per un rinnovamento, anche brutale (la “rottamazione”), della classe dirigente del partito, creando la speranza di un’apertura alla partecipazione politica e alle esigenze reali della società; ha assunto un linguaggio e una pratica populisti, appellandosi direttamente ai cittadini, agli elettori, saltando le mediazioni degli organi di partito, dei sindacati ecc., con un linguaggio semplicistico e binario, un populismo però europeista e abbastanza soft da rassicurare i ceti produttivi; ha promesso una politica economica mista, non in conflitto aperto con i parametri UE, ma sicuramente espansiva, con un uso anche disinvolto della spesa pubblica. Questi elementi hanno fatto il momento di grazia iniziale del renzismo: le primarie del 2013 e le elezioni europee del 2014, con il famoso 40%.
Tutto questo poi si è perso. La politica economica effettiva è stata, come per i partiti socialisti europei, una gestione moderata della crisi, con qualche iniezione in più di spesa pubblica espansiva, ma niente di spettacolare. Le riforme intraprese sono certo ragionevoli e necessarie per la modernizzazione del sistema economico italiano, che si trascina da prima della crisi, ma non rispondono affatto al senso di disagio sociale che questa ha provocato. A ciò però si aggiunge che tali riforme sono state numerose, e realizzate a tamburo battente: anche questo rispondeva a una esigenza reale del nostro paese, che non riesce ad affrontarle da almeno vent’anni, se non più. Tuttavia, questa agenda riformista moderata ma accelerata, attuata in un momento di grave insicurezza economica, non poteva che provocare scontento. La razionalizzazione della pubblica amministrazione genera senso di precarietà nei dipendenti pubblici in un momento di blocco delle retribuzioni; la riforma del mercato del lavoro, se anche nella realtà non ha aumentato la precarietà né tantomeno i licenziamenti, aumenta il senso di incertezza in un momento in cui si creano in generale pochi posti di lavoro, e molti a tempo determinato; la riforma della scuola aggrava il lavoro docente in un momento di scarso riconoscimento sociale e economico della categoria; ecc. E poi in ogni caso le riforme creano sempre scontento da qualche parte, specie se realizzate in fretta, a volte con gravi errori di applicazione, con una amministrazione inefficiente che non segue.
Il rinnovamento della classe politica ha fallito miseramente, perché il PD, soprattutto nelle periferie, è sceso a mille compromessi, e i “nuovi” spesso sono stati reclutati solo per cooptazione e fedeltà alla leadership, senza accogliere risorse che si mobilitavano sul territorio; in generale il partito è rimasto piuttosto chiuso, autoreferenziale, non ha favorito la dinamica partecipativa reale, nei circoli, nelle assemblee, nei forum ecc. A ciò si sono aggiunti gli scandali, per quanto spesso infondati, e candidature discutibili. Tutto questo ha rovesciato la posizione del PD renziano: da rottamatore a casta, come tutti gli altri, anzi peggio.
Allo stesso tempo, però, il renzismo ha continuato a fare il discorso del “rinnovamento”, del vero cambiamento della politica, pur abbandonando il gergo della rottamazione. Renzi, in modo sempre più maldestro dal 2016 in avanti, ha continuato a giocare la carta dell’appello diretto agli elettori, scavalcando e delegittimando le mediazioni partitiche, per non parlare di quelle sindacali. Questo però ha determinato un rapido crollo di credibilità, perché in realtà il PD renziano non era più il cambiamento che pretendeva di essere, era molto più istituzionale, di apparato, di establishment: e in quanto tale veniva attaccato sempre di più. Dall’altro lato, l’oltranzismo nella rottura con i vecchi punti di riferimento, soprattutto i sindacati, gli toglieva consensi nell’area tradizionale di riferimento della sinistra. Il lavoro di mediazione e di recupero fatto dal governo Gentiloni su questo fronte è servito a ben poco.
