di Piero Caracciolo
Le elezioni italiane del 4 marzo sono l’ultimo di una serie di episodi che hanno visto recedere in modo impressionante non solo i partiti di sinistra e centro-sinistra, ma tutte le forze politiche che, in mancanza di una definizione migliore, definirei come non-populiste. A favore, ovviamente, delle forze cosiddette populiste.
Sul tutti questi episodi è stato scritto molto. Nel caso delle recenti elezioni italiane con poche eccezioni l’attenzione si è però focalizzata sulle scelte e le strategie dei partiti non-populisti e su comportamenti e personalità dei loro dirigenti[1]. In questo articolo io vorrei mettere a fuoco nel loro insieme e nei rapporti reciproci le ragioni che, secondo sociologi e giornalisti, hanno influito sulla scelta populista degli elettori, attribuita da una parte al loro fondato malcontento e, dall’altra, alla incapacità dei partiti non-populisti di cogliere questo malcontento e mettere in atto politiche razionali miranti a migliorare le condizioni di vita degli elettori. L’elenco delle cause immediate del malcontento è noto: peggioramento delle condizioni economiche (diminuzione delle retribuzioni e della protezione del lavoro dipendente, impieghi precari, perduranti disoccupazione giovanile e disoccupazione di lunga durata, prospettive pensionistiche incerte, assistenza medica più cara, perché da un lato si richiede una crescente partecipazione alle spese da parte degli assistiti, da un altro lato la gestione dei servizi ospedalieri viene fatta con criteri di economicità sentiti come contrastanti coi bisogni dei pazienti), degrado di alcune situazioni socio-ambientali (carente manutenzione di infrastrutture, tra cui strade, ospedali, scuole, uffici pubblici, incuria nella nettezza urbana e nei trasporti in alcune città), disorientamento identitario (globalizzazione, coabitazione con immigrati), sensazione di ingiustizia di fronte all’aumentare delle disuguaglianze economiche e di fronte ai privilegi di alcune categorie sociali, soprattutto di fronte ai privilegi – veri o presunti – dei politici.
Dietro ad ognuna di queste cause non c’è tuttavia la sola impreparazione, indifferenza o cattiva volontà dei politici, bensì una serie di problemi reali e alcune scelte che sono state fatte per affrontarli.
Erosione del welfare e debito pubblico
Vorrei cominciare con un problema che sembra periodicamente scomparire dall’attenzione dei media e dalla coscienza degli elettori, mentre in realtà sussiste e costituisce una spada di Damocle per tutto il paese. Parlo dell’entità del debito pubblico. Il problema è esploso ripetutamente in occasione delle grandi crisi finanziarie internazionali (1992, 2010) ma, dopo essere stato considerato, e giustamente, di importanza capitale nei momenti dell’urgenza, è stato a tal segno dimenticato da far credere che sia scomparso. Nell’estate del 1992 nelle metafore dei giornalisti la Banca d’Italia era diventata un fortino assediato e i suoi dirigenti tanti David Crockett e generali Cusetr che si battevano strenuamente per salvare la lira. Nel 2010-2011 il paese è stato sull’orlo del baratro e fu letteralmente salvato dalle misure del governo Monti e dal prestigio dei suoi ministri, sentito dai mercati finanziari come una garanzia. Tanto i governi seguiti alla crisi del 1992 (Ciampi, Dini, e poi i governi di centro-sinistra guidati ie da Prodi, D’Alema e Amato), quanto i governi di Monti e dei suoi successori (Letta e Renzi), hanno messo in atto politiche di rientro dal debito. Queste politiche che sono dolorose e recessive, perché consistono nell’aumentare tasse e contributi sociale e nel risparmiare sulla spesa pubblica, ovvero sul numero dei dipendenti pubblici e sull’entità dei loro stipendi, sulla manutenzione delle infrastrutture e sulle prestazioni offerte dai servizi del welfare: pensioni, assistenza sanitaria, istruzione).
E’ utile, per capire quanto sia importante fare questi risparmi, sapere quanto incidono sulla spesa pubblica le spese per il welfare. In Italia, la spesa per il welfare costituisce il 53,6 per cento della spesa pubblica totale (in Inghilterra il 50,6, in Francia il 58,5, in Germania il 63,3[2].
