di Gianluigi Simonetti
[LPLC si prende qualche giorno di vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni pezzi usciti nei mesi scorsi. Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2018].
Per la poesia italiana il Novecento è davvero un secolo breve: finisce, di fatto, negli anni Settanta, quando il genere in molti sensi cambia pelle – per poi entrare in una crisi di visibilità sociale e culturale destinata a approfondirsi col passare del tempo. Questo suggerisce un’interpretazione critica ormai consolidata, che comincia dalle prime annotazioni ‘in diretta’ di Berardinelli e Cordelli, in una piccola ma importante antologia poetica chiamata Il pubblico della poesia (1975); questo conferma l’ultimo numero della rivista specialistica «Ticontre» dedicato alla poesia italiana dal ’75 a oggi, nel quale tra l’altro Guido Mazzoni fa il punto sulla storia sociale della nostra versificazione recente. Colpisce il fatto che all’inizio degli anni Settanta, mentre la società si fa compiutamente di massa, alcuni dei nostri poeti più noti e affermati, come Montale e Pasolini, cambino insieme bruscamente registro, rinunciando definitivamente a scrivere in stile tragico; e che contemporaneamente molti dei migliori poeti emersi nel secondo dopoguerra – Luzi, Sereni, Caproni, Bertolucci – smettano di reinventare e aggiornare quel sapiente equilibrio di alto e basso che avevano messo a punto negli anni Cinquanta e Sessanta. Anche gli scrittori della (neo)avanguardia smettono di incidere, proprio quando sembrano sulla cresta dell’onda: avevano capito prima di tutti che la vecchia lirica egocentrica e sublime stava morendo, anzi doveva morire; avevano avuto buon gioco a metterne in luce gli aspetti più anacronistici e patetici; ma non riescono a rimpiazzarla con la loro antipoesia cementizia, dissonante, volutamente brutta.
Insomma, nello stesso breve giro di anni perdono colpi tutte le principali ipotesi poetiche del secondo Novecento: annaspa chi voleva riformare il lirismo tradizionale tenendo insieme vecchio e nuovo, ma anche chi voleva rivoluzionarlo in nome di una poesia senza io e senza bellezza. Più o meno da allora i poeti italiani si sentono autorizzati a fare quello che vogliono, non devono dar conto a nessuno delle proprie scelte formali perché mancano idee forti e nuove e massicciamente condivise su dove la poesia debba andare. Già nel calderone del Pubblico della poesia coesistevano senza problemi versi di tutti i tipi – dall’ironico allo sperimentale, dal diaristico al tradizionalmente lirico; da quel momento a oggi diverse generazioni di poeti hanno lavorato in direzioni diverse, tentando ciascuna a suo modo di ampliare o stravolgere lo spazio convenzionale della poesia: ora recuperando generi poetici non lirici (la poesia narrativa, filosofica, satirica o didattica), ora mescolando la poesia con altri generi letterari (il romanzo, il teatro, il diario), ora incrociandola con linguaggi artistici non letterari (la musica, la fotografia, la videoarte); magari rinunciando al verso, e mettendo alla prova del palco, del microfono o dell’installazione, o di altro, l’idea tipicamente otto-novecentesca di una poesia solo scritta, prevalentemente lirica, specializzata nell’esprimere contenuti universali e assoluti in una forma strettamente personale.
C’era però nel gruppo del Pubblico della poesia un esordiente che ha fatto strada rimanendo fedele alle ragioni della poesia-poesia. Già nel ’75 si mostrava insensibile al sarcasmo, tentato ancora e sempre dal sublime: era un milanese classe ’51, Milo De Angelis, lettore di Luzi, Bigongiari e Fortini: scrittori raffinati, difficili, capaci di versi memorabili e metafore definitive. Non gli interessava, e non gli interessa, allargare in orizzontale lo spazio di ciò che si può dire in poesia; come tutti i grandi lirici moderni si sente attratto dall’asse verticale, che lo spinge ora verso l’alto (l’infinito, il divino) ora verso il basso (l’oscuro, l’inconscio), nel sospetto di una simmetria, o coincidenza, fra questi due estremi. Un solo scopo, ma ambizioso; sfiorare, sia pure per un attimo e nella più grande economia di mezzi (poche parole, di solito semplici ma scelte attentamente, lasciate fluttuare nel bianco della pagina; pochi temi, sempre gli stessi, non sempre elevati e anzi a volta umili o meschini) niente di meno che la parte essenziale e assoluta, e quindi nascosta, della vita: «la nostra verità, la nostra ombra, il nostro segreto».