Questi cambiamenti spiegano il tracollo del PD, dopo le grandi aspettative del 2014. Dopo questo tracollo, si sono affermate quelle forze politiche che hanno saputo raccogliere le esigenze tradite dal momento Renzi: il rinnovamento e la “ripulitura” della politica; l’apertura alla partecipazione dei cittadini; la difesa del lavoro e la protezione dalla precarietà sociale. Tutti questi temi sono stati percepiti come traditi dalla sinistra, e sono transitati senza mediazione verso il M5S. Sull’altro fronte: un sentimento diffuso di insicurezza; la paura dei migranti; una certa indifferenza e, in alcuni casi, ostilità verso i diritti civili (coppie di fatto, ius soli ecc.). Tutto questo è stato capitalizzato senza scrupoli dalla Lega, ma è passato in parte anche verso il M5S. La mescolanza, per quanto instabile e esplosiva, di questo insieme di esigenze è quella che fa vincere le elezioni: non solo in Italia, ma anche in molti paesi europei e non. Il M5S ha vinto tenendo insieme questo mélange.
2.
In Italia, quindi, si sono sovrapposte in questi anni due crisi di lunga durata. Da un lato, la ristrutturazione del sistema politico, in particolare nella sinistra, che non ha trovato il suo luogo e la sua identità dopo la svolta del 1992-93. Dall’altro lato, la crisi generale della democrazia rappresentativa e dei partiti tradizionali, quelli costituiti sull’asse novecentesco liberali-socialisti, che hanno governato l’Europa dopo il 1945: quei partiti cioè che hanno gestito la crisi economica nei limiti del sistema capitalistico globalizzato, e dei vincoli europei, pagando un caro prezzo al senso di insicurezza sociale da essa generato. L’unione di questi due processi ha reso il crollo italiano ancora più grave di quello di altri partiti, perché, attraverso il momento Renzi, li ha intrecciati: il PD è caduto dall’alto. Inoltre, tale intreccio ha generato la nascita di un nuovo soggetto politico, il M5S, che è molto più forte di soggetti più o meno simili nati in altri paesi. È molto più forte perché nasce dalla congiunzione di queste due cause, come abbiamo detto; e perché la crisi di legittimazione e di rappresentanza della classe politica in Italia è più antica, risale almeno agli anni ottanta, e molto più radicata. Inoltre, il M5S è rafforzato dalla profonda divisione economico-sociale del paese, soprattutto dalla frattura Nord-Sud, e dalla sua capacità di muoversi ambiguamente tra temi “antisistema” tradizionalmente di sinistra e temi “antisistema” tradizionalmente di destra. Queste due tendenze, in altri paesi, solitamente si dissociano in forze politiche opposte, mentre nel M5S sono compresenti.
Non aver visto tutto questo, da parte della sinistra, ha significato non prendere sul serio i caratteri di questo nuovo soggetto, averlo sottovalutato enormemente. Questo è un errore di prospettiva condiviso da tutti i partiti di establishment, ovunque: i democratici americani che hanno sottovalutato Trump, i socialisti francesi nei confronti del lepenismo (e anche del partito di Macron), i socialisti tedeschi nei confronti di Alternative für Deutschland ecc. L’errore consiste nell’utilizzare categorie spuntate come populismo/antipopulismo, antipolitica, euroscetticismo ecc. Soprattutto l’idea di ridurre queste forze alla motivazione populista o all’antipolitica è sbagliata e perdente, perché: delegittima l’avversario, provocando risentimento e maggiore contrapposizione politica e sociale nei suoi elettori; non riconosce i problemi di fondo, reali, che le sinistre e in generale i partiti tradizionali non hanno saputo affrontare; non vede la forte esigenza di partecipazione politica che è alla radice di molti di questi movimenti, e che è il contrario esatto del populismo o dell’antipolitica; ha l’effetto paradossale di giustificare ulteriormente l’opposizione senza quartiere alle classi dirigenti tradizionali: “se ci trattate così, meritate solo di sparire”; ma soprattutto, questo discorso è lo stesso delle élite economiche globali, proprio quelle che vengono percepite come il nemico dalle classi sociali che votano questi movimenti.
