di Gianluigi Simonetti

[Esce oggi per il Mulino La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporaneadi Gianluigi Simonetti. Analizzando centinaia di opere apparse tra anni Novanta e anni Zero, e muovendosi in modo fluido tra romanzo, poesia e ‘altre scritture’, La letteratura circostante mira a due obiettivi principali. Primo,  delineare una storia delle figure retoriche più significative degli ultimi trent’anni; secondo, azzardare un’interpretazione unitaria della scena contemporanea. Pubblichiamo le prime pagine dell’Introduzione, ringraziando l’editore per avercele concesse].

Questo libro interroga la letteratura italiana degli ultimi decenni, intesa come laboratorio di un distacco progressivo e irreversibile dalla tradizione del Novecento. Nel complesso, la maggior parte della letteratura che si scrive oggi non ha più nulla o quasi nulla a che fare con quella che si scriveva ieri o l’altroieri; attraverso l’analisi di alcune pagine esemplari verranno osservati da vicino i fenomeni linguistici, stilistici e culturali più importanti emersi a partire più o meno dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando novità di rilievo cominciano a prodursi nel corpo di un gruppo vasto e significativo di opere. Si tratta, in ogni caso, di una soglia mobile, che non può coincidere con una data precisa. Anzi, per ricostruire la genesi di alcuni processi ancora in corso sarà talvolta necessario spingersi anche dieci o vent’anni più indietro, nella stagione in cui il Novecento inizia lentamente a finire. Di fatto, alcune delle opere meno recenti sulle quali dovremo soffermarci risalgono alla metà degli anni Settanta: idealmente è da lì che cominciamo.

Il baricentro del libro è però situato nel presente, ed è col presente che si vuole confrontare. Nostro primo obiettivo consisterà nel fare il punto della situazione, cioè nel tracciare una descrizione attendibile della letteratura circostante: delle scritture che ci stanno attorno e di quelle che vediamo affiorare all’orizzonte, cercando negli scaffali delle librerie e non solo in quelli delle biblioteche. Questa ricostruzione di uno spazio letterario specifico, con le sue aree e le sue stratificazioni, verrà però inscritta all’interno di un’ipotesi più generale, declinata nel tempo: quella di una specie di storia delle figure retoriche degli ultimi trent’anni. Il libro percorre quindi un doppio binario, storico e critico. In primo piano è la proposta di una breve storia (nella prima parte del volume) e, metaforicamente, geografia (nella seconda parte) della letteratura italiana ultra-contemporanea. Ma tale proposta procede insieme a quella di una verifica dei valori e delle categorie con cui siamo soliti interpretare le opere del presente. Da un lato si intendono correggere alcuni giudizi o pregiudizi della critica militante, di solito troppo impegnata a dire «mi piace» o «non mi piace» per farsi domande più articolate e radicali sul senso della letteratura che si scrive oggi; dall’altro verranno collaudate le ambizioni culturali, e implicitamente politiche, di una società letteraria mutante, che sta ripensando, e a tratti capovolgendo, le basi umanistiche del proprio sapere. È su questo piano che risulta indispensabile il ricorso a una prospettiva storiografica, con tutti gli sforzi di sintesi, scavo e raccordo che essa comporta. Se è vero che ci troviamo a uno snodo importante della parabola della cultura umanistica, solo un confronto tra passato e presente – tra breve periodo e storia più lunga – può permetterci di fare il punto sulle condizioni in cui si trova il nostro attuale modo di pensare alla letteratura.