Risanamento finanziario e fuga nel populismo
E’ chiaro che coeteris paribus, ovvero in assenza di problemi di altro tipo (per esempio la terza guerra mondiale, o una serie di scandali con la risonanza di “tangentopoli”…), la politiche di rientro dal debito provoca la caduta delle forze di politiche che l’hanno messa in atto. Così accadde nel 2001. Le misure prese da dai governi Ciampi, Prodi, D’Alema e Amato, in un’epoca in cui la situazione non era ancora grave come poi è diventata, in cui c’era ancora spazio per aumentare le tasse e quindi per limitare a misure non drastiche la riduzione della spesa pubblica, non furono terribili. D’altra parte la riforma delle pensioni realizzata da Dini avrebbe fatto sentire il suo peso solo molti anni dopo . Tuttavia le elezioni del 2001 furono vinte dalla proposta moderatamente populista di Berlusconi e della Lega, che tennero fede alle loro promesse, lasciando correre la spesa e riducendo le tasse dei loro clientes. Scelte populiste, appunto, la cui logica conseguenza fu di preparare le condizioni per il prossimo aumento del debito. La coalizione populista perse le elezioni del 2006 perché i suoi risultati non furono all’altezza delle promesse fatte con poco realismo (uno dei tratti del populismo) nel 2001. Prodi tornò aux affaires e la politica di rientro dal debito riprese. Berlusconi vinse di nuovo nel 2008 grazie a una nuova mossa populista (la soppressione dell’ICI per la prima casa), ma anche ai contrasti interni al centro-sinistra, che iniziarono a comunicare agli elettori l’idea che i politici di quello schieramento fossero molto più interessati al potere personale che non ai problemi del paese.
Scoppia la crisi del 2008. Gli altri paesi ne contrastano gli effetti recessivi (fallimenti di imprese e licenziamenti), contraendo grossi prestiti che vengono iniettati nell’economia per sostenere le banche e i consumi (se crollano le banche crolla tutta l’economia: sarebbe stato folle non salvarle). Il costo fu, naturalmente, un aumento del debito pubblico, che aumentò in Francia e Germania di 20 punti di PIL e in Inghilterra di 40 punti (la situazione delle banche inglesi era più grave). L’Italia non ha bisogno di salvare le sue banche, che non sono state toccate dalla crisi dei subprimes ma, a causa della recessione che si verifica nei suoi partner europei, il suo PIL crolla di 5,5 punti. Il suo debito aumenta alloroa di 5 punti, ma l’aumento non è dovuto a prestiti per misure anticicliche, bensì al crollo del PIL (il rapporto debito/PIL è una frazione, il cui valore può aumentare anche solo se decresce il denominatore). In questo modo il rapporto debito/PIL apparirà particolarmente pericoloso agli operatori dei mercati finanziari nel corso della crisi scatenata dal debito greco, nel 2010-2011. La conseguenza è che questi accetteranno di prestare ulteriore denaro all’Italia (che ne ha bisogno per pagare gli interessi sul debito accumulato) solo a patto di maggiori interessi sui buoni del Tesoro. Il livello degli interessi sul nuovo debito raggiungerà, nel corso del 2011, un tale livello da costringere Berlusconi, ormai poco credibile, alle dimissioni e il governo Monti ad abbattere la spesa pubblica per adeguarla al basso livello del PIL, in modo da rendere di nuovo plausibile un lento risanamento. Questa volta le condizioni in cui la politica di rientro dal debito deve esser messa in atto sono ben più gravi di quelle del 1996 e di quanto sarebbero state nel 2001, qualora il governo Berlusconi avesse voluto continuare a perseguire questo obiettivo “razionale” invece di mantenere le sue promesse populiste. Nel 2011 la reddito nazionale era fortemente diminuito e il paese veniva ormai visto come incapace di percorrere la strada del risanamento dell’economia pubblica, perché ognuno dei tentativi passati, messo in atto da un governo razionale, era stato annullato dal governo populista andato al potere alle elezioni successive. La scelta elettorale populista del 2001, ripetuta nel 2008, si è così rivolta, nel corso degli anni 2011-2016, contro gli elettori che l’avevano fatta. Ma questi elettori non lo sapranno, né lo vorranno sapere. Tanto più che i media legati alle forze populiste di destra e estrema sinistra, hanno fatto circolare un’interpretazione fallace delle politiche di rientro dal debito, attribuendone la necessità alle norme dell’Unione Monetaria Europea, all’Euro, alla cattiveria della Merkel. Semmai è vero il contrario: le norme dell’UEM stanno lì per proibire debiti e disavanzi troppo grandi, che sono pericolosi per sé e per gli altri paesi dell’Unione.
