di Nunzio La Fauci
Tra gli internati del campo di Fossoli, “il mattino del 21 [febbraio 1944] si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione”. In Se questo è un uomo, il racconto delle ultime ore che precedettero quella partenza è implacabilmente cadenzato da passati remoti. Lo è del resto anche il successivo racconto del viaggio che destinò al Lager Primo Levi, in compagnia di altri seicentocinquanta “pezzi”.
Nel resoconto di quel 21 febbraio e delle prime ore del giorno successivo, sono appunto passati remoti i piloni che reggono l’impianto del testo. Tra essi si distendono brevi arcate narrative di forme imperfettive e arcate morali, altrettanto brevi, di un presente atemporale. Eccone un’esemplificazione di massima: “l’annuncio della deportazione trovò gli animi impreparati […] Soltanto una minoranza di ingenui e di illusi si ostinò nella speranza […] Nei riguardi dei condannati a morte, la tradizione prescrive un austero cerimoniale, atto a mettere in evidenza come ogni passione e ogni collera siano ormai spente […] Si evita perciò al condannato ogni cura estranea […] Ma a noi questo non fu concesso […] Il commissario italiano dispose dunque che tutti i servizi continuassero a funzionare […] Ma ai bambini quella sera non fu assegnato compito […] E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani […] ebbe animo di venire a vedere […] Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli […] Nella baracca 6 abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose […] Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra […] L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci”.
“Come un tradimento”: alle tre parole si è qui accordata un’enfasi che, naturalmente, è assente nel romanzo. Esse si presentano superficialmente identiche in un lacerto manzoniano e la circostanza non è sfuggita a chi legge Primo Levi a caccia di rapporti intertestuali, ritenendo così di penetrare nel quid della sua espressione letteraria. Ben al di là del caso di Levi e del suo rapporto con Manzoni (per niente improbabile), l’attitudine critica è del resto piuttosto comune e fortunata, come si sa, né chi scrive ha titolo per dirne le eventuali manchevolezze teoriche e sperimentali. Si resti perciò al caso specifico e alla sua modesta concretezza.
Dove ricorre allora “come un tradimento” nei Promessi sposi? L’innominato si prepara a ricevere nel suo castello Lucia, che ha fatto rapire dai suoi bravi. È già preda d’una qualche imprecisata agitazione, come prodromo narrativo di una vicenda che avrà dopo poco il suo provvidenziale scioglimento, come si sa. Infatti, “Da un’alta finestra del suo castellaccio guatava egli da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco la carrozza apparire, e venire innanzi lentamente […] – Vi sarà ella? – pensò tosto: e continuava a dire tra sé: – che noia mi dà costei! Liberiamcene. E si disponeva a domandare uno scherano, e a spedirlo subito incontro alla carrozza, ad ordinare al Nibbio che desse di volta, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò di subito nella sua mente, fece svanire quel disegno. Vessato però dal bisogno di ordinar qualcosa, riuscendogli intollerabile l’aspettare oziosamente quella carrozza che veniva innanzi a passo a passo, come un tradimento, che so io?, come un castigo, fece chiamare una sua vecchia”. Manzoni in Levi, pertanto. Le parole sono proprio le medesime. Come si fa a dubitarne?
Per dirla con una nozione ispirata a Émile Benveniste, il discorso non funziona tuttavia per parole. Non funziona per parole nemmeno la lingua, da qualsiasi prospettiva la si osservi. Più che ai valori assoluti delle forme, e in particolare delle forme delle parole, discorso e lingua, per funzionare, contano su valori istituiti da rapporti. Ogni espressione li riceve, precisi, nel sistema in cui ricorre e che contribuisce a creare. Tanto più precisi, se si tratta di un’espressione letteraria. La coincidenza di Levi con Manzoni, a proposito di quel “come un tradimento”, va di conseguenza vagliata funzionalmente. Diversamente, potrebbe darsi il caso che essa sia puramente formale: un superficiale accidente.
Ora, per “come un tradimento” non si potrebbero immaginare due contesti più diversi di quelli offerti dall’opera di Manzoni e da quella di Levi. Diversi, quanto a dipendenze sistematiche, che sono poi quelle che determinano il senso di ciò che si scrive (e si dice).
Si cominci dal più semplice: il punto di vista tematico. Nel testo manzoniano è il vessatore che, per figura e nel suo animo, prospetta qualcosa come un tradimento: il lento avanzare della carrozza. Come un tradimento o (si premura di precisare l’attento narratore) “come un castigo”. Il tradimento è del resto nel contesto di un misfatto che egli ha compiuto e che si prepara a perfezionare. Tutto ciò, inoltre, in rapporto a un esperiente – l’innominato, appunto – di numero (e non soltanto di numero) singolare: un singolare intimo, risentito, personale.
Nel testo di Levi, sono invece gli innocenti a sentirsi traditi dall’alba e il tradimento non è per figura. L’alba è infatti quel trascorrere dalla notte al giorno che è comunemente associato a un auspicio fausto e a una speranza. In ciò essa tradisce. E a tale sentire non spetta un esperiente singolare. Si sentono e sono traditi dall’alba del giorno della deportazione, tutti insieme, gli ebrei del campo, senza eccezione alcuna: agnelli che in gregge non vanno al castigo ma, senza spiegazione, verso il mattatoio.
Ben più in profondo di qualsiasi fatto tematico, a fare differenze di sistema tra i due testi, ci sono poi le cadenze e i ritmi delle loro composizioni. Eccone allora un assaggio, che si aggancia alle osservazioni sui tempi verbali presentate in esordio.
Il “tradimento” cui, nella prosa manzoniana, pensa l’innominato avanza lento e in una prospettiva appunto imperfettiva. Passo dopo passo, come la carrozza che porta e nasconde Lucia. L’innominato lo osserva da lontano. E in modo vago e imprecisato esso si insinua – come un sentimento – nell’animo del personaggio, il cui travaglio si prepara.
Tra gli internati di Fossoli destinati al viaggio e impreparati al loro destino, il sentimento del “tradimento” esplode invece in modo puntuale, come è puntuale il sorgere del sole nell’alba. E il “tradimento” dell’alba è chiaro come la luce. Determinatissimo. Marcato, come si è detto, dall’ineluttabilità del passato remoto: tra le forme verbali, la massimamente definita, dal punto di vista aspettuale.
Insomma, parole eguali per forma, in sistemi correlativi diversi, sono parole diverse. Diversamente, le narrazioni e la loro bella libertà (pronta a divenire imbroglio, come si sa) andrebbero a remengo. E così non è. Né nel caso di Manzoni né in quello di Levi, cui sarà forse capitato di avere nell’orecchio le tre parole di Manzoni (appunto, sarà!) ma senza che ciò voglia dire altro.
[Immagine: Primo Levi]