di Roberto Frega
Di recente il dibattito sul populismo si è fatto intenso nella maggioranza dei paesi europei sino a diventare una delle principali categorie di interpretazione della realtà politica contemporanea. Attualmente, partiti classificati come populisti governano o sono comunque ben rappresentati nei parlamenti di numerosi paesi Europei: in Olanda, Paesi Bassi, Norvegia, Francia, Austria, Grecia, Germania, Spagna, Italia, Ungheria, Polonia e Slovacchia i partiti populisti siedono nei parlamenti con percentuali che vanno dal 15 ad oltre il 50%[1]. Molte di queste formazioni politiche sono classificate o classificabili almeno in parte come di sinistra, se per sinistra intendiamo, in modo molto minimale, un orientamento politico caratterizzato dal primato dell’uguaglianza socio-economica. Il fatto che nel dibattito pubblicistico il M5S non sia chiaramente posizionato nello spettro sinistra-destra non costituisce come vedremo un’obiezione a questa classificazione.
Considerato come espressione politica delle moderne democrazie occidentali, il populismo è generalmente identificato ai suoi connotati più grevi: i ‘vaffa’ di Beppe Grillo, il rosario ostentato di Matteo Salvini, i commenti volgari e violenti sui blog dei principali quotidiani online, le posizioni estremiste in tema di immigrazione ed integrazione europea. Tanto nella letteratura scientifica quanto nel dibattito politico, se ne enfatizzano spesso gli aspetti anti-democratici: il rifiuto dei corpi intermedi, la diffidenza verso tutte le élites, il rifiuto del pluralismo, la critica alla stampa indipendente, la riattualizzazione di forme carismatiche di potere, la predilezione per soluzioni semplificate e visioni del mondo manichee, l’insofferenza per ogni forma di mediazione — compresa quella rappresentativa. A sinistra la vittoria del M5S è dunque volentieri interpretata come il trionfo della pancia sulla testa, dell’oscurantismo sulla ragione, delle fake news sulla verità.
Tutto questo naturalmente rinvia ad un fondo di verità che non può essere negato: ritengo che il populismo sia un’istanza potenzialmente nociva per la stabilità delle social-democrazie occidentali. Non è tuttavia su questo che intendo soffermarmi in queste riflessioni. Ma non è nemmeno mia intenzione tessere le lodi del populismo sulla falsariga di autori come Chantal Mouffe o Ernesto Laclau. Mi propongo piuttosto di sviluppare un’interpretazione del populismo di sinistra, e conseguentemente una lettura della politica italiana di oggi, che spieghi perché il populismo sia diventato una presenza ineliminabile, e come i partiti social-democratici possano conviverci in modo più o meno pacifico. Per fare questo è però necessario innanzitutto riconoscerne il significato politico autentico, restando ovviamente molto vigili sulle condizioni — culturali e istituzionali — che sono necessarie per arginarne le pulsioni più pericolose per la stabilità di un regime democratico.
L’obiettivo di questo intervento, sia detto dall’inizio in modo esplicito in modo da evitare qualsiasi malinteso, non è quello di intervenire nel dibattito attuale — apparentemente già concluso — se il PD debba accettare o meno di entrare in una fase negoziale con il M5S. Dal punto di vista che propongo di adottare questa questione è, tutto sommato, irrilevante. La riflessione che propongo riguarda piuttosto l’evoluzione nel medio o lungo termine, poiché in esso ne va della radicale riconfigurazione dello spazio politico nazionale ed europeo. Non tanto il M5S o il PD come sono oggi, ma populismo di sinistra e social-democrazia tra cinque anni.
Populismo di sinistra?
In un libro sul populismo ormai classico[2], Michael Kazin ricorda che durante una fase molto lunga della loro storia, i movimenti socialisti in Europa e negli Stati Uniti hanno utilizzato toni e linguaggi decisamente populisti. Il populismo come stile politico in questo senso non è né nuovo né di destra. E’ antico come la politica democratica moderna, ed è di sinistra. E’ il linguaggio e lo stile con cui le élites politiche di sinistra si sono abitualmente confrontate con il corpo elettorale delle classi disagiate, spesso anticipandone e anche avallandone preferenze ed orientamenti. È noto, ad esempio, che il patto sociale che negli Stati Uniti ha consentito ai sindacati di ottenere condizioni lavorative migliori e di garantire al Partito Democratico un blocco significativo di voti si basava sulla centralità sociale e occupazione del maschio bianco, relegando bisogni e diritti delle donne e dei neri al margine della propria agenda politica[3].