Fare il punto su una situazione estetica non significa necessariamente prendere parte per il nuovo o per il vecchio, e tantomeno mettere insieme un canone cui aggrapparsi nel presente o nel futuro. Anche se qualche giudizio di merito su singole opere o autori potrà emergere, più o meno tra le righe, in qualche momento dell’analisi, i valori che il libro si propone di verificare sono quelli che sostengono l’idea stessa di cultura che si sta affermando sotto i nostri occhi. Perciò questo studio non propone ricette stilistiche, non scommette su qualche poetica in particolare, non difende nessuna qualità letteraria genericamente intesa. Anzi, molti dei libri di cui ci occuperemo saranno mediocri o brutti: talvolta senza farlo apposta, talvolta dichiaratamente e quasi per partito preso. Sentiamo il dovere di tener conto della mediocrità e della bruttezza non solo perché costituiscono una parte molto consistente, anzi largamente maggioritaria, di ogni panorama letterario; ma anche perché proprio la letteratura triviale o d’intrattenimento sembra poter dire, oggi, qualcosa di specifico su quel che ci siamo abituati a chiedere all’arte e alla cultura. Ci confronteremo quindi con opere ambiziose, coerenti e originali, ma anche con moltissimi prodotti Midcult, con un bel po’ di finta poesia, con tante «altre scritture» che non sono altre abbastanza, e perfino con una fluviale produzione di libri di consumo, o Masscult, che non nutre nessuna speranza di sentirsi bella. Caratteristica di questo libro è quella di unire allo studio della letteratura in senso forte, ad alta temperatura culturale ed emotiva, un interesse particolare per quella letteratura che definirei tiepida, sempre più diffusa e ingombrante socialmente, sempre più popolare, il cui principale obiettivo non è conoscere (e spiazzare), ma intrattenere (e distrarre). Valutare l’una e l’altra, e l’una nell’altra, non intende mettere tutto sullo stesso piano, con la scusa del discorso critico; serve invece a delineare un profilo il più possibile esauriente del paesaggio letterario italiano. Serve a guardarlo per intero.

Per analoghe ragioni di completezza e libertà di sguardo si è deciso di non limitare l’analisi a un solo genere letterario. Da una parte, osserviamo sempre più spesso fenomeni formali che sono trasversali ai compartimenti stagni dei generi (e che in qualche caso traggono rilievo proprio dal loro ostinato perforarli); dall’altra, vediamo erodersi il principio per cui certi argomenti debbano esprimersi prevalentemente in versi, altri ancora tramite romanzo, altri in forme giornalistiche o saggistiche; mentre sul piano delle poetiche ogni opzione risulta ormai pacificamente accettabile. «Occorrono troppe vite per farne una» (anche se da sempre i più dotati sanno prendere il meglio da ogni strategia espressiva): il progetto di una storia contemporanea delle forme ha molto da guadagnare da un confronto tra modi di scrittura diversi, e tra diversi codici. Nel mettere insieme il materiale per l’analisi abbiamo scelto quindi di non proteggerci con lo specialismo, come di solito si fa quando si studia «seriamente» la letteratura contemporanea, e la letteratura in genere. Così come verranno scavalcate le transenne che delimitano i diversi livelli del discorso letterario, allo stesso modo ignoreremo quelle che separano i generi del discorso stesso. Anzi, volentieri ci soffermeremo proprio sulle cosiddette scritture di frontiera: sugli esperimenti di ibridazione, sui fenomeni di osmosi tra prosa e poesia, sul disseminarsi di un polline di genere sulla superficie di (quasi) ogni forma narrativa. Al tempo stesso, dovremo prendere di petto anche l’altra e apparentemente opposta questione, quella del riciclo delle scritture dichiaratamente di genere, costruite proprio sulla riconoscibilità dei rispettivi codici, e sulla forza degli stereotipi. Rifiuto dei generi e ritorno dei generi sono andati di pari passo nella letteratura italiana degli ultimi anni: è bene che la ricostruzione di un sistema figurale tenga conto di fenomeni in tensione, e che provi – se ci riesce – a strutturarli; a scoprire una dialettica dove sembra esserci una contraddizione.

