di Federico Bertoni

[Esce in questi giorni per Carocci il nuovo libro di Federico Bertoni, Letteratura. Teorie, metodi, strumenti, un lavoro di sintesi scritto come un saggio di critica culturale, che illustra i concetti essenziali di un sapere prodotto nei secoli dal punto di vista di una determinata persona, in una determinata situazione, all’inizio del XXI secolo. Anticipiamo i primi due paragrafi del primo capitolo, intitolato Letteratura oggi. Ringraziamo l’editore per averci permesso di pubblicarli].

  1. Che ci faccio qui?

Ogni volta che entro in un’aula, mi siedo in cattedra, preparo coscienziosamente appunti, libri e PowerPoint, una domanda irriverente affiora da qualche scantinato della mente e poi sparisce tra i cespugli come il coniglio bianco di Alice: che ci faccio qui? E mentre tento di concentrarmi sull’argomento che sto per spiegare (la genesi del romanzo borghese, la letteratura della Resistenza, le persistenze moderne dell’amore romantico, l’immaginario medievale di Stendhal…), l’alone di inquietudine diffuso da quella creatura sfuggente si condensa in altre domande: perché spiego queste cose? Per quale intreccio di circostanze questi frammenti del mio sapere, ricombinati nella retorica della lezione, hanno qualche rilevanza per la formazione culturale degli studenti? Addirittura per la loro vita? Ha senso cercare un legame tra questi oggetti più o meno remoti e l’orizzonte d’esperienza delle persone che mi stanno di fronte, gli occhi annoiati o attenti, le penne piantate sui quaderni o le dita pronte sul pc? O forse bastano semplicemente a se stessi, sono importanti e basta, e dovete impararli perché ve lo dico io? Chissà se un fisico si fa le stesse domande quando deve spiegare il principio di indeterminazione? Che differenza c’è, sul piano della legittimazione del sapere, tra lo sviluppo del realismo letterario e la distribuzione degli elettroni negli orbitali? Non può essere solo un problema di esattezza dei paradigmi scientifici, tanto è vero che quel collega fisico dovrà spiegare che non è possibile determinare in modo certo e univoco la posizione degli elettroni, ma che dobbiamo accontentarci di ipotizzare, attraverso modelli convenzionali, dove è più probabile che si trovino. Dunque non può essere questo. Ci dev’essere qualcosa in più, un errore di sistema, che non riguarda tanto i saperi in sé ma la loro collocazione nel mondo, nel contesto sociale e culturale in cui ci muoviamo.

Ora che ho deciso addirittura di scrivere un libro, una ricognizione critica sulla teoria della letteratura, queste domande hanno assunto una forma molto più articolata e molesta. Impossibile eluderle, quindi meglio prenderle per le corna dall’inizio. Impossibile descrivere i concetti generali della critica letteraria, illustrare i metodi di analisi dei testi o riaffermare la necessità di una prospettiva teorica senza prima interrogarsi sulla condizione della letteratura oggi, sul suo ruolo nel sistema dei media e dei saperi contemporanei, nella minuscola piega della storia in cui ci troviamo, in un contesto geopolitico, sociale ed economico che è (ancora) uno dei più prosperi, sicuri e garantiti che l’umanità abbia mai conosciuto. È un percorso insidioso e pieno di trappole, ma l’unico che possa scongiurare il rischio di costruire un edificio dottrinale appeso in aria, sterilizzato nel rigore metodologico e nella presunta scientificità di teorie, metodi e strumenti. Per dare senso alle parole bisogna sporcarsi le mani con le cose. Proviamo dunque a mettere tutto in situazione.