Bisogna invece abbandonare una volta per tutte queste categorie (populismo, antipolitica, voto di protesta ecc.) e leggere il quadro politico in modo del tutto diverso. Anzitutto, riconoscendo gli ideali e i modelli politici proposti dalle diverse parti politiche; inoltre, riconoscendo le esigenze sociali reali che si trovano dietro la scelta, da parte degli elettori, di quei modelli politici. Non aver fatto questo lavoro, da parte della sinistra, ha permesso l’affermazione di Berlusconi e della Lega, negli anni novanta e primi duemila: aver sempre denunciato il carattere affaristico, corrotto, e il dominio dei media per il primo; e il carattere razzista, antipolitico, ecc. per la seconda è servito solo a rafforzali, a causa della cecità totale nei confronti dei problemi ai quali cercavano di dare una risposta, e della mancanza di rispetto nei confronti dei loro progetti e quindi dei loro elettori. Le ultime elezioni confermano anche in Italia un quadro caratterizzato dall’emergere di quattro ideali diversi di democrazia, in conflitto tra di loro e in parte intrecciati, di cui ho già parlato in un altro intervento (https://www.leparoleelecose.it/?p=27755): la democrazia nazionale e identitaria, la democrazia partecipativa e sociale, la democrazia rappresentativa liberal-conservatrice e la democrazia rappresentativa progressista. Le quattro tendenze sono ben visibili, come già al primo turno delle presidenziali in Francia nel 2017, con la differenza che il M5S, facendo convergere in sé tanto la democrazia partecipativa quanto, in parte, quella nazionale, è più forte di tutti, e la tendenza rappresentativa conservatrice è più debole che altrove a causa del declino politico di Berlusconi. Ma la cosa più importante è questa: se si legge il quadro politico in questo modo, cercando di identificare i modelli politici ideali di riferimento, e di legittimare le scelte degli elettori, si deve abbandonare ogni allarme per la democrazia. La democrazia non è in pericolo, per quanto attraversi una crisi di legittimità: non ci sono forze che rischiano di scardinarne i fondamenti e di portare il Paese alla dittatura (aver detto questo di Berlusconi, a suo tempo, ha reso ridicola la sinistra, e le ha impedito di vincere). E quindi non sono affatto giustificati allarmi del tipo: “ora governeranno quelli” (Lega o M5S), come se fosse la discesa dei barbari. No, nessun allarme: tutte queste forze sono nella democrazia, benché ne diano letture diverse.
3.
Che rapporto c’è tra questa analisi e la situazione politica contingente, aperta dai risultati elettorali?
In primo luogo, come appena detto, non c’è nessun allarme democratico: c’è solo un problema di instabilità politica, generato dagli esiti delle elezioni, ma non ci sono rischi se una forza o l’altra va al governo. Quindi gli appelli alla “responsabilità” hanno valore solo in senso del tutto generico: cioè come appelli a trovare una soluzione, senza irrigidimenti inutili, ma non nel senso di cercare a tutti i costi anche soluzioni eccezionali (maggioranze trasversali, larghe intese, governi di scopo, appoggi esterni ecc.) che snaturino il voto espresso dagli elettori. Non c’è né un’emergenza democratica, né un’emergenza economica, come c’è stata nel 2011: in questo momento non ci sono rischi di speculazione finanziaria, la situazione dei mercati è piuttosto stabile, e l’economia, per quanto debole, è in lenta ripresa. Va quindi rispettato il voto degli Italiani: le forze che hanno la possibilità di costruire una maggioranza hanno la responsabilità di prendere l’iniziativa, chi è stato sconfitto non deve che restare all’opposizione, in questo momento. Le fughe in avanti di dirigenti del PD, giornalisti, opinionisti ecc. che stanno proponendo ovunque l’alleanza tra PD e M5S sono totalmente ingiustificate, al limite dell’assurdo. È del tutto prematuro discutere di alleanze ora, senza uno straccio di proposta chiara da parte di chi ha la maggioranza relativa, senza che si siano eletti i Presidenti delle Camere, senza che sia stato dato un incarico esplorativo a qualcuno per iniziare le consultazioni. Quando sarà il momento, quando si saranno definiti questi elementi, i partiti vedranno le offerte politiche e valuteranno. Il PD potrà eventualmente prendere in considerazione una proposta concreta da parte del M5S, e valutare le opzioni: alleanza o opposizione. Ma fare un’alleanza vuol dire accettare di realizzare, in parte, anche il programma dell’altro, e di governare insieme. È del tutto insostenibile la posizione del M5S (imitata in parte da Salvini): non si fanno alleanze tradizionali, perché non si “spartiscono le poltrone”, si cerca solo una convergenza su punti specifici (che sono però del M5S); insomma: “venite a noi e dateci i vostri voti”. Questa posizione rischia di delegittimare ulteriormente le istituzioni democratiche (è l’unico vero rischio che corre la democrazia italiana adesso). Essa infatti innesca una spirale perversa di questo tipo: “noi, grillini, rifiutiamo le alleanze vecchia maniera, vi chiediamo di appoggiarci su alcuni punti”; “voi, la casta, rifiutate, perché restate aggrappati alla vecchia politica”; questo approfondisce la crisi della rappresentanza politica, perché accentua il malcontento anticasta, che il M5S capitalizza, senza però riuscire a governare; il risentimento contro la classe politica non trova sbocco, e le istituzioni democratiche vengono delegittimate. Così non si esce mai dalla crisi. Questo è il vero lato preoccupante del M5S. Invece, il gesto di responsabilità lo deve fare proprio questo movimento, abbandonando una volta per tutto questa visione manichea e dogmatica della politica, accettando di fare propria la normale logica della trattativa, delle alleanze, della mediazione parlamentare.