L’ipotesi di uno studio delle figure retoriche, sia pure limitata a uno spazio e a un tempo limitati, non può che implicare, sul piano del metodo, di ricorrere agli strumenti dell’analisi formale. Scelta impopolare, nel momento in cui la fortuna della stilistica «profonda», dichiaratamente interpretativa, cede vistosamente il passo, nell’ambito della teoria letteraria, agli studi culturali e alla critica tematica. Privilegiare lo studio delle forme dell’espressione, dal punto di vista di chi scrive, significa osservare da vicino il funzionamento concreto e specifico dei testi letterari; significa provare ad ascoltare quello che solo la letteratura, attraverso i suoi specifici e irriducibili mezzi espressivi, sa e può dire. Ma soprattutto significa prestare un’attenzione particolare, attraverso le forme, al significato latente dei testi, che può dare indicazioni diverse o anche opposte rispetto a quello che i testi stessi esplicitamente dichiarano. Si accumula, nella nostra letteratura recente, un’enorme quantità di non detto. Un po’ perché, rispetto al passato, il grado d’autocoscienza e la volontà di autoanalisi dei nostri scrittori sono molto diminuite; ma anche perché è aumentata la volontà di controllo (politicamente corretta o cinicamente provocatoria) della materia; e prima ancora la paura di usare lacune, ambiguità e ambivalenze come elementi di forza stilistica, e non di debolezza. Non migliorano le cose, da questo punto di vista, l’avvicinamento in corso tra letteratura e informazione (sia sul piano del racconto d’evasione sia su quello del «nuovo impegno»); il consolidarsi di un’idea di poesia come artigianato, o ancor più come «arte poetica», seriale e protocollare; la tendenza a «brandizzarsi» comune soprattutto ai narratori di successo (proprio mentre il brand editoriale vero e proprio perde di identità e di significato). O ancora, su un altro piano, l’azione di una critica letteraria sempre più promozionale e di bocca buona – oppure al contrario poliziesca, normativa e paralizzante, impegnata soprattutto a precisare, sulla base delle proprie buone intenzioni, cosa si può scrivere e cosa invece no. Tutti processi che tendono a fare di quella letteraria non più una parola speciale, libera di andare dove vuole (pagando il prezzo di trovarsi una forma specifica e irriducibile), ma sempre più una parola tra le tante, dalla forma democratica, omologata e più o meno consensuale: con un significato solo, e dalla parte giusta.

Eppure, sappiamo che non c’è configurazione formale, per quanto all’esterno ideologicamente compatta, che non schiuda all’interprete segnali di istanze profonde contrapposte, passibili di essere esplorate. Così, in continuità con le ricerche di alcuni studiosi che hanno proposto una lettura sintomatica della narrativa contemporanea, anche questo libro gira intorno a un’ermeneutica dell’inconscio letterario. Rispetto a saggi come quelli recenti di Daniele Giglioli e Raffaele Donnarumma, costruiti appunto sull’indagine del sintomo, andranno però registrate due importanti differenze. Da un lato ho preferito rinunciare al conforto di un armamentario concettuale desunto da saperi extraletterari (modernità, postmodernità, ipermodernità per Donnarumma; per Giglioli trauma, feticcio, Reale). In generale, ho cercato di rinunciare a etichette e formule precostituite; al limite – quando proprio non si poteva farne a meno – ho provato a inventarmele, senza pescare nel trovarobato delle scienze umane. D’altra parte, non si è puntato su pochi testi di valore, ma su un campione testuale largo e variegato, provando a collocare i singoli fenomeni formali in un insieme retorico sufficientemente vasto da ridurre gli squilibri percettivi.

Una scelta forte – quella di scommettere sulla teoria letteraria come conoscenza non surrogata – convive quindi con una scelta debole: quella di puntare su una critica letteraria di tipo sintomatico. Il momento in cui scriviamo sembra meno favorevole al pensiero critico che al giudizio. Si tratta purtroppo, nella maggioranza dei casi, di un giudizio schematico e fungibile, un giudizio «social», idiosincratico e altamente volatile: opinione in un flusso ininterrotto di opinioni. La tendenza non lascia immune l’intellettuale-massa, al punto che bisognerebbe chiedersi se ad essere o sentirsi malata non sia la critica stessa, quando così cocciutamente preferisce concentrarsi sui sintomi. In attesa di risposte, e di ricerche ulteriori, le categorie di cui abbiamo bisogno proviamo a dedurle dal modo in cui i testi si comportano. Per questo non avranno pretese teoriche particolari al di fuori dell’ambito in cui si dimostrano efficaci; saranno, per così dire, categorie di servizio, funzionali alla ricostruzione di quello che le opere dicono loro malgrado.

 

[Immagine: Louise Bourgeois, Arch of Hysteria (1993)]

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