Il populismo anglosassone: una guerra ideologica contro il welfare
Se in Italia le politiche appena citate, che hanno intaccato il benessere di molti cittadini, sono state dettate dalla necessità obiettiva di tenere a bada il debito pubblico, in altri paesi sono state praticate per altre ragioni. Negli Stati Uniti e in Inghilterra fin dall’inizio degli anni Ottanta Reagan e la Thatcher hanno attaccato i sindacati e il welfare per ragioni ideologiche. Reagan dichiarava per esempio, di voler “liberare i poveri dalla schiavitù rispetto agli aiuti amministrativi” (New York Times 5/2/1986). La Thatcher voleva liberare gli spiriti animaleschi del capitalismo inglese dalle strettoie create dal welfare state, che pompava risorse ai ricchi e, proteggendo i poveri, impediva loro di sperimentare la rudezza del bisogno e di trovare la forza per reagire senza l’aiuto dello stato. Su un piano meno ideologico, queste scelte si risolvevano nella semplice possibilità di far pagare meno tasse ai ricchi. Erano le prime avvisaglie del ritorno in auge del liberismo (più tardi ribattezzato neoliberismo). Propugnato, tra gli altri, dall’Economist, questa ideologia permeò nel corso degli anni Novanta anche la cultura di molti politici e tecnici di sinistra. Blair, per esempio, lo mise in pratica in vari campi: politiche del lavoro, privatizzazioni, liberalizzazioni. E si spinse tanto avanti spingere gli elettori a preferire i conservatori di David Cameron a causa dell’ostilità che questi ormai nutrivano nei confronti del New Labour. Ma trenta anni di neoliberismo di destra e di sinistra preparareranno soprattutto il terreno a Boris Johnson e Nigel Farrage che, con mossa perfettamente populista, indicheranno agli elettori un obiettivo tanto fasullo quanto facile da individuare: l’Unione Europea. Quando gli inglesi avrebbero avuto, secondo lo slogan di Farrage, “their country back”, avrebbero potuto recuperare i contributi costretti a versare alla UE, cacciar via gli immigrati che l’Unione impone loro di accogliere e rompere gli accordi commerciali coi paesi emergenti. Molti di loro credono ancora che, grazie ai risparmio sui contributi il National Health Service tornerà a rifiorire, che la cacciata degli immigrati permetterà di concentrare le varie forme di assistenza sui soli inglesi, che miracolosamente ritroveranno i posti di lavoro sottratti dagli stranieri, e che infine, grazie all’autarchia rispetto ai paesi emergenti, la vecchia Inghilterra industriale tornerà a vivere. I costi che il paese – si scopre – dovrà pagare per l’uscita renderanno forse vane tutte queste speranze. Colpa della cattiva Merkel e del perfido Barnier.
La sinistra liberista
Il liberalismo redivivo ha però ispirato anche politici non anglosassoni, che hanno voluto anche loro “modernizzare” i loro paesi, privatizzando imprese e liberalizzando interi settori delle economie. Bisogna dire che i risultati delle liberalizzazioni, in certi paesi, hanno mantenuto queste promesse. In Francia, Inghilterra e Germania, le ditte produttrici di utilities (elettricità e gas) e quelle fornitrici di servizi, come le banche, le compagnie telefoniche e le poste, hanno messo in atto una vera concorrenza che, se ha da una parte peggiorato i salari e le condizioni di lavoro dei dipendenti, hanno offerto ai consumatori tariffe molto più basse di quelle dei vecchi monopoli. Le cose sono andate meno bene in Italia, dove le collusioni tra ditte, più volte rilevate dall’autorità garante della concorrenza, hanno permesso loro di mantenere tariffe elevate.