Vorrei dunque suggerire che l’ascesa recente e rapidissima di quello che si può chiamare un populismo di sinistra, e di cui il M5S in Italia, Podemos in Spagna e La France Insoumise in Francia sono la rappresentazione più evidente, deve essere interpretata alla convergenza di tre prospettive teoriche, di cui una politologica, una sociologica, ed una psicologica. La prospettiva politologica rinvia agli studi classici sul populismo come fenomeno ostile alle élites e antipluralista. La prospettiva sociologica insiste sulle conseguenze politiche delle trasformazioni della base sociale su cui i partiti social-democratici hanno tradizionalmente contato, mentre quella psicologica emerge dagli studi più recenti sull’autoritarismo di sinistra
Tutte queste teorie vanno lette a partire da una presa d’atto, generalmente condivisa in letteratura, di quelle che sono le principali linee di evoluzione socio-economiche degli ultimi cinquant’anni. Il netto ridimensionamento della classe operaia ha determinato la frammentazione del blocco sociale tradizionalmente di sinistra, e la formazione conseguente di almeno tre gruppi sociali distinti, caratterizzati da profonde differenze interne: (a) il ceto di cosiddetti ‘nuovi poveri’ o ‘working poors’, che sono esclusi dal patto sociale che aveva permesso alle generazioni precedenti di emanciparsi da condizioni di povertà economica, sociale e culturale; (b) il ceto lavoratore tradizionale, tradizionale riferimento della sinistra, il cui capitale sociale, economico e simbolico è in declino; (c) il nuovo ceto medio ‘liberal’ che più ha beneficiato delle trasformazioni economiche degli ultimi tre decenni.
L’ipotesi di partenza è che nelle condizioni socio-economico-culturali vigenti fino agli anni ‘70 in Europa, un populismo di sinistra non aveva ragione di esistere. Il progetto social-democratico si presentava come al tempo stesso progressista e rivoluzionario, si rivolgeva ad un blocco sociale ampio e omogeneo, e poteva contare su condizioni economiche estremamente favorevoli per mantenere le sue promesse di emancipazione e crescita per tutti.
Il venir meno delle condizioni su cui si basava il suo consenso elettorale, da un lato per il sostanziale completamento del programma social-democratico, dall’altro per lo smantellamento del sistema industriale che dava consistenza sociale alla sua base elettorale, hanno di fatto portato ad uno scollamento tra il discorso riformista e modernizzatore delle élites politiche di sinistra e la situazione sociale, culturale, ed economica dei ceti meno abbienti. È in queste condizioni che la frammentazione sociale tende a tradursi in domande politiche divergenti e spesso in contraddizione tra loro, rispetto alle quali la proposta social-democratica appare insufficiente, obbligando i partiti social-democratici a sempre più forzati ed improbabili tentativi di rincorsa di un elettorato in fuga.
Tre interpretazioni del populismo di sinistra
L’avvento dei populismi è stato interpretato, giustamente, come una risposta politica alle trasformazioni socio-economiche indicate nella sezione precedente. Qui vorrei proporne tre chiavi di lettura.
Populismo e protesta. Gli studi politologici sul populismo vedono nel populismo essenzialmente una forma di protesta verso le élites, considerate responsabili di una situazione socio-economico-culturale ritenuta inaccettabile. Tale protesta tende ad emergere nei momenti di crisi, quando lo stato non sembra più in grado di svolgere i suoi compiti, e le procedure democratiche appaiono come inutili pastoie. Si tratta di una protesta più o meno fondata, non sempre in grado di apprezzare i risultati oggettivi ancorché a volte modesti della politica riformista dei piccoli passi, potenzialmente benefica nella sua capacità di riattivare la volontà popolare. Le élites dei partiti di governo costituiscono il bersaglio privilegiato del populismo.
A questo aspetto è utile aggiungerne un altro, messo in luce dalla decana degli studi sul populismo, Margaret Donovan, secondo la quale la democrazia si ispira a due istanze opposte e complementari, un’istanza ‘salvifica’ ed un’istanza ‘pragmatica’. La prima la riconnette ai movimenti socialista e comunista e promette una radicale palingenesi sociale che risolverà tutti i problemi, mentre la seconda rinvia ad una concezione della politica come metodo pacifico per garantire la coesistenza sociale tra gruppi potenzialmente in conflitto, secondo una visione più propria al riformismo.
Il populismo ‘salvifico’ è dunque l’alter ego della democrazia ‘pragmatica’ dei partiti social-democratici: fustiga il parassitismo delle élites, smaschera i loro conflitti di interesse, le omologa nella notte nera del ‘sono tutti ladri’. Ma accusa i partiti social-democratici anche di essere contrari al cambiamento, succubi dei poteri forti, e in conclusione funzionali alla conservazione sociale.
Populismo e nuove povertà. Gli studi sociologici sulla tarda modernità permettono di correlare più direttamente l’emergere del populismo di sinistra con la trasformazione del corpo sociale e il sostanziale chiudersi del ciclo politico della social-democrazia. Secondo questa ipotesi, la frammentazione del blocco sociale che ha sostenuto i partiti social-democratici durante la seconda metà del ventesimo secolo ha come conseguenza che le due anime della democrazia — populista e riformista — vengono a perdere le determinanti sociali che avevano loro permesso di coesistere: sull’onda lunga della terza via inaugurata da Bill Clinton, ma in realtà già inscritta nel solco ancora più profondo della politica culturale inaugurata negli anni ‘60 con i movimenti per i diritti civili, la sinistra social-democratica si è progressivamente spostata verso la difesa di valori ’liberal’, termine che si riferisce non tanto all’accettazione del sistema di produzione capitalistico, quanto alla nuova attenzione ai diritti civili, all’espressione di sé, alla qualità della vita, all’ambiente. Come è stato osservato, questo ‘spostamento al centro’ riflette l’effettiva emergenza di un nuovo ceto medio culturalmente e socialmente molto diverso dalle classi popolari, ma che si riconosce nei valori social-democratici.