Da pochi mesi Mondadori ha raccolto l’opera in versi di Milo De Angelis in un volume intitolato Tutte le poesie. L’apparizione di questo libro è rilevante in sé, perché consolida la figura di De Angelis come uno dei due o tre maggiori poeti italiani viventi; ma assume un senso ulteriore se si considera, come credo si dovrebbe, la situazione complessiva della poesia italiana attuale. Mai come oggi la scena sembra tentata dal completare il gesto accennato negli anni Settanta: mai come oggi, in altri termini, la poesia sembra voler diventare altro da sé, facendosi romanzo, saggistica, rap, installazione – o silenzio. Mai come oggi il timore sconvolgente, e per questo inconfessabile, è che una lirica perfetta, ambientata nella nostra lingua e nella nostra vita, non si possa più né leggere né scrivere: non per mancanza di talento dei singoli poeti, ma per una disabitudine collettiva, sociale, alla verticalità, alla concentrazione, all’ascolto della lingua – ciò che spinge ogni vero poeta a quell’atto per tutti sommamente misterioso (ma per lui tassativo, indispensabile) che consiste nell’andare a capo. Ebbene, l’opera di De Angelis, raccolta in volume, ci ricorda invece, insieme a quella di non molti altri colleghi e colleghe, che l’espressione lirica resta possibile, che andare a capo ha un senso, insomma che si può ancora scrivere grande poesia – anche se forse questa pienezza di forma e di significato non la sopportiamo e non la meritiamo più. Possibile non vuol dire facile: tra le centinaia di testi che formano Tutte le poesie (otto raccolte pubblicate da De Angelis in quarant’anni di carriera, più due dozzine di inediti giovanili talora molto interessanti), le liriche impeccabili potrebbero ridursi a venti o trenta: ma queste venti o trenta resteranno tra le più belle mai scritte in lingua italiana negli ultimi decenni. Chi vuole potrà trovarle in buona parte dentro Somiglianze, la raccolta d’esordio; ma andando oltre s’imbatterà in altre grandi riuscite, come ad esempio – cito solo le prime che mi vengono in mente – E’ possibile portare soccorso agli assediati, Remo nel gennaio sconosciuto, Cartina muta, La buona notte, Semifinale, la serie di Hotel Artaud, oppure Nei polmoni:
La coperta, la sua forza, mentre crescevamo.
O gli occhi che ieri furono ciechi,
oggi tuoi, ieri l’inseparabile. Le fiale,
il riso in bianco diventano l’unico
mondo senza simbolo. Materia che
fu soltanto materia, nulla che
fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia,
cobalto, padre, nulla, pioppi.
Come si vede, De Angelis non racconta, non spiega, non sonorizza, non decora e soprattutto non sperimenta; insiste a interpretare la sua arte come acrobazia, ispirata da forze linguistiche e psichiche di cui è solo in parte consapevole («Non scrivi ciò che sai, ma cominci a saperlo scrivendo»: così nell’autoriflessione che chiude il libro). Se ci si mette al servizio di potenze che non si controllano il rischio del fallimento comunicativo è sempre dietro l’angolo; i grandi lirici moderni corrono spesso questo rischio; ma quando la magia verbale si produce, ecco verificarsi quella situazione tipicamente lirica per cui gli oggetti o gli episodi più banali e quotidiani vengono sottratti alla ragione e al tempo abituali e consegnati a una ragione e a un tempo superiori: in un culmine di senso, in un presente assoluto. E’ quanto accade ad esempio in una poesia come La luce sulle tempie, non so se tra le più riuscite del volume, certamente tra le più istruttive:
Che strano sorriso
vive per esserci e non per avere ragione
in questa piazza
chi confida e chi consola di colpo tacciono
è giugno, in pieno sole, l’abbraccio nasce
non domani, subito
il pomeriggio, i riflessi
sui tavoli del ristorante non danno spiegazioni
vicino alle unghie rosse
coincidono con le frasi
questa è la carezza
che dimentica e dedica
mentre guarda dentro una tazzina le gocce
rimaste e pensa al tempo
e alla sua unica parola d’amore: “adesso”.
In versi come questi si dispiega tutto il mondo espressivo di De Angelis, ma prima ancora tutta un’idea profetica, ellittica e iniziatica di lirica, che ha radici antiche ma sempre meno interpreti qualificati. Per De Angelis poesia è ciò che serve a nominare, con la massima precisione formale e senza traccia di vergogna, quell’istante cruciale, circondato dal nulla, in cui l’episodio più contingente s’intreccia al sentimento della permanenza. Il suo stile è tutto teso a esprimere, anzi a catturare, questa sintesi suprema, irrazionale, contraddittoria. La compresenza tra istante e durata rivive così nel ricorso simultaneo all’ astratto e al concreto («i riflessi/sui tavoli del ristorante non danno spiegazioni»), o al corto circuito tra particolare e generale («guarda dentro una tazzina le gocce/ rimaste e pensa al tempo»). Musica e silenzio s’incontrano nella perentorietà degli a capo («questa è la carezza//che dimentica e dedica»). Ogni cosa risponde a leggi cosmiche e assolute, eppure ogni cosa è detta mentre sta accadendo: «esserci», «subito», «adesso».