Nel nostro paese, criteri liberali sono stati utilizzati anche nelle politiche del lavoro. Questa scelta corrispondeva da una parte al desiderio di veder diminuire la disoccupazione, dall’altra di contrastare un atteggiamento iperprotettivo da parte dei sindacati. Spesso questi sceglievano di coprire anche i lavoratori che commettevano colpe ed errori gravi e a volte preferivano che le imprese fallissero piuttosto che accettare qualche sacrificio da parte dei salariati. Non conosco statistiche su cui poter appoggiare questa affermazione, ma mi baso su affermazioni fatte da amici imprenditori, anche solidamente di sinistra, o da colleghi di lavoratori che sono risultati protetti a torto dai sindacati. Anche la destra ha seguito questa strada, ma con maggiore abilità comunicativa del centro-sinistra. Berlusconi, quando ha fatto approvare la legge cosiddetta Biagi, è riuscito a presentarla come uno strumento per stimolare la crescita; e Brunetta, quando prese le misure restrittive sul lavoro dei dipendenti pubblici seppe, con mossa squisitamente populista, additarli come detentori di privilegi da abbattere per spirito egualitario. Macron sta cercando di fare la setssa cosa coi ferrovieri. Il presidente francese non è un populista, ma un po’ di populismo c’è in ogni politico.
In Germania il governo Schröder ha associato riforme del lavoro basate, come quelle italiane, sulla flessibilità (contratti a termine e a progetto) a una riforma dell’assistenza del welfare che ha toccato l’assistenza sanitaria, le indennità di disoccupazione, le pensioni e l’assistenza sociale ai più poveri. In assenza di una legge sul salario minimo (che è però stato introdotto dai socialdemocratici nella scorsa legislatura) queste riforme si sono tradotte in un peggioramento del livello e delle condizioni di vita di molti occupati, hanno trasformato molti disoccupati in sottoccupati che guadagnano cifre minime e sono numerosi soprattutto nelle regioni dell’ex Germania dell’Est (non per nulla quelle dove l’estrema destra ha avuto i migliori risultati elettorali. Le leggi Hartz (così vengono chiamate le misure di Schröder) non sono state assolutamente misure populiste, anzi sono risultate da un razionalismo economico che ha dato molti frutti: l’economia tedesca, che era molto rallentata, ha ricominciato a crescere, il numero dei disoccupati totali è diminuito grazie alla sottoccupazione, le finanze pubbliche hanno tratto profitto dai risparmi sul welfare. Si può discutere se questi risultati positivi siano dovuti solo o soprattutto alle leggi Hartz, visto che la Germania ha visto anche aumentare le sue esportazioni proprio verso quella Cina che sta mettendo in crisi le industrie di tutto il resto del mondo. E questo è sicuramente dovuto al prestigio delle marche tedesche piuttosto che ai ridotti costi del lavoro, certamente non concorrenziali con quelli asiatici. Ci si può domandare perché, di fronte a un’economia che va di nuovo a gonfie vele, i governi tedeschi, formati da socialdemocratici e della destra sociale della CDU, non attenuano il carattere vessatorio e l’oppressione economica delle leggi Hartz. Forse si tratta di un atteggiamento prudente dovuto alla presenza di un debito pubblico certo molto inferiore a quello italiano, ma tutt’altro che piccolo (circa l’80 per cento del PIL). Tuttavia questa razionalità economica (se c’è) non viene capita da molti tedeschi, che vedono in essa il risultato dello strapotere dei detentori di capitali, effetto e causa delle disuguaglianze. Il risultato è il crescente successo delle forze populiste (AfD – Allianz für Deutschland), che in Germania sono di estrema destra, benché sistematicamente espellano i militanti apertamente neonazisti. Le elezioni del settembre scorso hanno permesso per la prima volta dalla fine della guerra all’estrema destra di sedere in parlamento. Se il peggioramento delle condizioni di vita ha allontanato dai partiti di governo i poveri, che sono particolarmente sensibili alle sirene del populismo, quessto risultato elettorale ha invece allontanato gli elettori progressisti, che giudicano in particolare i socialdemocratici incapaci di fare proposte di sinistra.