“Essere di sinistra”, a partire dagli anni ‘80-90, ha dunque iniziato a denotare i valori e gli orientamenti di tre gruppi sociali tra loro socialmente, economicamente, ma soprattutto culturalmente distinti[4]. (a) i ’working poors’ che hanno cessato di credere nella promessa social-democratica, (b) il ceto lavoratore tradizionale, le cui attese si formulano ancora nei termini della sinistra novecentesca: dignità del lavoro, stabilità, moderazione delle aspettative di consumo, promessa di migliori aspettative per i propri figli, e (c) il nuovo ceto medio emerso dalle trasformazioni del tardo-capitalismo, impregnato di valori ‘liberal’, cosmopolita, adepto del consumo creativo e alternativo, capace di trasformare la flessibilità e l’incertezza in risorse positive, cui talvolta ci si riferisce come alla “classe creativa”.
Il populismo si affermerebbe dunque come nuova forma di rappresentanza in grado di dare ascolto alla domanda socio-economiche a cui i partiti social-democratici spostati verso la nuova base nel ceto medio hanno smesso di dare risposta[5]. Si tratterebbe, in questo caso, di un populismo di ‘movimento’, destinato a fare emergere una nuova domanda sociale — ad esempio quella delle classi drammaticamente impoverite del sud Italia, e destinato ad istituzionalizzarsi rapidamente in quanto forma di rappresentanza di un nuovo blocco sociale. La Lega Nord all’epoca di Umberto Bossi ha seguito esattamente questo percorso, trasformandosi molto rapidamente da partito di protesta all’urlo di “Roma ladrona” in partito di governo e di amministrazione efficiente e pragmatica del territorio.
Populismo e autoritarismo. Alcuni studi recenti affermano che per meglio comprendere l’orientamento politico è necessario incrociare l’asse economico sinistra-destra con l’asse socio-culturale liberalismo-autoritarismo, ottenendo in tal modo quattro anziché due macro-orientamenti: la sinistra-liberale, la sinistra-autoritaria, la destra-liberale e la destra-autoritaria. Essi convergono nel ritenere che la maggioranza dell’offerta politica si sia sempre concentrata nei due quadranti della sinistra-liberale e della destra-autoritaria. Uno dei quadranti di questa figura dove l’offerta politica è in genere molto bassa o assente è proprio quello dell’autoritarismo di sinistra, che coniuga politiche economiche tradizionalmente di sinistra, ovvero redistributive, basate sull’intervento dello stato, e finalizzate ad egualizzare le condizioni sociali, con politiche sociali e culturali tradizionalmente di destra, ovvero centrate sui valori di legge e ordine, diffidenza verso il diverso, sovranismo.
Secondo uno studio recente[6], almeno il 25% della popolazione italiana in età elettorale ha preferenze politiche di questo tipo. Un altro studio[7] sostiene che in assenza di partiti che rappresentino entrambi i loro sistemi di valori, questi cittadini tendono a privilegiare i partiti a loro contigui sul piano economico, dunque i partiti di sinistra, a meno che particolari condizioni socio-culturali — vedi l’aumento dell’immigrazione — non li portino a prediligere partiti di destra.
Un cittadino i cui orientamenti politici corrispondono all’autoritarismo di sinistra tenderà dunque ad essere in disaccordo con i partiti social-democratici su temi come l’attenzione per i diritti civili e la tolleranza, la giustizia, la protezione del ‘demos’ nazionale, ma anche il primato delle procedure democratiche e l’enfasi sulla mediazione dei corpi intermedi rispetto al ruolo di un potere più autonomo e carismatico. Posto di fronte alla scelta tra populismo di sinistra e social-democrazia, è ragionevole pensare che opterà per il primo anziché per il secondo.
Se queste chiavi di lettura sono corrette, un partito populista di sinistra sembra essere particolarmente adatto per intercettare quegli elettori che rispecchiano uno o più di queste tre caratteristiche: orientamento verso una visione salvifica anziché pragmatica, situazione economica di declino e/o di povertà, rifiuto dei valori ‘liberal’ social-democratici. Questi stessi elettori, per le stesse ragioni, vedono nella social-democrazia un nemico piuttosto che un alleato. Si tratta, a ben vedere, di un elettorato potenzialmente molto ampio.
Implicazioni
Queste tre interpretazioni lasciano aperte tre possibili letture della disfatta politica dei partiti social-democratici. Da un lato, quella che vede l’emergere del populismo come conseguenza dell’esaurirsi della spinta progressista del modello novecentesco di stato sociale, e della ricerca di nuove utopie. Dall’altro, quella che l’attribuisce al progressivo ri-orientarsi dei partiti social-democratici dalle classi popolari verso il nuovo ceto medio, con il conseguente affermarsi, alla loro ‘sinistra’, di nuove forze capaci di dare rappresentanza a quella parte di elettorato che non si sente più rappresentata dai partiti social-democratici. La terza sottolineerebbe invece che l’affermarsi del populismo di sinistra fornisce per la prima volta rappresentazione ad una parte di elettorato che coniuga valori economici di sinistra e valori socio-culturali di destra.
