di Marco D’Eramo

Commettiamo un errore di prospettiva quando scrutiamo la politica della Germania in un’ottica tutta europea. Nel senso che europeo è il terreno di manovra, ma mondiale è la posta in gioco. Lo si può constatare meglio se l’andamento della crisi lo si osserva non da Roma o Parigi (o persino da Londra), bensì da Washington. Gli Stati uniti non hanno infatti dimenticato la mancata adesione tedesca, questa primavera, alla campagna Nato contro la Libia. All’epoca nessuno provò a riflettere su cosa implicasse quel gesto che nel passato sarebbe stato inimmaginabile. È vero che nel 2003 Gerhard Schröder si era dissociato dall’invasione dell’Iraq, ma lo aveva fatto insieme alla Francia, in nome di una posizione comune.

Stavolta invece la Germania di Angela Merkel si smarcava proprio dai suoi partner europei. Quel gesto lasciò trapelare, per la prima volta in modo palese, la nuova assertività della Cancelleria tedesca. Mostrò altresì che le critiche che i responsabili tedeschi da due anni non risparmiavano al capitalismo statunitense, non erano le solite ostentazioni da primo della classe che alza la mano per dire alla maestra che lui lo sapeva già. O almeno non erano solo questo.
Certo, Berlino è stata presa alla sprovvista dalla crisi finanziaria quanto tutte le altre capitali, e lo dimostrano i massicci aiuti di cui necessitarono le banche tedesche a cavallo del 2008-2009. Ma a poco a poco sulla Sprea ci si convinse che la crisi poteva essere sfruttata per conseguire infine quel che, dalla caduta del muro di Berlino (1989), rimane l’obiettivo primario di tutti i cancellieri tedeschi, quale che sia il loro colore politico perché su questo punto l’accordo dell’establishment politico tedesco è totale, e bipartisan. L’obiettivo è la reinserzione a pieno titolo della Germania nel novero delle grandi potenze planetarie, ovvero l’abrogazione totale dell’ordine uscito dalla seconda guerra mondiale e dagli accordi di Potsdam (1945). Infatti, per capire la gestione tedesca dell’attuale crisi cosiddetta «dei debiti sovrani», bisogna tenere a mente che se oggi c’è l’euro è perché nel 1990 François Mitterrand lo pose come condizione per consentire alla riunificazione tedesca: l’euro è cioè l’ultima espressione dell’ordine mondiale post-bellico.

Una Germania unita e sganciata dall’Europa era troppo potente e troppo pericolosa per i suoi vicini. Il presidente francese pensava perciò di imprigionarla in una forzosa solidarietà europea, nella camicia di forza di una moneta comune. Ma che i tedeschi avessero una propria agenda lo si vide fin dai primi anni ’90 dalla fretta (a volte improvvida) con cui Berlino spinse per l’allargamento a est dell’Unione europea, come per crearsi un hinterland con cui bilanciare il resto dell’Europa. Perciò non dimentichiamo mai che l’euro è sentito dalla Germania come l’ultimo diktat derivato dalla sconfitta, come una prigione, cioè proprio quello per cui era stato pensato. Non è difficile perciò immaginare che i tedeschi provino una vera e propria Schadenfreude (termine che meravigliosamente sintetizza la ‘gioia provata per le disavventure altrui’) quando l’euro si ritorce contro chi l’aveva imposto e da camicia di forza della potenza tedesca diventa invece l’arma di punta del suo arsenale economico-finanziario.

Infatti da qualche tempo a Washington si sono convinti che l’aggravarsi della crisi del debito sia stata accolta da Berlino come un’opportunità da sfruttare. Come ha detto un esperto tedesco di un centro studi di Washington al New York Times: «La Germania aveva un interesse o un vantaggio strategico nel lasciare che la crisi nell’Unione europea giungesse alla soglia perché la Francia fosse disposta a quella cessione di sovranità cui il paese aveva sempre resistito». Con la loro forza nell’euro i tedeschi stanno chiarendo che il duopolio franco-tedesco nell’area euro è in realtà un monopolio germanico (incombe però sempre il fatto che la Francia è una potenza nucleare – altro portato della seconda guerra mondiale – mentre la Germania no).