  1. Situazione

Il primo dato empirico è la contraddizione, la compresenza di fenomeni apparentemente opposti. Da un lato, l’esperienza letteraria è un fenomeno sempre più marginale e irrilevante, che in mancanza d’altro – magra consolazione – si traveste con un aggettivo dalle risonanze vagamente eroiche, minoritario (nel senso di pochi ma buoni). Connotazioni a parte, la letteratura non conta più nulla: ha ormai perso definitivamente il prestigio di cui godeva fino agli ultimi decenni del Novecento, quella primogenitura culturale e pedagogica che persiste in modo anacronistico solo nei programmi ministeriali e nell’articolazione delle materie scolastiche. Allarmi ricorrenti e apocalittici, supportati dai dati del rapporto periodico Istat, La produzione e la lettura di libri in Italia, proclamano a gran voce che gli italiani leggono poco: i “non lettori” (cioè quelli che non hanno letto nemmeno un libro nei dodici mesi precedenti all’intervista) sono quasi il sessanta per cento, con punte inquietanti nella popolazione maschile (sessantacinque per cento) e in quella del Mezzogiorno (settanta per cento); i “lettori forti” (quelli che leggono almeno un libro al mese) non arrivano al quindici per cento, per non parlare dei lunatici che frequentano regolarmente le biblioteche; in una casa su dieci il libro è un oggetto sconosciuto, e non mancano forme di analfabetismo di ritorno[1].

In questo quadro, gli studiosi e i docenti di letteratura stanno praticando una forma di suicidio assistito, come ha diagnosticato qualche anno fa Mario Lavagetto in un saggio dal titolo sinistro ma azzeccato, Eutanasia della critica. Nel migliore dei casi avvertono lucidamente «il restringersi dell’area di ascolto intorno alle proprie parole e l’irrimediabile perifericità e sussidiarietà del loro lavoro» (Lavagetto, 2005, p. 21). Nel peggiore inseguono trafelate forme di visibilità (sui giornali, alla radio, in televisione, come “opinionisti” o personaggi pubblici), oppure si chiudono in forme di autismo iper-specializzato, scrivono articoli che vengono letti da dieci persone e fingono ancora – in convegni, tavole rotonde, giornate di studi, numeri speciali di riviste – «che ci siano ascoltatori, riconoscimenti, problemi cruciali per cui battersi, interpretazioni da attaccare o da difendere strenuamente» (ibid.). Intanto la letteratura perde terreno anche nell’economia istituzionale e nei rapporti di forza dell’università contemporanea, sempre più regolata da logiche manageriali e da sistemi di governo importati dall’impresa privata (cfr. Bertoni, 2016): il termine stesso scompare dai titoli degli insegnamenti, dei dipartimenti e dei corsi di laurea, spesso rimpiazzato dall’onnipresente (e ormai privo di significato) cultura; gioca malamente il suo agonizzante prestigio contro l’avanzata di materie più tecniche e spendibili, a partire da quelle strettamente linguistiche; e diventa così l’emblema di un sapere improduttivo e ammuffito, non “professionalizzante”, avulso dal fantomatico “mondo del lavoro”, nella convinzione balorda e sempre più diffusa che l’università sia un’agenzia di collocamento o un ente di formazione. Non basterebbe Flaubert per irridere la stupidità di ministri, rettori ed esperti di quality assurance. Che ce ne facciamo di Shakespeare e Proust in un mondo come questo? Come si può misurare, valutare, monitorare l’apprendimento di un sapere così volatile e imprendibile, disseminato in miliardi e miliardi di parole? Come possiamo insegnare la lentezza, la solitudine, il silenzio, il raccoglimento necessari per sfogliare tutte queste pagine a gente che vive in un mondo frenetico e iperconnesso, gremito di immagini e schermi, avvolto in una bolla sempre più densa di “rumore bianco”? Non ne faremo dei disadattati? Li manderemo alla concorrenza coi cinesi brandendo i libri come scudi? Li lasceremo sbeffeggiare da qualche cialtrone che li inviterà a farsi un panino con la Divina Commedia? Davvero, non basterebbe Flaubert…