Non è chiaro fino a che punto il M5S possa essere visto come l’incarnazione di un’istanza di redenzione, ma certamente va in questa direzione la sua ossessione a favore di una classe politica ‘pura’ e la pretesa di avere pronte soluzioni facili a problemi difficili. Riguardo all’interpretazione sociologica, il risultato molto negativo di LEU alle ultime elezioni e il successo del M5S soprattutto presso i ceti più svantaggiati conferma che una sinistra-sinistra è in grado di rispondere al massimo alle aspettative di ciò che resta del ceto lavoratore tradizionale, difficilmente a quelle dei ‘working poors’. Quanto al terzo punto, un’indagine recente conferma che la maggioranza degli elettori M5S coniuga effettivamente preferenze economiche di sinistra con preferenze socio-culturali di destra[8]. Inclassificabili se posizionati solo sull’asse destra-sinistra, gli elettori del M5S diventano molto più comprensibili se posti nel quadrante politico menzionato sopra.
Probabilmente nessuna di queste tre interpretazioni, presa da sola, conduce a risultati univoci. Le cose però cambiano se le consideriamo come complementari. Il populismo di sinistra incarnerebbe al tempo stesso una dimensione ‘salvifica’, una dimensione ‘movimentista’, ed una dimensione ‘autoritaria’, l’una più o meno strettamente legata all’altra: portatore di una visione moralizzatrice e palingenetica della politica nel suo insieme, rappresentante di interessi di un corpo sociale specifico, espressione di un determinato tipo di personalità.
In prospettiva politologica, la coesistenza forzata dell’istanza salvifica con quella pragmatica mette in tensione un riformismo ritenuto insufficiente e un radicalismo ritenuto illusorio. Si tratta delle accuse reciproche che partiti social-democratici e populisti si scambiano regolarmente.
In prospettiva sociologica, la divisione del corpo sociale in due ceti, l’uno popolare e l’altro medio, ugualmente di sinistra, la divergenza tra aspettative, linguaggi, bisogni dei due gruppi sociali porta anch’essa all’interno dei partiti social-democratici tensioni profonde, di cui i cinque anni di conflitto feroce tra maggioranza e minoranza interne al PD non sono che un’anticipazione.
Se infine partiamo dalla visione psicologica, la tensione tra stili di leadership e modelli di democrazia ha analogamente prodotto conflitti che il vecchio PCI aveva potuto contenere soltanto perché sino al 1989 un certo autoritarismo era considerato consustanziale alla sinistra. Basta osservare le critiche interne mosse alla leadership di Matteo Renzi per comprendere a qual punto le due anime siano in tensione.
Le implicazioni politiche delle tre interpretazioni vanno tutte nella stessa direzione, che è quella di portare i partiti social-democratici in una situazione di insostenibile tensione interna e di stallo. E in effetti, nel tentativo di rispondere a questa sfida il PD si è prima spaccato ed ha poi subito la peggiore sconfitta elettorale della sua storia, il PSOE spagnolo ha conosciuto una disfatta politica di proporzioni analoghe, il Parti Socialiste francese ne è stato quasi annientato, mentre il partito social-democratico tedesco resiste in una politica di compromesso solo al prezzo di un’emorragia di voti che l’ha già declassato a terza forza politica nel paese, e questo in circostanze economiche ben più favorevoli. Uno tsunami politico che si è prodotto nel giro di cinque anni.
Le sfide per la politica che viene
Le implicazioni di questa diagnosi per la politica italiana ed europea di medio termine sono a mio avviso potenzialmente dirompenti. Se infatti partiamo dall’idea, difficilmente contestabile, che una coalizione politica capace di creare un nuovo patto sociale deve saper dare rappresentanza a un corpo sociale fratturato lungo queste tre linee di divisione, ne conseguono per il PD tre possibili strategie politiche.
La prima strategia, perseguita in modo lucido e sistematico da Matteo Renzi negli ultimi anni, consiste nel trasformare il PD in un partito in grado di parlare a tutto lo spettro elettorale, grazie all’adozione di politiche socio-culturali più vicine ai “left-authoritarians” — vedi le politiche sulla sicurezza e sull’immigrazione, o di temi populisti come l’abolizione del contributo ai partiti[9]. Renzi è riuscito a portare il PD oltre la soglia del 40% proprio perché, ancorché soltanto per un breve periodo, è riuscito a coniugare politica progressista social-democratica e politica populista. Questa strategia si è però rivelata fallimentare, per ragioni diverse, tra cui un ruolo decisivo spetta alla cultura della classe dirigente del PD, del tutto refrattaria ad un simile progetto perché ancorata ad una visione tradizionale della politica social-democratica, e ad una visione obsoleta della società italiana (e più in generale Europea).