Infine, su un piano strettamente politico, è del tutto auspicabile che il PD rimanga all’opposizione. In primo luogo, perché dal novembre 2011 a oggi ha governato per sei anni e quattro mesi senza interruzione. Ha pagato, in questi anni di governo, i suoi errori e quelli dei suoi alleati: gli elettori lo hanno punito, lo hanno spedito all’opposizione con un risultato inequivocabile, ed è quindi giusto che rimanga lì. È molto più sano per il PD, così può affrontare la sua crisi, vedere se riesce a ricostruire un’identità e una comunità politica, analizzando i suoi errori e recuperando terreno dove lo ha perso. E soprattutto è molto più sano per la democrazia italiana, perché rende possibile un’alternanza al governo (se il PD va ancora al governo l’alternanza non c’è) e perché una collocazione chiara del PD all’opposizione può aiutarlo a ricostituire la parte del sistema politico che non si trova. Il Presidente Mattarella ha fatto un appello alle forze politiche, chiedendo di “collocare al centro l’interesse generale del Paese e dei cittadini”. Nei giornali queste parole sono state lette come un appello al senso di responsabilità del PD: per salvare le istituzioni, bisognerebbe accettare anche un’alleanza tra M5S e PD. Se questo fosse il senso, sarebbe un grave errore, proprio per il bene delle istituzioni: se si continua a disconoscere in modo così plateale il voto degli elettori, che hanno bocciato l’attività di governo del PD, la crisi di legittimità della democrazia non verrà mai risolta, anzi si aggraverà sempre più. Se ne vogliamo uscire, dobbiamo smetterla di avere paura del voto: quindi, non bisogna temere di lasciare all’opposizione chi ha perso; e non dobbiamo temere nuove elezioni, se queste sono necessarie. Anche su questo punto si sbaglia: si ipotizza che non cambierà niente, se si rivota; ma in questo modo si trattano gli elettori come degli incapaci, che non capiscono che cosa sta succedendo: se si rivota gli equilibri potrebbero cambiare, in qualsiasi modo, perché gli elettori valuteranno quello che è successo in mezzo. Tutte queste manovre stanno logorando la nostra democrazia, non il voto populista o fantasie del genere.