D’altra parte, ci sono segnali che vanno esattamente nella direzione opposta e che testimoniano di una vitalità senza precedenti della letteratura. La stessa riflessione di Lavagetto in Eutanasia della critica prendeva le mosse da un fenomeno dirompente che in quegli anni ha portato molti libri nelle case degli italiani, quello dei “classici” o dei “capolavori” allegati ai quotidiani, con dati di vendita impressionanti (circa 75 milioni di copie nel 2004 e nel 2005). Che cosa sia avvenuto poi di quei libri, se siano stati effettivamente letti, malamente sfogliati o solo esibiti in salotto come «una sorta di blasone culturale» (Lavagetto, 2005, p. 13) è questione molto più delicata e complessa, ma intanto il dato sociologico è acquisito: «in molte case probabilmente prive di vere e proprie biblioteche, grazie alle vendite congiunte ha potuto costituirsi una collezione di base di libri fondamentali», rintracciati attraverso canali alternativi alle librerie e fuori dalla sfera di influenza della critica letteraria tradizionale (Brevini, 2008, p. 102).

Anche altri fenomeni dimostrano come la letteratura sia molto più trendy di quanto si pensi abitualmente: le scuole di scrittura creativa, i romanzi sfornati dai personaggi “famosi” (cantanti, attori, giornalisti, sportivi, blogger, conduttori tv), gli “eventi” pubblici che implicano logiche di marketing, spettacolarizzazione e gestione accorta dei media vecchi e nuovi – saloni del libro, festival di letteratura, presentazioni, premi letterari, monologhi televisivi (qualche anno fa Roberto Saviano, o ancor più Roberto Benigni con le letture dantesche, plauso trasversale e ascolti alle stelle). Anche i dati poco incoraggianti sulla diffusione della lettura in Italia sembrano contraddetti dal gran numero di editori (più di 1.600), di libri pubblicati (circa 60 mila all’anno) e di copie stampate (circa 250 milioni), tra l’altro sempre nella tradizionale forma cartacea, visto che la tanto paventata minaccia dell’e-book ha finora conquistato quote di mercato piuttosto ridotte. Esiste insomma anche un’Italia che legge, come nel titolo di un saggio di Giovanni Solimine che dimostra come il libro rimanga tuttora «il principale consumo culturale degli italiani», superiore per fatturato al mercato della stampa quotidiana e periodica, dell’home video, della musica, del cinema, del teatro, di mostre e musei (Solimine, 2010, p. 85). In generale, grazie all’alfabetizzazione di massa e alle nuove tecnologie della comunicazione, siamo di fronte a una diffusione senza precedenti della letteratura, supportata dal fatto banale ma incontestabile che «mai nella storia dell’umanità si è letto quanto oggi» (Schaeffer, 2014, p. 11). Perché allora tanti intellettuali lanciano proclami allarmati sul “genocidio culturale”, una vecchia categoria di Pier Paolo Pasolini ancora molto vitale? Perché noi insegnanti di materie letterarie abbiamo la sensazione che i presupposti del nostro sapere ci si stiano sgretolando tra le mani?

Dal punto di vista emotivo, queste contraddizioni tendono a polarizzarsi in due sentimenti apparentemente contrapposti ma in realtà complementari, uno specchio dell’altro. Da un lato un sentimento malinconico e luttuoso, plasmato dal mito della crisi e dal senso della fine, di chi assiste impotente al tramonto della civiltà e all’avanzata dei barbari, aggrappato a polverosi feticci culturali che verranno spazzati via da saperi pratici e tecnici, misurabili, produttori di reddito, decisamente molto più adatti a “stare sul mercato”. Dall’altro un senso di superiorità e di alterigia intellettuale, l’idea di essere i custodi dei massimi monumenti della civiltà umana, tutelati da quella priorità che la cultura letteraria, specchio e strumento dell’identità nazionale, ha saputo guadagnare nei moderni stati borghesi e nei loro sistemi educativi (cfr. par. ii.3). Sono due facce della stessa medaglia, due posture mentali altrettanto sterili e incapaci di interpretare le trasformazioni del mondo in cui viviamo.