Immigrati e rifugiati sono un problema serio
Il voto per l’Afd, come quelli per la Lega per il Front National, per il Brexit, per Wilders, per Kurt e per le analoghe formazioni xenofobe in Polonie e in Ungheria e è stato fortemente alimentato anche dalle paure suscitate dalla presenza di immigrati e rifugiati. Anche i turchi, che stanno in Germania da decenni, vengono ora indicati come corpi estranei da cui il popolo tedesco si dovrebbe liberare. Insieme ai rifugiati siriani, afgani e curdi vengono indicati come responsabili di un presunto pericolo di islamizzazione dell’anima germanica. Simili gridi d’allarme si levano in Francia per bocca di Alain Finkielkraut, Michel Onfray e Michel Houellebecq e risuonano in tutta Italia lungo i fili di Facebook e Twitter. L’intellettuale un po’ snob e il bravo borghese che è sensibile ai problemi umani cerca di spiegare, in genere ai suoi simili, che sono già convinti, come quelle paure siano assurde e come l’afflusso di persone di culture e religioni diverse non possa costituire che un arricchimento per lo spirito occidentale. Eppure dovrebbe esser facile da capire come, per molte persone, la presenza sempre più numerosa di individui dalla lingua incomprensibile, dagli usi diversi, dai comportamenti imprevedibili e spesso in contrasto con quelli che sono diventati la norma presso la comunità di accoglienza (vedi per esempio l’atteggiamento nei confronti delle donne) possa costituire una fonte di spaesamento, di inquietudine, di paura. Certo, la soluzione non dovrebbe essere quella di affondare i barconi o trovare altri modi per cacciarli via – anche perché gli economisti ci spiegano che ne abbiamo fortemente bisogno. Tuttavia i partiti non populisti non sono riusciti a fare una politica di integrazione ben fatta, che cerchi di fare capire e accettare agli immigrati i valori delle comunità che li accolgono e a queste i valori degli immigrati e il valore che rappresentano. E in mancanza di tali politiche di integrazione reciproca, non è da stupirsi che molti voti vadano a chi vuole risolver il problema alla radice, cacciando via tutti coloro che sono disomogenei. In Germania, l’accoglienza offerta dallo stato ai rifugiati e il fatto che gli immigrati godano della stessa protezione sociale dei tedeschi vengono descritti, secondo un modello sperimentato in Italia dopo la Prima guerra mondiale e in Germania durante gli anni Trenta, come un’alleanza tra establishment e strati inferiori della società, impegnati insieme a spogliare i veri tedeschi e a distruggere le classi medie. Inoltre la presenza degli immigrati viene considerata come la vera causa della disoccupazione, come succede negli altri paesi europei.
La disoccupazione
Ultimo nella lista dei problemi della gente che ha votato per i partiti populisti c’è il problema della disoccupazione. Le sue cause sono essenzialmente tre e sono purtroppo difficili da affrontare. Una è la sostituzione del lavoro umano con computer e macchine automatich, che hanno reso ridondanti molti dirigenti intermedi e impiegati. I lavori che meno sono stati toccati da questo fenomeno sono quelli che richiedono una preparazione tecnica che però molti disoccupati o giovani in cerca di prima occupazione non hanno. Questo è particolarmente cocente per coloro che hanno conseguito diplomi, lauree o addirittura dottorati in materie non tecniche. Come Parigi, Berlino è piena di artisti, laureati in lettere, psicologia o sociologia che campano facendo i camerieri o i commessi, con retribuzioni di 8-10 euro l’ora, impieghi a tempo parziale (18-20 ore a settimana) e contratti a termine. I casi di lavoro al nero, in cui i datori di lavoro non pagano i contributi e non rispettano il salario minimo non sono affatto rari.
