di Federico Gironi
[LPLC si prende qualche giorno di vacanza. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni pezzi usciti nei mesi scorsi. Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2018].
È un po’ un gioco di prestigio. Il numero di un equilibrista.
Abituati come siamo a vedere serie italiane – e mica solo Rai – che si buttano da una parte all’altra, sbandando, preda d’innamoramenti tanto manichei quanto fugaci, e di infondate convinzioni sul proprio target di riferimento, La linea verticale risalta ancora di più. Più di quanto non faccia già una serie Rai che rifugge il patetismo della malattia, il buonismo del racconto ospedaliero così come il catastrofismo, che racconta un prete come quello di Paolo Calabresi (per non parlar del frate che a un certo punto gli fa da sostituto, poi).
Mattia Torre è bravo, e questo già lo sapevamo: sì, certo, Boris, ma anche Dov’è Mario, che fanno ridere, e tanto, con intelligenza e zero volgarità gratuita. E poi col teatro, dove emerge di più quella vena seria e malinconica che qui, in questa serie nuova (che difatti all’inizio lui voleva portare in palcoscenico), è così importante, e riesce in una commozione composta, pudìca, e proprio per questo più profonda.
Sapevamo che era bravo, ma questo equilibrio qui era davvero difficile, quello che mescola il suo Boris con Scrubs, e con 50 e 50, e Colpa delle stelle, e L’amore che resta, e insomma con quel cinema lì che racconta la malattia brutta che è il cancro, e che finisce per fare una cosa che – vivaddio – non somiglia a niente, solo a La linea verticale, dove ridi un sacco a un certo punto e poi ti sale il magone, e ti senti quasi un po’ in colpa, perché – dai – che si ride così in un ospedale? E sì, forse sì, e se non si fa si dovrebbe.
Dice: “ma vabbé, lui quell’esperienza lì l’ha fatta, facile allora raccontarla.” Dice.
E no, casomai il contrario, è più difficile, a meno che tu non sia bravo. E Mattia Torre lo è.
Sapevamo pure che bravo è anche Valerio Mastandrea, che ti verrebbe da dire che qui si supera, ma forse non è vero, chi se ne importa. Fatto sta che lo guardi e ti sorprendi, quasi a ogni puntata, perché lui tira fuori quello sguardo, quel gesto, quell’intonazione. E tu stai lì che ti chiedi da dove l’abbia tirati fuori, quello sguardo, quel gesto, quell’intonazione, ed è un gioco di prestigio pure quello.
Dice: “eh, ma con tutti quegli attori bravi lì attorno è facile.” Dice. E in effetti, anche se non faccio l’attore, mi sa che un po’ più facile è, se hai davanti un Giorgio Tirabassi, uno degli attori italiani più sottovalutati, irresistibile paziente in preda alla sindrome del medico. O gente che è più abituata a calcare i palcoscenici che a stare su un set, come Cristina Pellegrino, l’infermiera che minaccia “de pistatte”, o Elia Schilton, che pare uno appena sbarcato dalla Luna, perfetto per fare un chirurgo che è Dio e che altrettanto misericordioso e compassionevole, o tutti gli altri, che qui non nomino sennò non la finiamo più.
Perché loro sono tutti bravi, bravissimi, ma il più bravo di tutti è Torre, che ti racconta una cosa terribile in un modo bellissimo; che sa che per raccontartela bene del realismo – che pure è importante e c’è, nei modi, nei dati, nei fatti – a volte uno può e deve fregarsene; che sa anche che a volte è meglio giocare con quel surreale che poi è forse lo stato d’animo prevalente di chi di punto in bianco scopre, a quarant’anni, di avere un tumore.
E allora tu stai lì, attaccato, segui, guardi, ridi; e ogni tanto piangi. E quando arrivi alla fine – un passo alla volta, mettendoci la testa, come ripetono al Luigi di Mastandrea – non sai se è più grande l’emozione, il sollievo, la commozione che vengono dalla storia o la felicità per esserti imbattuto – in Italia, in italiano, e pure in streaming se vuoi – in una cosa fatta tanto bene.
[Mattia Torre, La linea verticale, 2017]