La seconda strategia consiste nella rifondazione di un nuovo centro-sinistra sul modello dell’Ulivo, fondato sull’alleanza tra un partito riformista-moderato, il PD, ed una sinistra-sinistra capace di raccogliere il voto di quelli che, con un tono lirico d’altri tempi, Pierluigi Bersani continua a chiamare ‘la nostra gente’. Questa strategia tende a fallire per almeno tre ragioni. La prima è che essa esprime una cultura politica incompatibile con le istanze salvifiche del populismo: il programma social-democratico ha in gran parte realizzato le sue promesse, ancorché in modo incompleto, venendo in tal modo a perdere il significato evocativo di scelta di cambiamento radicale, se non rivoluzionario. La seconda è che difficilmente esso saprà riconciliare la domanda liberal dei nuovi ceti medi con la domanda tradizionale delle classi popolari. La terza è che il suo DNA politico è estraneo e incompatibile con i valori sociali e culturali conservatori cari ai “left-authoritarians”.
La terza e più rischiosa strategia è quella dell’alleanza populista. Essa parte dalla constatazione che stante le tre fratture del corpo elettorale indicate, un partito social-democratico non può più sperare di attrarre il 40% e oltre di voti, poiché una parte crescente della popolazione è sorda al messaggio del riformismo e della social-democrazia, vuoi perché alla ricerca di una visione politica ‘salvifica’, vuoi perché facente parte di quella parte di popolazione che negli ultimi tre decenni ha visto il proprio capitale sociale, economico, ma soprattutto simbolico-culturale erodersi, e non ha dunque più nulla da aspettarsi da questo progetto. Vuoi anche, come osservato, perché ritiene che eguaglianza sociale ed economica e diritti civili siano due set di valori disgiunti.
Questa soluzione avrebbe il vantaggio innegabile di consentire ai partiti social-democratici di continuare a promuovere i valori in cui essi si riconoscono, senza l’affanno di dover rincorrere elettori la cui condizione sociale, economica, e culturale li ha per ora alienati dal progetto social-democratico[10]. Si tratterebbe di una divisione del lavoro simile a quella che Forza Italia e Lega perseguono in modo sistematico dall’inizio della Seconda Repubblica, e che conta diversi casi di successo a livello Europeo
Conclusioni
E’ dunque plausibile immaginare che a medio termine l’alleanza tra un partito populista di sinistra e un partito social-democratico, verosimilmente M5S e PD nel caso dell’Italia, entrambi trasformati dalla presa di consapevolezza che il mondo di oggi è profondamente mutato, e che né l’uno né l’altro può governare da solo, costituisca la sola opportunità di riportare il riformismo social-democratico al governo. Questo, vorrei precisare, non per ragioni tatticistiche, ma perché i loro stili di comunicazione e il loro modo di aggregare consenso costituiscono i due poli complementari della politica: salvifico, movimentista e filo-autoritario l’uno, pragmatico, istituzionalista e democratico l’altro.
Pancia e ragione, immediatezza e mediazione, democrazia diretta e democrazia rappresentativa, populismo e liberalismo sono i due volti speculari della democrazia, perché incarnano due dimensioni fondamentali della natura umana e dell’azione collettiva. Visto in questa luce, il populismo è l’ombra della democrazia, nel duplice significato di alter-ego e di inquietante minaccia.
In conclusione, non è guardando indietro alle proprie origini — nel socialismo, nel riformismo, nell’Ulivo — che la social-democrazia potrà ritrovare la propria centralità politica, ma solo in una rinnovata rilettura della realtà sociale e politica, e nell’accettazione che nuove dinamiche sociali hanno dato forma e richiedono nuove forme di rappresentanza. Le due strategie indicate più in alto — il partito della nazione e l’alleanza con forze populiste — richiedono, entrambe, un ripensamento profondo e radicale del significato del progetto novecentesco della social-democrazia e del concetto stesso di sinistra. Come avrebbe detto Friederich Nietzsche, per ritrovarsi il PD dovrà avere avuto prima il coraggio di perdersi. Ripensare e reintegrare il renzismo dovrà essere la prima, necessaria, tappa di un percorso che sarà lungo e complesso.
[Questo contributo è nato da una conversazione familiare con mia moglie e i miei cognati, sopra, dentro, ed attorno alle macerie della sinistra. Le fratture attraversano gli affetti, ma sono a volte produttive. Voglio innanzitutto ringraziare alcuni dei miei lettori più fidati e (perché) critici: Matteo Santarelli, Tullio Viola e Federico Zuolo. Un ringraziamento particolare va a Barbara Carnevali che ha subito accolto la mia proposta di pubblicazione, e a Daniele Balicco per i suoi commenti preziosi]
[1]. Cit. I. Diamanti, M. Lazar, Popolocrazia, Laterza, Bari-Roma, 2018.
[2]. M. Kazin, The populist persuasion, Cornell University Press, Cornell, 1995.
[3]. Si veda J. Cowie, Stayin’ Alive: The 1970s and the Last Days of the Working Class,The New Press, New York, 2010.
[4]. Un’analisi sociologica molto convincente e dettagliata di questo fenomeno è proposta da A. Reckwitz, Die Gesellschaft der Singularitäten: Zum Strukturwandel der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt, 2017. Per una riflessione simile applicata alle ultime elezioni americane, vedi J. Williams, White working class, Harvard Press, Cambridge, Ma., 2017.