Più in profondità, si è aperta una faglia potenzialmente catastrofica tra una rappresentazione immaginaria, prettamente ideologica, e le reali condizioni di esistenza della letteratura nel sistema culturale contemporaneo. Persiste cioè ancora (tra studiosi, intellettuali, insegnanti, ma anche in una porzione consistente del senso comune) una concezione tradizionale che valorizza il tratto sublime della letteratura, la sua “purezza”, la natura disinteressata, l’autonomia rispetto a logiche materiali e mercantili, ma in un quadro storico e socio-economico in cui la letteratura è parte integrante del sistema, «una variabile del processo di valorizzazione del capitale cognitivo globale» (Olivieri, 2014, p. 307). In altri termini, si è esaurita o radicalmente trasformata una certa idea di letteratura che ha accompagnato il cammino della modernità, e che ormai ha poca ragione di essere. È anzi sorprendente che quell’idea continui in qualche modo a sopravvivere, pur in forme nostalgiche e residuali, di fronte a cambiamenti radicali che hanno modificato i nostri modi di vivere, pensare, percepire ed esperire il mondo. Quel che ci manca, come notava Remo Ceserani già nel 1999,

è un’analisi attenta degli effetti che sulla produzione letteraria, sull’insegnamento della letteratura nella scuola e nell’università, sulla ricerca critica e sull’attività militante stanno avendo le grandi trasformazioni economiche e sociali del paese e del mondo (Ceserani, 1999, p. xviii).

La riprova empirica è quell’effetto di sordità generazionale che molti denunciano, la sensazione di non avere più un codice comune per dialogare, come nelle tipiche lamentele dei docenti: gli studenti sono ignoranti, non hanno basi, sbagliano i congiuntivi, non conoscono i classici, non hanno mai sentito nominare Pietro Bembo e dove andremo a finire, signora mia? Ma ridurre tutto a un problema pedagogico e disciplinare (gli studenti devono leggere e studiare di più, come facevamo “noi”) significa solo spostare il problema, crearsi degli alibi, fraintendere il senso di enormi trasformazioni strutturali e culturali che hanno cambiato lo statuto, il ruolo e la funzione sociale dell’educazione letteraria. Come ha scritto in modo un po’ provocatorio Raul Mordenti da una generazione precedente alla mia, «tra Francesco Petrarca e Francesco De Sanctis […] esisteva minore distanza culturale di quanta ne esista oggi fra uno di noi (che si sia formato negli anni Sessanta-Settanta del Novecento) e un nostro studente» (Mordenti, 2013, p. 102). Se sono cambiati gli studenti è perché sono cambiate le tecnologie, le enciclopedie, gli orizzonti condivisi, le modalità di relazione, i ritmi di vita, le forme della percezione e dell’attenzione, i modelli di sapere e tante altre cose. Se “noi” (ma noi chi?) siamo cresciuti in un habitat che implicava la lettura di certi libri, l’assimilazione di certi saperi, la condivisione pressoché automatica di certi presupposti, non possiamo stracciarci le vesti se vediamo che non è più così, che quell’habitat è scomparso come il mondo dei dinosauri distrutto dal meteorite (la metafora dell’“estinzione” apre Il grande silenzio, l’Intervista sugli intellettuali di Alberto Asor Rosa, 2010). Del resto è scomparso da un pezzo, e solo attraverso una tenace finzione collettiva (appunto un’ideologia) questa visione armonica delle umane lettere si è trascinata in vita ancora per qualche decennio oltre la sua morte naturale.