Infine, la ragione fondamentale che impedisce l’alleanza tra PD e M5S è la radicale divergenza dei progetti politici, e dell’ideale di democrazia a essi sottesa. I pochi dettagli a cui ci si appiglia per proporre un’alleanza sono secondari. Nei nuclei fondamentali non c’è possibilità di convergere. In primo luogo, sull’europeismo, sulla difesa del progetto dell’UE fin dall’inizio, sulla promozione di un suo rafforzamento. Poi sulla gestione dei conti pubblici: il PD sostiene ormai da tempo che la sostenibilità finanziaria non è solo un problema di stabilità, ma anche di equità, mentre per i grillini è solo una macchinazione per spremere i poveri. Su questo terreno, il tema della riforma pensionistica è centrale: il PD non potrebbe mai appoggiare il ritorno a un sistema squilibrato, che sottrae risorse e impedisce qualsiasi giustizia intergenerazionale. Poi c’è il mercato del lavoro: descrivere il jobs act come un male da cancellare e basta non è affatto conciliabile con l’idea di un mercato del lavoro più adatto alle dinamiche della globalizzazione, che non crei spaccature ingestibili. Per non parlare della questione della “casta”: i grillini hanno generato nell’elettorato l’illusione che questo sia il problema principale, e che abolire i vitalizi, tagliare gli stipendi ai parlamentari ecc. siano riforme fondamentali e utili per trovare risorse. Questo, per il PD, non solo è falso, ma anche sbagliato: attaccare in modo così indiscriminato le risorse di cui dispone la politica significa distruggere le basi della democrazia rappresentativa, perché altrimenti i parlamentari perdono autonomia, dipendono sempre più da finanziamenti esterni e, soprattutto, dai ricatti dei vertici di partito. E poi ci sono i diritti civili: i grillini a un certo punto li hanno abbandonati, perché per loro sono un falso problema, perché “agli italiani non interessano”. E in effetti i loro elettori non vogliono lo ius soli, non volevano la stepchild adoption. Ma per gli elettori del PD è tutto il contrario. E così via. Tutte queste cose mostrano che la visione generale di queste due forze politiche è inconciliabile: il PD difende un’idea di democrazia rappresentativa progressista, in cui si promuovono i diritti individuali di libertà, si cerca la giustizia sociale senza intralciare la creazione di ricchezza resa possibile dal capitalismo, si rispettano dei parametri di stabilità finanziaria perché non rispettarli significa commettere delle iniquità. Il M5S vuole invece una democrazia che, pur parlamentare, viene piegata alle esigenze della democrazia diretta, non crede nel ruolo centrale dei diritti di libertà, perché ha una visione più “etica” della cittadinanza, che giustifica la lotta senza quartiere contro la casta, e vede i problemi economici come una lotta tra un popolo vessato e una cricca di pochi sfruttatori, alleati con la politica; coerentemente, vuole usare la spesa pubblica per correggere questo squilibrio. Queste visioni sono inconciliabili, e non ci sono ora le condizioni per trovare dei compromessi. Se il PD si autoimmolasse per il bene delle istituzioni (cosa del tutto discutibile, come già detto) si autodistruggerebbe come partito, in questo momento, e la tradizione democratico-liberale progressista, già debole, si annienterebbe del tutto in questo Paese. E non sarebbe affatto un bene per la democrazia.
(Firenze, 11 marzo 2018)
[Immagine: Manifesti elettorali].
Caro Mauro, un articolo molto centrato e puntuale nell’analisi politica che condivido. Mi pare però molto meno centrato per quanto riguarda l’analisi economica. “Politiche moderatamente espansive” nel lessico dell’economia politica significa spesa in deficit e stando ai dati dell’avanzo primario degli ultimi 5 a anni la politica economica espansiva semplicemente non c’é stata. E questo – come giustamente dici – nella peggiore crisi economica dopo quella del ’29. Il governo Monti, appoggiato con convinzione dal PD, ha realizzato addirittura politiche procicliche nella migliore tradizione liberal-conservatrice. D’altra parte dentro il quadro del rispetto dei Trattati (la cui ispirazione é essenzialmente marginalista e monetarista) lo spazio per politiche realmente espansive semplicemente non esiste. Questo é uno dei punti decisivi per comprendere le ragioni della sconfitta. Senza riprendere in mano i fondamentali dell’economia keynesiana (a cominciare dalla non demonizzazione del debito che non può essere semplicemente identificato con l’iniquità intergenerazionale) e senza una riflessione sulla urgenza di prendersi in Europa tutto lo spazio necessario per politiche economiche realmente espansive (almeno finché l’inflazione non sarà ben sopra il 2% e finché il PIL non sarà tornato a livelli pre-crisi) ogni analisi critica della sconfitta della sinistra rimane incompleta ed astratta.
Grazie a M. Piras per questo interessante articolo, nel quale mi stupisce un po’ rilevare l’assenza del clivage politico principale, UE sì/no. Comunque non c’è fretta.