Ma in gioco non è solo la secolare querelle tra Parigi e Berlino, ci sono anche i rapporti con Washington e la spinosa questione del seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza. Lo si vede dalla veemenza con cui gli Usa spingono la Germania ad allentare i cordoni della borsa per salvare l’euro, tanto che perfino un filo americano come Giscard d’Estaing la considera «indebita ingerenza Usa negli affari interni europei». Lo dimostra l’apparentemente infruttuoso «giro delle sette chiese europee» del ministro del Tesoro Usa, Tim Geithner, della settimana scorsa [7 dicembre 2011].

Barack Obama è spinto non solo da ragioni a breve termine: se la crisi dell’euro si acuisce, e se la Germania insiste nello spingere tutto il vecchio continente a draconiane politiche di austerità, il mondo intero si avvia verso una seconda recessione, molto più grave di quella iniziata nel 2008 e allora Obama potrebbe dire addio alla speranza di essere rieletto presidente tra meno di un anno.

La ragione vera è che la Germania sta negoziando un nuovo status internazionale in cambio del salvataggio dell’euro. Lo si evince dalla relativa inerzia con cui si sta muovendo il Fondo monetario internazionale, di cui gli Usa sono azionisti di riferimento (col 17 % delle quote) e che potrebbe sostituirsi alla Germania nell’operazione di salvataggio, ma che è paralizzato appunto dallo scontro sotterraneo che oppone ora Washington a Berlino. Gli Stati uniti stanno infatti valutando se in fin dei conti, piuttosto che consentire alla Germania di stravolgere gli equilibri geopolitici, non sia meno doloroso – ancorché assai costoso – lasciare che l’euro si disintegri.

Come tutti i conflitti di potenza, anche questo dissidio è ammantato da panni ideologici, in questo caso due diverse interpretazioni del capitalismo, con i tedeschi alfieri di una visione industrialista, esportatrice, che contrappongono alla visione delocalizzatrice e finanziaria di Usa e Gran Bretagna.

L’unico guaio è che di questo conflitto rischiamo di farne le spese noi: come durante la guerra fredda le due superpotenze si scontravano attraverso proxi wars, guerre combattute per delega, così nell’epoca della globalizzazione i conflitti geo-economici si scaricano attraverso crisi finanziarie regionali. Negli anni ’90 fu l’area asiatica a fare le spese del regolamento di conti con cui gli Usa spazzarono via le velleità di potenza del Giappone. Oggi possiamo essere noi a pagare lo show-down per voltare definitivamente pagina alla Seconda Guerra mondiale e per equiparare vincitori e vinti.

[Questo articolo è uscito sul «manifesto» del 14 dicembre 2011].

[Immagine: Chicago 2007. Foto di Daniele Balicco].

3 thoughts on “La strategia di Berlino vista da Washington

  1. molto interessante, grazie. comunque, se anche noi, invece di smantellare tutta l`industria che avevamo, avessimo fatto i nostri conti come la Germania, super potenze si, oppure no, saremmo stati capaci di difenderci meglio anche nel mezzo delle guerre geo finanziarie.e questa responsabilita` e` soltanto nostra.

  2. L’analisi mi pare corretta e per la maggior parte condivisibile.
    Il punto però che non dovremmo mai dimenticare è che la crisi è reale, non è una crisi scatenata volontariamente da qualcuno per rimmettere a posto qualcun’altro.
    La cirsi viene giocata dagli stati come un’opportunità, ma stavolta non in veste di protagonisti, ma come personaggi secondari, in quanto questa crisi viene gestita in prima persona dai grossi conglomerati finanziari internazionali senza rispetto alcuno per le autorità statali, e ciò avviene perchè questo stesso establishment finanziario mondiale è alla disperazione, come un animale in gabbia che non sa come uscirne e mena fendenti a destra e manca alla rinfusa. Il sistema bancario globale è infatti, e qui credo che non si possa negare, tecnicamente fallito già da tempo, e quindi questo attivismo serve solo a prolungare il più possibile le cose senza speranza alcuna di superarla effettivamente.
    A me quindi preoccupa tantissimo che i governanti di fronte a una crisi sistemica di tali proporzioni che mira al cuore stesso dell’autorità statale, si balocchino con le loro rese dei conti, coi loro giochetti più o meno importanti.
    Ciò che mi chiedo è cosa faranno questi stessi stati con governi simili o forse del tutto differenti quando il fallimento globale sarà un fatto conclamato, e gli stati che si sono indebitati e/o hanno inflazionato la loro moneta per salvare un sistema bancario non salvabile dovranno fare i conti l’uno con l’altro. Non sarà quasi inevitabile a quel punto, nella difficile contabilità tra nazioni, che la tentazione di regolare le cose con lo strumento bellico prevalga, che si vada a una pluralità di conflitti interstatali armati?