Una seconda causa risiede nell’evoluzione delle leggi che regolano i contratti tra imprese e manager. Per diversi decenni il management pesava, nelle grandi imprese quotate, più degli azionisti e godeva di una grande libertà. In rari casi questo ha spinto alcuni manager a tentare avventure senza scrupoli che hanno condotto al fallimento interi gruppi di imprese (negli stessi anni in cui Calisto Tanzi rovinava gli azionisti della Parmalat, Jean-Marie Messier faceva la stessa cosa con quelli di Vivendi in Francia). Nella maggior parte dei casi però i manager cercavano di assicurare alle ditte uno sviluppo regolare e senza scosse, che spingesse le assemblee degli azionisti a rinnovare il loro incarico. Questo sviluppo regolare era facilitato dalla fidelizzazione del personale, nei confronti del quale le imprese avevano una politica di solidarietà e di paterna protezione. Nella fase attuale invece l’equilibrio si è spostato in favore degli azionisti. A questi, soprattutto se non si tratta di individui, ma di fondi di investimento, non interessa lo sviluppo pacifico e regolare dell’impresa, ma i ritorni rapidi sugli investimenti, ovvero i dividendi e la valorizzazione delle azioni. I dirigenti sono perciò spinti a perseguire risultati di corto termine che assicurino guadagni grossi e rapidi agli azionisti, pena l’abbandono da parte di questi, della loro società e l’investimento in altre ditte, in altri paesi. In questa configurazione il personale viene visto come una variabile funzionale al profitto, la stabilità del posto di lavoro e la fedeltà del lavoratore alla ditta non hanno più nessuna importanza. Tipici sono i casi in cui una società che consegue profitti molto elevati invece di assumere nuovo personale ed aumentare la produzione, procede a licenziamenti massicci: il risparmio realizzato in questo modo va ad aumentare il capitale finanziario dell’impresa che, suddiviso per un numero fisso di azioni, ne produce un aumento di valore. Questa concezione del rapporto tra impresa e personale è uno dei fattori che producono disoccupazione e precarietà. Senza leggi che garantiscano la flessibilità del lavoro e rendano facili i licenziamenti, le operazioni sul personale richieste da queste strategie di gestione non sarebbero possibili. E’ chiaro che questo problema ci riporta alla questione delle disuguaglianze: in questo caso della disparità nel potere fondata sulle disuguaglianze patrimoniali.
La terza causa della disoccupazione è la perdita di competitività di tutti i paesi di vecchia industrializzazione sui mercati mondiali. I loro prodotti hanno perso quote rilevanti nell’insieme mondiale delle esportazioni. La ragione è facilmente intuibile e risiede nella concorrenza delle economie emergenti, in particolare della Cina. Questa non era tuttavia una fatalità storica, ma risulta in una serie di accordi commerciali che hanno aperto a questi paesi i nostri mercati, che prima gli erano preclusi. Questa apertura ha portato grandi vantaggi tanto a quelle società occidentali che o esportano molto verso quei paesi (per esempio le ditte italiane e francesi del lusso o le case automobilistiche tedesche), quanto a quelle che hanno delocalizzato lì almeno una parte della produzione. Il problema è che si tratta in genere della parte più labour intensive e perciò le delocalizzazioni si traducono in disoccupazione.
Per concludere
Naturalmente la concorrenza “cinese” fa parte dei bersagli preferiti delle forze populiste. Si vedano per esempio le recenti decisioni di Trump che staremo tutti ad osservare, per vedere se e con quali danni per l’economia americana saranno attuate. Le previsioni degli economisti sono fosche, ma la politica di Trump costituisce, come il brexit, un interessante esperimento da seguire.
Di fronte a tutti questi problemi i movimenti populisti affermano di avere soluzioni facili, che richiedono solo una forza di decisione maggiore di quella dimostrata dai partiti tradizionali, un esercizio della politica disinteressato e una maggiore empatia con gli elettori. Probabilmente il primo argomento si rivelerà fasullo, perché questi problemi sono in realtà molto difficili, date soprattutto le loro interconnessioni. Quanto al disinteressamento, una realtà opposta a questa immagine si sta già mostrando fin dai primi giorni che hanno seguito le elezioni, così come per la lega si mostrò con gli scandali che coinvolsero Bossi e suo figlio. Quanto all’empatia, ahimé, temo che abbiano ragione, almeno per quel che riguarda gli altri partiti.
Un tratto rilevante, infatti, dei partiti non populisti di tutto il mondo è il loro crescente isolamento rispetto alla vita della gente normale, l’impegno quasi esclusivo nelle lotte di potere e la conseguente incapacità di capire e farsi capire dagli elettori. Come affermava un vecchio slogan liberale, i partiti non servono a risolvere i problemi, essi ne fanno parte. Questo non è sempre stato vero, ma lo è senz’altro a proposito dei partiti così come sono diventati. L’eliminazione delle strutture che collegavano elettori ed eletti, militanti e dirigenti si è rivelata fatale. Questo ha reso difficile la comunicazione tra i diversi livelli di responsabilità politica, ha fatto scomparire le vecchie strutture di controllo e quelle di selezione e formazione dei dirigenti. Si segnalano casi in cui l’attività politica all’interno dei partiti è diventata solo un modo per curare i propri interessi, quando non un modo di sbarcare il lunario per persone incapaci di fare altro. Questo accadeva di frequente nella vecchia DC e nel Psi, molto di meno nel PCI. Ora avviene ovunque, anche se ci sono eccezioni. Si veda in proposito la “mappatura” dei circoli del PD italiano fatta da Fabrizio Barca nel 2013 e quella dei circoli del PD romano fatta nel 2015. Cosa possono aspettarsi questi partiti, se non si trasformano profondamente, se non di essere abbandonati dai propri elettori? In Europa, questi sono stati catturati da Farrage e Johnson, da Wilders, dall’AfD, dal Front National e dalla Lega e i 5 Stelle. Andiamo probabilmente incontro a 7 anni di guai. Ma gli elettori americani sono stati catturati da Trump e qui i guai si fanno più seri.