Trovo molto apprezzabile l’analisi politica, lucida e disincantata. Il problema vero del PD è quello di non essere stato in grado di intercettare la rabbia dei cittadini, compito svolto con molta efficienza dal Movimento 5 stelle senza per altro una formulazione di soluzioni convincenti. Un esempio per tutti la deindustrializzazione e la delocalizzazione delle attività produttive fenomeni che non hanno ricevuto dall’inizio l’attenzione che meritano e soprattutto la questione non è stata affrontata negli ambiti giusti, ovvero a livello europeo. Alcune nazioni europee, come il Portogallo si stanno riprendendo, noi lo stiamo facendo ma in modo più fragile. Perché ? Cosa è venuto meno?
Con chi deve governare il PD? Con nessuno. Un’opposizione fiera è meglio di qualsiasi altra cosa.
Interessante, sotto i punti di disaccordo sull’analisi “tattica”, in commento successivo le divergenze sulla parte di interpretazione più strategica.
A mio parere il PD ha perso così tanto per ripetuti errori di comunicazione politica. Ne ricordo uno, lo speech di Renzi dopo il referendum “trivelle” (con attacco studiato quanto sguaiato a reti unificate a Emiliano e attivisti 15 minuti dopo la fine del voto). Ma tutte le campagne sono state penose, anche quella del referendum costituzionale, la pagina “para-grillina” su Facebook con auto-smascheramento, la mono-mania anti-5S (quando il vero competitor dove girano più posti e soldi, cioè a livello regionale, è quasi sempre il CD) etc. Se poi il tuo giornale di riferimento diventa Il Foglio, problemi di rapporto con la realtà sono probabili. Il problema non è tanto che hai il 19, è che hai gli stessi problemi di quando avevi il 25 o il 30: un partito votato prevalentemente da pensionati (ma ne parlo nella parte “strategica”).
Altro errore tattico clamoroso, la legge elettorale. Dici che la sinistra non ha mai vinto le elezioni, oddio, magari nel 2006 le avrebbe davvero vinte, se non avessero fatto il Porcellum, perché i voti ci sarebbero anche stati… questa volta sei andato a inventarti una legge elettorale quasi proporzionale, ma con parte uninominale che premia la coalizione… senza avercene una (pensando a un’alleanza moderata senza contare che il CD avrebbe potuto avere i numeri da solo – e non li ha avuti per quanto di imprevedibile accaduto al Sud). E comunque, oggi chi è più vicino a governare è la coalizione che hai contribuito a cementare (con proporzionale puro almeno questo problema non si poneva). Questi due fattori (scelte di comunicazione e legge elettorale) non spiegando il passaggio da 25 a 19, spiegano perché non ti sei fermato sopra al 20 (dopo scissione e anni di governo con crisi ci poteva anche stare) e perché adesso la situazione sia ingestibile, salvo regali della concorrenza (ma i Calderoli sono molto più scafati delle Boschi o degli Orfini).
Infine, alleanza 5S-PD: tu quoque? Capisco i giornali, le chiacchiere, capisco già meno Emiliano, ma non capisco come persone intelligenti non prendano atto di un fatto aritmetico: un governo 5S nasce se lo votano Renzi ipse, Boschi, Bonini, Madia, Casini e decine di eletti “sceltissimi”. Servono quasi tutti! Proprio questo fatto induce a ritenere che il gruppo parlamentare che ha meno interesse a tornare a votare (contro quello che dici) è il gruppo degli eletti PD*. In un voto tra 6 mesi, chi ha meno probabilità di confermarsi sono proprio gli eletti PD e io credo che questo, a meno di regali da sogno (Salvini che si inchina a Di Maio), peserà. Del resto, in che senso un’alleanza con Berlusconi sarebbe responsabile e una con Zaia vergognosa? Ovunque quelle due forze (Lega e FI) governano insieme, e in Liguria si vede già come potrà essere la destra dopo Berlusconi (cioè una forza senza paraventi liberali, il complemento borghese alla Lega). Se l’idea (e io credo che l’idea maggioritaria tra gli eletti PD sia questa) è prendere tempo, tenere i tuoi uomini a Roma e intanto rafforzare l’alleanza con il CD moderato, ha più senso sostenere un governo di CD o anche di un presidente che guardi “di là”… Certo la conclusione sarebbe un posizionamento del PD più a destra fino a non escludere una futura fuoriuscita dal PSE, ma non mi pare che in caso Ferrara, sintomatico neo-elettore PD (che ai tempi del PD al 30 guidava “Aborto? No grazie”), si straccerebbe le vesti. Vedremo, di sicuro la cosa più improbabile è che il PD, per come è rappresentato in Parlamento non per come lo vorrebbero Spinelli o Pif, voti un governo 5S.