  3. Articolo interessante (del resto D’Eramo è a mio avviso una delle poche teste pensanti in proprio di quel coacervo di correnti politiche in lotta e di veti politici incrociati che oggi ha nome “Manifesto”), che mette a fuoco la complessità (o complicazione) dei fattori in gioco a proposito di euro, Germania e Europa . E’ vero che i tedeschi hanno dovuto inizialmente ingoiare obtorto collo l’euro, ma lo hanno subito giocato a loro favore, essendo un paese manufatturiero, con una rigida politica di deflazione, ossia ottimizzando la produttività e tenendo bassi prezzi e salari. Negli ultimi dieci anni i salari dei tedeschi sono decresciuti del 4 o 6%, a seconda delle fonti, per cui è una bufala il luogo comune che vuole i salari tedeschi maggiori dei nostri: in Germania oggi ci sono 7 milioni di lavoratori – pari al 19% della forza-lavoro, che se la sfangano con mini jobs da 15 ore la settimana e 400 euri netti, e la precarizzazione impazza come o più che da noi: non tutti sono lavoratori strutturati della VW, anzi, ce ne sono sempre di meno. In questo modo le esportazioni tedesche sia verso l’est ma in particolare verso i paesi del sud Europa sono aumentate notevolmente (rispetto al periodo della unificazione), superando di gran lunga i livelli della RFT. E tutto ciò, naturalmente, a spese dei paesi del sud Europa, approfittando della maggiore inflazione di questi paesi e del fatto che l’euro non è nato in un’area valutaria ottimale. Del resto la Bce non è la Federal Reserve né la Banca del Giappone, che possono stampare quanto denaro vogliono (come ha dimostrato il recente audit dei due deputati del Congresso statunitense alla Fed). Ora, questi scompensi strutturali su cui è nato l’euro hanno favorito la Germania, ma la situazione di bengodi parrebbe oggi finire per la Germania che dovrebbe rimboccarsi le maniche e comprare i debiti dei paesi del sud Europa, se vuol mantenere l’euro e con esso la propria supremazia commerciale. A questo punto in Germania ci sono varie tendenze e ipotesi, le quali devono per forza, in ambito di decisioni politiche, tener conto della pancia dell’elettorato tedesco, che non intende togliere le castagne dal fuoco di paesi à la Schettino (anche in Germania pregiudizi e luoghi comuni razzisti su cui ingrassano i locali partiti politici non difettano certo) e continuare a prestare soldi ai sudisti fannulloni (si veda il caso greco e la recente proposta nordista di commissariamento). Per questo la Merkel si sta barcamenando tra l’aumento del fondo salva-stati (che gli stessi “mercati” giudicano insufficiente e hanno già bocciato), le proposte di rivedere gli accordi europei (Maastricht, ecc.) e il pressing sui governi del sud Europa invitandoli a fare come loro (prospettiva assurda, in questa Europa a economie squilibrate, dove chi è più forte vince, e non ci possono essere nello stesso tempo due o più vincitori: in altri termini, è stata proprio la periferia così come è strutturata che ha trainato il nord Europa. Ma non sarebbe facile per la Germania uscire dall’euro e lasciarci in tela di braghe, perché, come ha rilevato l’economista Hans Werner Sinn, il rischio attuale della Germania nei salvataggi del sud europa è stimato in 635 miliardi di euro, ma in caso di disintegrazione della moneta unica ipotizza la somma di 954 miliardi di euro. E di fronte a cifre del genere i politici tedeschi non hanno molti margini di manovra, se non la condivisione del debito europeo e gli euro bond. Comunque, questo scenario di crisi economica internazionale può risolversi con una guerra, E qui sta a mio avviso il pericolo principale oggi, più degli eventuali default degli stati del sud. E l’Iran, che per posizione e importanza geo-strategica non è né l’Irak né la Libia, potrebbe fornire il pretesto, così la guerra diverrebbe mondiale (III o IV che sia). Del resto, l’inasprimento delle sciagurate sanzioni europee potrebbe essere la scintilla. Domanda a latere: ma come hanno fatto paesi come l’Italia che dipendono in molta parte dalle forniture petrolifere iraniane a condividere quelle sanzioni? Si tratta di sicurezza energetica nazionale, non di noccioline. Che i nostri cyborg siano male programmati? Che ci si trovi oramai in balia di tanti Hal 9000?
    (Mi scuso se l’ho fatta tanto lunga)

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