[1] Tra gli articoli di respiro più ampio vorrei ricordare quello che Roberto Tamborini ha pubblicato sulla rivista online “Menabò di Etica ed Economia”, “La geometria della sconfitta”, che analizza, sull’arco degli ultimi decenni, la capacità della socialdemocrazia di capire ed affrontare i problemi più rilevanti che si sono succeduti in questo arco di tempo.
[2] Dati del 2011 riportati negli atti del convegno “Sistemi di welfare in Europa”, organizzato dalla CGIL Lombardia.
[Immagine: Foto di Andreas Gursky].
“Tanto più che i media legati alle forze populiste di destra e estrema sinistra, hanno fatto circolare un’interpretazione fallace delle politiche di rientro dal debito, attribuendone la necessità alle norme dell’Unione Monetaria Europea, all’Euro, alla cattiveria della Merkel. ”
Qui non sono riuscito a trattenere una risata. Vivendo a cavallo tra tre paesi della UE, posso constatare che i media sono quasi tutti fortemente proeuropei -come negli USA erano d’altronde pro-Clinton.
La sinistra ha perso perché finché è apparsa sinistra (2008) è sempre stata minoritaria nel paese salvo accozzaglie improbabili
La sinistra ha perso perché ha bombardato la Serbia togliendo ogni illusione sui propri ideali (vedi Libia) con i quali però poi, finita la guerra, pretende di vincere le elezioni
La sinistra ha perso perché ogni volta che un populista sta per vincere, i media (quelli che sarebbero di destra o di addirittura di estrema sinistra) parlano di un crollo delle borse che puntualmente non avviene.
La sinistra ha perso perché la Fornero ha considerato indispensabile tagliare pensioni da 500 euro.
La sinistra ha perso perché ha fatto passare una riforma dei vaccini come una battaglia a favore della scienza mentre la scienza è dubbio e questo lo sanno anche nei caseggiati in periferia di Belluno o di Agrigento
La sinistra ha perso perché Boeri con un sorriso beffardo ha parlato di tagliare pensioni concesse con un sistema di trent’anni fa mentre tace sulle buone uscite ai manager statali
La sinistra ha perso perché non è riuscita ad aumentare le tasse ai ricchi e diminuirle ai poveri (impresa assai difficile, invero, vedi Hollande in Francia, ma in Italia ci sarebbe più margine)
Insomma la sinistra non esiste che come partito che vorrebbe spruzzare un po’ di profumo sul nuovo sistema feudatario, dimostrandosi in questo modo più un partito ideologico che economico, più moralista che morale.
A questo prezzo molti preferiscono la destra, la cui ideologia morale, quantomeno, è ben più diffusa e coerente. Non vedo perché non dovrebbe essere così. L’articolo di Caracciolo mi sembra incredibilmente pertinace nell’errore di fare di PD e UE europea l’unica scelta possibile e degli argomenti di ogni oppositore una sorta di fantasma dello spirito (la sinistra è pateticamente hegeliana= totalità, razionalità, ecc.). Mancano parole sull’eccedenza commerciale della Germania, sul Portogallo che si riprende evitando cure Prodi-Monti, sull’assurdità della barriera del 3% ecc..