* Ho appena letto l’intervista che Renzi ha sganciato al Corriere. Tra le altre cose, dice che se si andasse subito al voto 5S e Lega sarebbero dimezzati, assurdità significativa: chiaro che andare al voto senza essere prima passati per la prova-governo non farebbe problema né a Lega né a 5S. Il PD invece si presenterebbe ancora più diviso e in caduta, con il fossato a sinistra ancora più profondo (vedi parole su scissionisti ed Emiliano stesso), e quasi di sicuro gli eletti sarebbero “meno renziani”.
Caro Mauro,
ti sei prodotto in un’analisi Lucida e largamente condivisibile.
Qualche dubbio mi rimane sulla tranquillità dei mercati: i cavalli di battaglia di Lega e M5S (flat tax e reddito di cittadinanza, per non parlare dell’abolizione della riforma Fornero) palesano un reale rischio di tenuta per i conti pubblici.
E al “too big to fail” non credo fino in fondo…
Sulla tua breve e istruttiva storia del centro-sinistra e del renzismo (punti 1 e 2), comincio dai due punti di convergenza. Il primo è che tu, giustissimamente, sottolinei che il campo politico italiano non è simmetrico. Il centro-destro è stato ed è più definito, stabile e vincente del centro-sinistra. È una cosa ovvia e banale che però, se si comincia a ragionare in termini di sfascisti/ragionevoli, populisti/moderati, tende a sfuggire. Ed è sfuggita a molti. La seconda è che il momento Renzi (ben detto) sopraggiunge in un PD che è già un partito guidato da vecchi o giovani-vecchi e votato soprattutto da vecchi, costretto ad alleanze (sul piano nazionale) fragili con una sinistra detta radicale piccola ma necessaria. L’uomo nuovo arriva in una situazione di stallo e declino percepito (ma non solo, direi anch’io) come ineluttabile. Segue il 40 (ma con pochi votanti, B. scomparso e alle Europee, non esageriamone il valore) e poi… E poi. Tu dai quella che a me pare una razionalizzazione politica di un processo che è invece reale ma poco razionale, segnato da una serie di azzardi (di Renzi) semplicemente giocati male. Io non vorrei fosse solo questo, ma penso sia solo questo. Penso che le ragioni “profonde”, le “vere” ragioni socio-economiche etc., siano molto meno pregnanti delle ragioni “tattiche” (del tipo esposto nel mio altro commento), almeno per quanto riguarda il PD. L’errore più strategico se vogliamo e grave consiste nel non aver considerato la forza del centro-destra e la necessità di fare i conti, a livello locale, più con il centro-destra che con i 5S, per di più dovendo comunque alimentare alleanze locali a sinistra. Detta brutalmente: nonostante tutto a sinistra il partito ha tenuto abbastanza (vedi i voti di Casini a Bologna), il problema è che hai una faccia ormai sbagliata e un centro-destra che non legge Il Foglio e anche per questo governa Veneto e Lombardia da anni con percentuali (in Veneto) democristiane. Non è poco, ma non c’è altro. Se ci fosse dell’altro non avresti LEU al 3 e PAP all’1… Conclusione, la disfatta di cui parli è in realtà l’accelerazione di un declino che era nelle cose, accelerazione ottenuta “per reazione” con una serie di azzardi (finora) falliti. Ridere, ridere, ridere ancora…
Diciamo la verità: sapevano / sapevate / sapevamo tutti come andava a finire. Vai avanti, cretino (che a me viene da ridere). Dietrologi di tutto il mondo, unitevi!