Quando sfoglio le pagine dei grandi critici del Novecento – Ernst Robert Curtius, Erich Auerbach, Northrop Frye, Gianfranco Contini, Giacomo Debenedetti – ho la sensazione un po’ straniante e nostalgica di avventurarmi in un mondo perduto, miracolosamente conservato per qualche capriccio della storia, come quando entri nelle case di Pompei o cammini sulla via sacra di Paestum. Capisco cioè che la loro prodigiosa erudizione si basa su una familiarità ovvia, spontanea, indiscutibile con la grande tradizione letteraria, e soprattutto sulla certezza di un’intesa comunicativa immediata con un pubblico di riferimento, una società letteraria, una comunità di lettori che condivide gli stessi valori, saperi e orizzonti culturali. Uno dei capolavori della critica novecentesca, Mimesis di Erich Auerbach (1946), percorre tre millenni di storia culturale europea con l’incrollabile fiducia che i grandi testi della tradizione letteraria ci offrano la chiave migliore per decifrare il senso della condizione umana, il destino dell’uomo nel mondo e nell’accadere storico. Ed è un libro fondato non solo sulla straordinaria intelligenza, cultura e finezza analitica del suo autore, ma anche su un particolare patto di lettura, sulla condivisione automatica di un orizzonte con i destinatari ideali del libro, cioè «tutti coloro – come si legge nelle ultime righe – che hanno custodito puro l’amore per la nostra storia occidentale» (Auerbach, 1956, vol. ii, p. 343). Auerbach confida serenamente nella comprensione partecipe del suo lettore, in un contratto che si stabilisce implicitamente fin dalla prima riga dell’incipit: «I lettori dell’Odissea ricordano la scena ben preparata e commovente del canto XIX, in cui la vecchia dispensiera Euriclea riconosce Ulisse, di cui era stata nutrice, da una ferita alla coscia» (ivi, vol. i, p. 3). Per quanti lettori, oggi, questa innocente presupposizione può essere considerata ovvia – taken for granted, come dicono gli inglesi?


[1] www.istat.it/it/archivio/145294

 

[Immagine: Candida Höfer, Stockholms Stadsbibliotek]

6 thoughts on “Letteratura oggi

  1. Che piacere leggerla, professore, condividendo la convinzione di Auerbach (e, immagino, anche sua) che la letteratura ci offre “la chiave migliore per decifrare il senso della condizione umana”), grazie.

  2. Mi sono proprio riconosciuta nella descrizione dell’insegnante che entrando in classe si chiede il perché della sua presenza e della leggitimità del suo insegnamento! mi sono anche fatta una bella risata ripensandoci! forza. penso che insegnare la letteratura è il più bel mestiere del mondo. grazie per queste prime pagine che danno voglia di scoprire tutto il libro.

  3. “ 9 febbraio 1991 – È difficile spiegare perché abbia comprato la giacca che non volevo compra-re e che ora vedo è assolutamente immettibile. È difficile spiegare perché compri i giornali e mi accinga a non leggerli. È difficile spiegare perché debba spiegarmi quasi tutto. Per esempio che ci faccio qui. Come suona il titolo di quel romanzo di quello scrittore morto giovane di cui ora non ricordo il nome – perché? – ma che ricordo un po’ strano quasi patetico. [1] [1] La giacca l’ho cambiata e lo scrittore si chiama Bruce Chatwin. “.

  4. Avverto in modo chiaro la mancanza di un’intesa comunicativa immediata con interlocutori che ormai non hanno più orizzonti di attesa legati o, comunque, in relazione costruttiva con la dimensione umanistica e con la letteratura in particolare. Nella “Prefazione a Eva”, Verga traduceva l’unanime discredito per l’arte da parte del pubblico borghese, con l’espressione “lusso da scioperati”.
    Ebbene oggi è quanto mai attuale questo svilimento della cultura umanistica, soprattutto a scuola: in tempi di “pensiero computazionale” e ” problem solving”, una poesia a che serve? La scuola delle competenze ha perso il senso del bello.

  5. Credo che Auerbach si rivolgesse a un pubblico che aveva letto i testi (non tutti, s’intende) prima di leggere la sua opera. Questa relazione oggi non sussiste più: si può leggere Auerbach conoscendo a stento alcuni dei testi di cui parla.
    Non è un bene o un male. La differenza a mio avviso è che ai tempi di Auerbach la teoria letteraria ricoprisse il ruolo di “discorso sulla letteratura”, come lo è qualsiasi discorso sul canone letterario. La teoria e la critica letteraria più recenti, invece, almeno dai tempi della psicologia e della semiologia, non ricoprono questo ruolo: sono discorsi a sé – mi si passi il termine (non ne trovo ora uno migliore) – “filosofici”.
    Forse oggi leggiamo Auerbach (ma chi lo legge se non come lettura obbligatoria in un corso universitario o per chi desidererebbe essere occupato – disoccupato? – nell’università?) in un modo diverso da come veniva letto e da come Auerbach voleva essere letto.

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