“Ci si può domandare perché, di fronte a un’economia che va di nuovo a gonfie vele, i governi tedeschi, formati da socialdemocratici e della destra sociale della CDU, non attenuano il carattere vessatorio e l’oppressione economica delle leggi Hartz. […] questa razionalità economica (se c’è) non viene capita da molti tedeschi”. Direi che non la capisce neanche Caracciolo, che pure è un esperto. Io non sono esperto, quel che dico non conta, ma non posso non chiedermi se Caracciolo nel suo articolo quando parla di “razionalità” in economia, distinguendola dall'”ideologia”, non dia troppe cose per ovvie e sottintese
Salve,
ammesso e non concesso che ciò che lei scrive sul debito pubblico italiano sia corretto, ciò che sicuramente mi preme farle notare è che lei ha un modo truffaldino (mi permetta questa parola, lo so che lei riporta una sintesi) di far passare le riforme Harz in Germania considerandole come la base del successo tedesco che deriverebbe appunto da riforme del mercato del lavoro in RFT dal 2004-2005. Io penso invece che lei dovrebbe spiegarci perché la Germania ha iniziato ad avere dei surplus così notevoli proprio a partire da quegli anni (ne aveva anche prima, ma dell’ordine del 2-4%). E allora si capirebbe anche che le riforme Harz sono un parte di un combinato tendente a realizzare i surplus con l’estero, surplus che ormai raggiungono anche il 9% del Pil (Obama aveva già redarguito la RFT, ma adesso con Trump non c’è più da scherzare). L’altro membro del combinato ci chiama euro, una sorta di marco che non si rivaluta mai come dovrebbe.
E così si capisce perché l’Italia ha perso industrie e quote di mercato nazionali e internazionali, oltre che ricchezza e posti di lavoro, competenze e saperi. Tutto a vantaggio della RFT. E così ritorniamo al punto di inizio: sicuro sicuro che sia un problema di debito pubblico?
Caro Signor Vincenzo,
forse non mi sono espresso in modo chiaro. Neanche io penso che il successo delle esportazioni tedesche, soprattutto verso la Cina, sia dovuto alla diminuzione del costo del lavoro ottenuta con le riforme Hartz. Per ottenere questo risultato, le riforme Hartz, ed anche la moderazione salariale accettata dai sindacati, non sarebbero mai bastate – hanno forse dato un contributo. E’ per migliorare la situazione dei conti pubblici, del deficit annuale che, se ben ricorda, nei primi anni 2000 superò di gran lunga (come quello francese) i parametri detti di “Maastricht”, i cui valori erano stati impostati proprio su indicazioni tedesche. Lo “sforamento” tedesco e francese fu tollerato, mentre i tedeschi non hanno mostrato in seguito una analoga indulgenza nei confronti degli altri paesi che, come l’Italia, non hanno più potuto fare politiche di rilancio. Quanto alle esportazioni tedesche, bè, non intendevo scrivere un’enciclopedia sull’economia tedesca, ma solo portare alcuni esempi di politiche che hanno effetti dolorosi e inaccettabili per molti cittadini (tedeschi), con la conseguenza che i voti al partito populo-sciovinista tedesco aumentano. Forse, se fossi riuscito ad essere più chiaro, le sarebbe apparso evidente che ero d’accordo con Lei.
Caro Signor Jacopo,
La ringrazio per permettermi di chiarire un punto che, effettivamente, ho dato per scontato nel mio articolo, quando ho parlato di razionalità. Il termine ha un significato preciso in economia, ma non quello che a cui ho fatto riferimento (in microeconomia si parla di “consumatore razionale” quando si vuole indicare un soggetto astratto sulla base del cui comportamento si fonderebbero, se tale soggetto esistesse, le cosiddette “leggi” della domanda e dell’offerta). Nel mio articolo volevo usare due parole che caratterizzino, l’una il criterio seguito dai partiti populisti per giustificare le proprie scelte, e cioè qualcosa che è dell’ordine dell’imprescindibile (in questo caso, non accettare sacrifici pesanti), l’altra il criterio seguito dagli altri partiti per giustificare le proprie, un criterio che fa appello alla razionalità: nel caso in questione, il ragionamento è “quello che proponiamo non vi piace, ma è alla luce delle previsioni che possiamo fare ragionando con gli schemi delle teorie economiche che consideriamo valide e che sono state confermate dalle osservazioni empiriche fatte finora [io sottolineo il “finora”], permette di creare una situazione che è migliore di quella che si verificherebbe se si facesse diversamente”. Chiamo razionale questo tipo di giustificazione delle proprie scelte (forse sarebbe meglio dire razionalistico), e chiamo ideologico la giustificazione basata sull’idea che qualcosa è imprescindibile.
Filou,
non sono capace di risponderle.
“ Martedì 25 febbraio 1997 – Il debito pubblico / Romanzo. “.
È un peccato, Sig. Caracciolo.