Apprezzo il tentativo di una analisi equilibrata da parte di Piras ma ne condivido solo in parte le ragioni. Accettare e riproporre, tramite l’infausta Bonino, la cura Monti è stato la principale ragione della sconfitta di un PD (europeo) che in ogni modo ci si chiede come possa governare, non essendo disposto a nessun accordo con i “populismi” di sinistra . Perché le politiche di Monti, come altre europee di tal fatta, sono politiche di classe e, al pari del deficit del 3% per cento, niente affatto dotate dell’autoproclamata scientificità. Da qui, l’assurdità di un partito che vorrebbe essere maggioritario e intellettualmente dinamico quando in realtà si rivolge a colti dogmatici e benestanti, certi che la vittoria debba spettargli di diritto perché loro vanno nel senso della storia (vecchio peccato comunista, a dire il vero). Ecco perché, come dice Emanuel Todd nel suo splendido Après la démocratie, le vere minacce per la democrazia vengano proprio dagli ex partiti socialisti o comunque groscoalizionisti (vedi il molto autoritario Macron), i quali, emanazione più naturale di Bruxelles, conoscono una sola formula di governo socio-economico e stigmatizzano folle e irrazionale tutto ciò che da questa forma si allontani, fosse pure detto da premi nobel. La fuga dalla democrazia si riflette per altro negli elettori – e amici – piddini: “ci vorrebbe una dittatura illuminata, i cretini non dovrebbero votare, ecc.”, tutte frasi che penso abbiate sentito anche voi in questi giorni.
Caro Giovanni,
grazie. Concordo solo in parte con quello che dici. Certo, il governo Monti ha fatto una politica restrittiva. Il governo Renzi ha cercato invece di promuovere la domanda con la spesa pubblica, anche se senza creare ulteriore deficit. Intendevo questo. E’ vero che il problema di recuperare una possibilità di politica economica espansiva è un punto fondamentale per la sinistra, ma la risposta in Europa si trova in una unificazione dei debiti, quindi in una maggiore unificazione politica. Non si trova nel recuperare politiche economiche nazionali. Inoltre, il debito non va demonizzato, ma quello italiano è davvero fuori misura.
Caro Buffagni,
grazie a lei. Il clivage “EU si o no” è presente nella mia analisi nella linea che separa i modelli nazionalisti o “sovranisti” dagli altri. Però non lo sopravvaluto, perché alla fine, nelle politiche reali secondo me non inciderà così tanto. Si guardino i passi piuttosto felpati di Di Maio e Salvini in questi giorni.
Cara Wally,
grazie. Concordo su entrambe le cose che dici. Aggiungo solo che la globalizzazione non è solo disoccupazione e precarietà, una sinistra riformista deve tenerne conto. Come avere consensi su questa base è più difficile.
(continuo appena posso)
Caro Mauro,
una brevissima replica. Breve perché temo che su questo terreno ci divida una distanza siderale. E, soprattutto scambiandoci idee in rete, il rischio di non capirci aumenta a dismisura. In termini macroeconomici “promuovere la domanda con la spesa pubblica, anche se senza creare ulteriore deficit” è una formulazione priva di qualunque significato. Le politiche anticicliche sono politiche che per definizione creano deficit. E’ assolutamente legittimo rivendicare come un valore il rispetto di vincoli di bilancio (imposti o scelti non fa differenza) come pure ritenere prioritario “non creare altro deficit”. Però non è possibile spacciare scelte politiche che si muovono nel rispetto di questo quadro teorico e che abbracciano un universo culturale e persino filosofico antikeynesiano, come azioni che promuovono la domanda aggregata. Qui bisogna scegliere da che parte stare e la continuità fra i governi Monti, Letta e Renzi nel perseguimento di significativi avanzi primari mi sembra chiarisca molto bene da che parte abbia scelto di stare il PD.
I dati sull’avanzo primario (ed anche alcune puntuali analisi) li trovi facilmente in rete, ma uno schema riassuntivo particolarmente chiaro elaborato su dati AMECO lo trovi qui:
https://i1.wp.com/scenarieconomici.it/wp-content/uploads/2018/01/deficit-primario-1.png?ssl=1
Sento il bisogno di ringraziare Giovanni Pellegrini qui sopra, perché anch’io pensavo che la frase “promuovere la domanda con la spesa pubblica, anche se senza creare ulteriore deficit” fosse priva di significato, ma non avrei osato dirlo.
Penso che molti dei “problemi di comunicazione” sofferti dal PD siano dovuti all’adozione di questa neolingua, dove esistono termini privi di senso come “austerità espansiva”, ma manca qualsiasi capacità di affrontare la realtà che sta dietro ai numeri dell’avanzo primario.
” Austerità espansiva ” mi ricorda terribilmente ” convergenze parallele “. A proposito del povero Moro, di cui si parla tanto in questi giorni.