[5]. Una conferma empirica per l’Italia viene dai risultati di quest’indagine del CISE: https://cise.luiss.it/cise/2018/03/06/il-ritorno-del-voto-di-classe-ma-al-contrario-ovvero-se-il-pd-e-il-partito-delle-elite/
[6]. Lefkofridi, M. Wagner, and J. Willmann (2014), “Left-authoritarians and policy representation in western europe: Electoral choice across ideological dimensions”, West European Politics, 37(1):65–90.
[7]. C. M. Federico, E. L. Fisher, and G. Deason, (2017), “The authoritarian left withdraws from politics: Ideological asymmetry in the relationship between authoritarianism and political engagement”, The Journal of Politics, 79(3):1010–1023.
[8]. https://cise.luiss.it/cise/2018/03/08/gli-elettori-m5s-pd-e-lega-e-le-possibili-coalizioni-uniti-e-divisi-da-economia-immigrati-europa/
[9]. Ci aveva già provato in modo embrionale Walter Veltroni nel 2008 con una politica poi definita in modo veritiero ma sprezzante del “ma anche”, immortalata dalla satira di Crozza.
[10]. Una quarta soluzione, che al momento appare difficilmente percorribile, sarebbe ovviamente quella di un nuovo partito a guida renziana che si contenda con il M5S il ruolo di partito populista, tendendo dunque ad una coalizione PD-PdR. Sul piano teorico essa non rappresenta che una variante della terza.
[Immagine: Spencer Tunick, Ring].
La separazione tra PD e poveri è economica prima di essere politica. La prima frattura spiega la seconda. L’avanzata di Calenda mostra bene che non saranno le sconfitte elettorali a far invertire la marcia. Il PD è espressione di poteri troppo forti perché possa eclissarsi, cambiasse pure nome e scendesse al 10%, seguendo il destino economico degli happy few che lo votano (vedi analisi di Picketty). Tra l’altro molti dei suoi elettori, come quelli di Macron, sono over 60, ossia persone che abbracciano il nuovo dopo aver ben approfittato del vecchio. Che un tale soggetto politico si rarefaccia alle sue vere dimensioni di rappresentanza sociale mi sembra un segno di trasparenza da accogliere con gioia.
Articolo molto interessante. Soprattutto perché descrive con lucidità le ragioni del successo trentennale del centrodestra italiano. L’alleanza perseguita con intelligenza fra ragione populista (LEGA) e pragmatismo liberale (FI) ha infatti anticipato – e dunque guidato – la metamorfosi del contesto politico italiano con un vantaggio di quasi trent’anni. Resta tuttavia aperta una questione importante: l’euro. Qui, credo, vada trovata una delle cause dell’emergere della nuova ragione populista. Le classi dirigenti “pragmatiche” tanto socialiste, quanto popolari, hanno aderito e poi imposto un progetto di unificazione europea di tipo monetario e non politico; con tutte le distorsioni che questa scelta ha poi determinato. Vale a dire, l’aver dato vita ad un sistema economico che compensa le proprie rigidità scaricandole di fatto quasi su un unico fattore: il lavoro. Anni di deflazione salariale imposte a tutta Europa, a partire dalla Germania della commissione Hartz, hanno tolto al lavoro una rappresentaza politica reale. Il populismo occupa questo vuoto. In modo più o meno cosciente. Nel caso italiano, più cosciente per quanto riguarda la Lega, a giudicare dal valore dei suoi economisti organici – Bagnai e Borghi; molto meno per quanto riguarda il movimento 5S. Non è detto, se vale questa lettura, che per una convergenza di interessi non sia possibile all’orizzonte un’alleanza fra queste due forze populiste in chiave apertamente anti-sistemica. Per questa ragione, quello che accadrà in Italia nei prossimi giorni sarà molto interessante.
La questione dell’euro è spinosa, perché nelle ultime dichiarazioni il M5S si è mostrato molto più possibilista, o quantomeno ondivago, al solito. Certo è vero che la scommessa fatta negli anni ’90 da molti governi di centro-sinistra di cavalcare la globalizzazione per contrastare il declino, in assenza di politiche redistributive magari ha prodotto crescita (vedi UK e Germania), ma al prezzo di sperequazioni gigantesche. C’è poi la questione della diseguaglianza territoriale, e non solo da noi. La letteratura mette in luce che fenomeni come quello del M5S al sud caratterizzano anche le zone più depresse di Francia, Germania e Stati Uniti. A votare massicciamente a favore dei populisti, più che i poveri urbani, sono gli abitanti delle zone rurali depresse.
La mia impressione è che nessuno abbia veramente idea di come si possano risolvere questi problemi. La letteratura sui fallimenti delle strategie di sviluppo per le zone in declino è sconfortante.
Il paradosso è che la strada maestra per aumentare la distribuzione passa per politiche europee in grado di imporre un controllo sui capitali e ridurre la competizione fiscale tra stati, esattamente ciò a cui i partiti populisti si oppongono, almeno a parole. Quanto all’uscita dall’euro, sanno perfettamente che i costi sopravanzano di molto i benefici.