[Immagine: Oscar Ghiglia, Limoni (1928-1930), particolare].
“ Giovedì 27 gennaio 2011 – Poi leggo su Sienanews.it che Milo De Angelis è andato a Poggibonsi a presentare il suo ultimo libro Quell’andarsene nel buio dei cortili. Poi vedo il fascicolo di «Studi novecenteschi» dedicato a Elsa Morante, a cura di Concetta D’Angeli e Giacomo Magrini, con scritti di Cesare De Michelis, Cesare Garboli, Pier Vincenzo Mengaldo, Giuseppe Nava, Guido Paduano, Enrico Palandri, Gabriella Sica, Walter Siti, Adriano Sofri etc. Alla fine penso che io ho sempre avuto una straordinaria voglia di non fare niente. E dunque non devo lamentarmi. Perché, si sa, chi non risica non rosica, e comunque non rosicare è già molto etc. “.
Buona Pasqua a tutti.
non è un problema di prosa o poesia, o prosa in prosa, o lirica versus prosa. E’ un problema di noia e mancanza di urgenza a dire. si scrive per ritorsione, non per bisogno. pochissimi sono pollock, alti solo vernice che cola.
de angelis è, troppi scimmiottano troppissimi fanno la parte della volpe davanti all’uva.
parole e combinazioni di parole a capo o meno se segnano, se strappano, se scuotono sono poesia. Il resto è descrizione, storytelling nel senso più infeltrito. Ma il pesce nell’acqua non si accorge se essa è fredda o meno.
Mentre il poeta fa il salto fuori dalla vaschetta.
E quanti dei nomi circolanti nelle cerchi più sperimentali non sono altro che una congrega di mediocri funamboli che dicono tanto perché nel silenzio l’horror vacui li sommergerebbe?
Omaggi a Milo De Angelis come ai nuovissimi che alle polemiche fan spallucce, perché un poeta è un poeta.
Non serve, non è un servo. E’ utile altrimenti si fa dannoso quanto superficiale.
Meno circoletti, più umiltà.
Non lo prescrive il medico di fare il poeta, soprattutto quando come metre a penser si è mediocri.
[quando la lingua non dialoga con se stessa né riflette su di sé per rinnovarsi allora cede il campo alla performance. Tutto è story telling e tutto è performance, meglio restare dilettanti…]
buona lettura, altro che De Angelis e simili!
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X
Iene non nate, Orfeo muore!
E mi congedo dai dettagli e dagli elogi,
dalle sinistre bontà, come un negarsi
ai tragitti e ai banchetti. Sono consunto
dagli arcani. In ceppi, ginestre e palpebre
sotto tumuli di riti.
Consacro la gioia! Celebro la grazia!
Altari di stupori! Scabrosi miti, leggende!
Vigilia, epifanie, attutite le cadute!
Narciso, affossa gli specchi e scanna
l’angelo!
Respiro, io sono figlio della mia Parola!
Come poco c’importa dove mai siamo, e come.
Non più essere e avere, non più canto,
sognare non più… noi vivi, siamo fatti di scongiuri
e di presagi. Sulla soglia la Nemesi…
il sangue ritorna a scudisciate.
Ignaro, trangugi spirali, da secoli, flagelli!
Come (ti) sperona la vita: il gril-let-to sentilo!
Senti come rumina il tamburo e il becchino!
Padre, l’anello dal dito adunco t’ho sfilato, semivivo!
Come la morte è chiusa al canto e al pane raffermo,
e risacche di nerastre risa s’avvolgono, non in bende
ma in nodi e cera, sputo di nero sperma, morbido
sudore di denti. Come smania la bara che ho ingannato!
Come il seme è mùtilo di spirali, di balsami!
In gramaglie, nel pozzo, fuori!
La mia risposta è: riti, riti! Mi ha sorpreso il Caso!
Come sparviero la croce mi artiglia e una giostra
di suoni mi governa. Ascolto gemiti e massacri,
evangeli e cantici interdetti, surrogati di spine,
e oltre gli argini, le misure e i limiti
ti berrò a visioni, a fuochi, a ori,
e nella tua mano sarò il volo,
io, nella tua maschera… ròsa!
ANTONIO SAGREDO
(da LEGIONI)
Roma, i trentuno giorni di ottobre 1989
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Camera
Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
vuote… il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.
Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
il negromante a squarciagola: ecco, questi sono gli altari,
dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi Cristo!
Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.
Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.
Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
capriccio e parvenza di se stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!
antonio sagredo
Vermicino, 16-20 maggio 2008
Caro Antonio Sagredo,
su ELLEPIELLECI’
salottino quasi DICCI’
(o tanto Piddino)
tra i De Angelis e le de benedictis
non può galoppare
il tuo verso irsuto audace libertino.