E’ il lavoro (e quindi l’occupazione piena del lavoratore) il vero nodo che spiega, almeno in parte, le attuali buone affermazioni politiche del “populismo”. E sono, per riferirmi al commento soprastante di Balicco, le 4 “riforme Hartz” tedesche fatte durante il governo socialdemocratico di Schroeder (en passant, è stata spesso la socialdemocrazia europea a fare il lavoro sporco sul lavoro e occupazione) 2003-2005, lo snodo della flessibilità lavorativa e della deflazione salariale che ha portato in Germania ai mini-jobs e in Italia al jobs act. Su tali nodi e snodi il populismo è prosperato. Per cui, riferendomi alla sagezza populista… pardon, popolare, dei proverbi, direi: chi è causa del suo mal… E un augurio: PD? RIP
Renzi quel famoso 40% lo aveva ottenuto alle elezioni europee, cioè per definizione le consultazioni meno rappresentative e più inconsistenti, visto che servono da sempre a nominare un’istituzione di cartapesta. Dopo di che si è guardato saggiamente dal rimettersi alla prova. In compenso, sbandierando come una investitura questo risultato fragilissimo, ha dilagato per anni, imponendo all’elettorato una serie di innovazioni non richieste e non gradite, la cui utilità rimaneva indimostrata, esibendo la più totale indifferenza ai chiarissimi segnali di repulsione mostrati ogni volta che (si trattase della cosiddetta Buona Scuola o della riforma costituzionale) si chiedeva la conferma ufficiale di queste stesse innovazioni. Dire che Renzi sia andato a picco perché i responsabili del suo partito hanno una mentalità arretrata, e non perché non gli è mai riuscito (nonostante un’artiglieria mediatica assordante) di risultare credibile agli occhi dei votanti, è mistificatorio. Ed è, temo, solo l’ennesima dimostrazione che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere, né peggior sordo di chi non vuol sentire, neanche quando i dati di fatto sono difficilmente controvertibili.
Non è detto, se vale questa lettura, che per una convergenza di interessi non sia possibile all’orizzonte un’alleanza fra queste due forze populiste in chiave apertamente anti-sistemica. Per questa ragione, quello che accadrà in Italia nei prossimi giorni sarà molto interessante.” (Balicco)
Sicuro che queste “due forze populiste” opereranno “in chiave apertamente anti-sistemica”? Io ne dubito. Altri, sicuramente più informati di me, pure.
Ho sotto mano questo giudizio (anche se riguarda soltanto il M5S):
“Politicamente la loro ricetta è ispirata a un social-liberismo, condito da un rinnovato moderatismo politico, che non deve mancare mai in un paese come l’Italia. E’ un’immagine sideralmente lontana da quella di chi si attarda ancora a descrivere questo movimento come “populista”, concetto inteso come sinonimo di “estremismo”. Va detto che “populismo” può essere coniugato anche con “moderatismo”. Il concetto è per definizione privo di contenuto. Per questo è adattabile a destra e a sinistra, agli anti-sistema come ai pro-sistema. Renzi, che per un breve e infausto periodo, è stato a cuore dell’establishment altro non era che un populista opportunista.”
(da Capire il 32% del Movimento Cinque Stelle
di Roberto Ciccarelli https://ilmanifesto.it/storia/capire-il-32-del-movimento-cinque-stelle/)
Io continuo a pensare che l’economia non spieghi tutto. Per almeno tre ragioni.
La prima è che i governi Renzi-Gentiloni hanno oggettivamente introdotto misure importanti. Penso non solo ai famosi 80 euro (che comunque non sono pochi per chi ne guadagna 1000). Ma soprattutto all’introduzione del reddito di inclusione, che è la prima misura universalistica mai introdotto nel nostro paese, o all’estensione del reddito di disoccupazione. Le tutele si sono oggettivamente estese proprio per i più deboli.
La seconda è che il PD ha perso valanghe di voti nel nord-est, dove l’economia è in crescita e la disoccupazione cala. La terza è che se davvero il problema fosse solo economico, allore LEU avrebbe dovuto ottenere un successo molto maggiore, come del resto molti si aspettavano.
Poi non confonderei mini-jobs e jobs-act: i mini jobs sono forme di precariato sotto-pagato, mentre il perno del jobs-act è il contratto a tutele crescenti. Che poi abbia funzionato il giusto è un’altra questione. Ma l’idea di fondo è completamente diversa.
“ Gli occhi dei votanti “, dice Jacopo. Io preferirei dire “ gli occhiali “. Cfr. il diario che dice: “ 1 gennaio 1990 – « “ Ma lei non sogna mai a occhi aperti? “ “ No, io porto gli occhiali “ » (Potter, Helzapoppin, 1941) “.
“Poi non confonderei mini-jobs e jobs-act: i mini jobs sono forme di precariato sotto-pagato, mentre il perno del jobs-act è il contratto a tutele crescenti. Che poi abbia funzionato il giusto è un’altra questione. Ma l’idea di fondo è completamente diversa.” (Frega)
Ma i disoccupati o i precari le hanno viste col binocolo queste “tutele crescenti”. Questa è *la questione*. Perché eluderla?
Una riflessione che mantiene equilibrio e obiettività non comuni.
L’unico aspetto che vedo sempre sottovalutato, talvolta con sufficienza, da tutti i commentatori, inclini a stigmatizzare come populismo ogni manifestazione avversa al sistema, è quello della deriva morale di questo Paese.
In questo caso, non credo possa parlarsi dei visione salvifica, ma di condizione imprescindibile per ricucire un rapporto di fiducia.
Non si tratta di sostituire una razza di ladri e malfattori con una classe di duri e puri, ma di creare e sostenere una cultura della legalità, della opportunità politica, della correttezza e, direi, dell’esempio istituzionale.
Per coltivare e mantenere un rapporto di fiducia con chiunque, non è e non può essere sufficiente il rispetto delle norme penali, occorre un sistema di “autodiagnosi e pulizia”, nell’era della tecnologia. Un’era nella quale alla velocità della notizia deve corrispondere la velocità dell’azione. Per cui, ogni esitazione, rispetto alla rimozione di chi si è macchiato di una data colpa, viene percepita come protezione del potere o di una elite. E non si può tacciare come giustizialismo o manicheismo qualunque critica a questo stato di cose. Se il PD avesse inseguito il M5S sul piano della ricerca della dignità e correttezza, non solo non avrebbe perso, ma avrebbe seriamente incrinato il suo unico vero pilastro. Parlo di quello zoccolo duro di elettorato che oscilla tra il 20 e il 25%. Io ne sono parte.
Grazie.
@ Davide I.
In realtà Canovan quando parla di atteggiamento salvifico non lo intende in modo critico. Il riferimento canonico sono anzi i partiti socialisti e comunisti, con la loro visione rivoluzionaria, anche palingenetica di una società radicalmente nuova, e della politica come l’agente che ne persegue il disegno.
Il punto è che per molte persone la politica ha a che fare con un progetto ‘salvifico’ o emancipatore di questo tipo, e a me pare che la social-democrazia non sia più in grado di trasmettere questo afflato. Del resto, riformismo e rivoluzione sono sempre stati in conflitto, anche e soprattutto in seno alla sinistra.
E’ anche per questo, mi pare, che l’alleanza con il populismo di sinistra diventa ineludibile se si vuol riportare il 20-25% al governo.
Sulla questione giustizia sono del tutto d’accordo. Il punto che volevo sottolineare è piuttosto l’inflessione iperbolica che iil M5S, come molti movimenti populisti, danno a questo tema, caricandolo di un odio verso tutte le élites che è, appunto, tipico dei movimenti populisti, che abitualmente sostituiscono le polarità ‘partigiane’ tipiche della politica classica — destra vs. sinistra per capirci — con l’opposizione popolo vs. élites.
Su questo punto la letteratura mi pare univoca: è anzi il tratto identificativo dei populismi su cui sono praticamente tutti d’accordo, e su questo il M5S non fa eccezione: imposizione del vincolo di mandato, divieto di candidare cittadini che hanno avuto esperienza politica in altri partiti, politica altamente simbolica sul tema dei rimborsi, pratica sistematica dell’espulsione per mantenere puro il movimento, rifiuto di dichiararsi partito, ecc..
Poi la pratica politica è ovviamente un’altra cosa, Grillo lo ha ricordato ancora un paio di giorni fa in un’intervista a Repubblica. Ma mi pare che sul principio questo rabbia scatenata contro le élites, che per carità, hanno tutti i loro difetti, abbia di fatto preso il posto di quell’afflato rivoluzionario che in altri tempi colmava il bisogno ‘salvifico’: più che l’utopia internettiana di Casaleggio, di cui tutto sommato mi pare non freghi molto all’elettorato grillino, è la palingenesi della classe dirigente ciò che scalda gli animi e indica il Cambiamento con la C maiuscola. Se non si spera più di realizzare il paradiso proletario in terra, oggi la rivoluzione consiste nello spazzare via le classi dirigenti corrotte e sostituirle con i cittadini onesti e informati. E’ una cosa molto diversa rispetto alle varie edizioni di ‘partiti degli onesti’ che abbiamo visto in passato, e lo è, secondo me, proprio perché è un’ideale radicale e rivoluzionario che rende il M5S altro rispetto ai partiti riformisti e pragmatici non più capaci di grandi afflati ma visti come ridotti alla politica del piccolo cabotaggio.
Grazie infinite per la risposta.
Apprezzo molto il suo modo di sezionare, quasi chirurgicamente, i vari aspetti di un tema, senza cedere alla tentazione di assecondare la sua intima visione. Mentre tutti tendiamo, per quanto ci si sforzi di essere obiettivi, a prendere posizione, lei riesce a mantenersi equidistante, seguendo un metodo quasi scientifico.
Questo mi ha colpito profondamente. Un modo di ragionare ormai assai raro, che un tempo rappresentava la regola.
Non si tratta di mera ponderatezza, ma di umiltà delle parole verso le cose.
Un caro saluto e grazie ancora.
Condivido la riflessione di Davide sul metodo di Roberto. Che non è, propriamente, quello di Ciccarelli, citato da Abate. Credo che adesso, di questa capacità, ce ne sia bisogno come non mai, per cercare di guardare a occhi aperti, limitando il più possibile le deformazioni, le lenti novecentesche.