di Fredric Jameson

[Esce in questi giorni per Cronopio la traduzione italiana del libro di Fredric Jameson Raymond Chandler. L’indagine della totalità a cura di Giuseppe Episcopo: un lavoro critico che attraversa le forme culturali, i tratti sociali, gli aspetti della vita messi in prosa dalle opere di Chandler, lo scrittore che più di altri ha contribuito alla nascita del genere hard boiled. È uno dei pochi testi critici che Jameson dedica interamente a un singolo autore. Pubblichiamo un estratto dal primo capitolo, ringraziando l’editore per avercelo concesso]. 

Parecchio tempo fa, quando scrivevo per le riviste pulp, misi in un racconto una riga tipo: «Scese dalla macchina e si avviò lungo il marciapiede inondato dal sole finché l’ombra del tendone sopra l’ingresso gli tagliò il viso col tocco dell’acqua gelida». La tagliarono, quando pubblicarono il racconto. I loro lettori non apprezzavano questo genere di cose – rallentava l’azione.
Ho tentato di dimostrare il contrario. La mia teoria era che i lettori semplicemente pensavano che interessasse loro solamente l’azione e che in realtà, anche se non se ne rendevano conto, la cosa che interessava loro, e che interessava anche me, era la creazione di emozioni mediante dialoghi e descrizioni[1].

Che il romanzo poliziesco abbia rappresentato per Raymond Chandler molto più di un mero prodotto commerciale, confezionato ai fini dell’intrattenimento popolare, lo si può comprendere col considerare che vi sia giunto in tarda età, al termine di una carriera lunga e di successo nel mondo degli affari. Chandler pubblicò il suo primo e più importante romanzo, Il grande sonno, nel 1939, quando aveva cinquant’anni, e dopo averne studiato la forma per almeno un decennio. I racconti pubblicati in quell’arco di tempo sono, per la maggior parte, lavori preparatori, episodi che avrebbe ripreso integralmente inserendoli in veste di capitoli all’interno di una forma più lunga. Aveva sviluppato la sua tecnica imitando e rielaborando i modelli messi a punto da altri autori di romanzi polizieschi: si trattò di un apprendistato intenzionale e cosciente, condotto in un periodo della vita nel quale la maggior parte degli scrittori ha già trovato la propria strada.

Due aspetti del suo passato sembrano dare conto del tono personale dei suoi libri. Prima che la grande depressione lo costringesse ad abbandonare l’attività, Chandler aveva vissuto a Los Angeles per una quindicina d’anni in qualità di dirigente nell’industria petrolifera: un tempo sufficientemente lungo per comprendere cosa rendesse unica l’atmosfera della città; una posizione particolarmente privilegiata da cui osservare cosa fosse il potere e quali forme prendesse. In secondo luogo, nonostante fosse nato in America, Chandler trascorse gli anni della scuola, dall’età di otto anni, in Inghilterra, ricevendo l’educazione tipica dei college inglesi.

Non è un caso che Chandler tenesse in considerazione innanzitutto la qualità stilistica della sua prosa, ed è stata la sua distanza dall’americano che gli ha dato la possibilità di usare il linguaggio nel modo in cui l’ha fatto. Da questo punto di vista la sua condizione non è dissimile da quella di Nabokov: lo scrittore che lavora in una lingua adottata è già, per forza di cose, una sorta di stilista della prosa. Per lui la lingua non potrà mai essere istintiva né esisteranno parole non problematiche. Ogni disposizione semplice e spontanea nei confronti dell’espressione letteraria è bandita per sempre, lo scrittore sente nella sua lingua una sorta di densità materiale, di resistenza: anche quei cliché e quei luoghi comuni che, per i madrelingua, non sono più neanche vere e proprie parole ma comunicazione immediata acquistano, se pronunciate da lui, una strana risonanza, sono usate tra virgolette, come se volesse esibire con cura un esemplare interessante: le sue frasi sono un collage di materiali eterogenei, di strani relitti linguistici, di figure retoriche e di colloquialismi, toponimi e dialettismi, tutti laboriosamente impastati per creare l’illusione di un discorso continuo. In questo la condizione vissuta dallo scrittore che prende in prestito una lingua non sua è già di per sé emblematica della condizione dello scrittore moderno in generale, nel senso che per lui le parole sono diventate oggetti. Il romanzo poliziesco, in quanto forma senza un esplicito contenuto ideologico, senza una posizione politica, sociale o filosofica manifesta, consente questa pura sperimentazione linguistica.

Ma ciò presenta anche altri vantaggi, e non è un caso che i maestri dell’arte per l’arte del tardo modernismo, Nabokov e Robbe-Grillet, organizzino quasi sempre i loro lavori intorno a un delitto: si pensi a Il voyeur e a Casa d’appuntamenti, si pensi a Lolita e a Fuoco pallido. Questi scrittori, e gli artisti loro contemporanei, rappresentano una sorta di seconda ondata dell’impulso modernista e formalista che aveva prodotto il grande modernismo delle prime due decadi del ventesimo secolo. Tuttavia, nelle prime opere, il modernismo rappresentava una reazione alla costruzione narrativa e alla trama: qui il vuoto evento decorativo del delitto funge da principio organizzatore che accomoda un materiale essenzialmente privo di trama in un movimento illusorio, negli arabeschi che assolvono al piano formale, di un mistero che poco a poco si disvela. Infatti il reale contenuto di questi libri è quasi di natura scenica: il paesaggio americano fatto di motel e cittadine universitarie in Lolita, l’isola in Il voyeur, la smorta provincia in Le gomme o Nel labirinto.

In modo non del tutto dissimile si può sostenere che Chandler sia un pittore della vita americana: non costruisce quei vasti modelli dell’esperienza americana che offre la grande letteratura, ma piuttosto ritrae quelle immagini frammentarie di ambienti e luoghi, quelle percezioni frammentate che, per una sorta di paradosso formale, sono in qualche modo inaccessibili alla letteratura seria.

Si prenda ad esempio un’esperienza quotidiana insignificante, come l’incontro casuale di due persone nell’androne di un condominio. Noto il mio vicino di casa aprire la sua cassetta delle lettere, non l’ho mai visto prima, ci scambiamo una breve occhiata, lui è di spalle e cerca di estrarre dalla cassetta una rivista troppo grande. Questa istantanea esprime, pur nella sua qualità frammentaria, una profonda verità sulla vita americana, con le sue macchie sulla moquette, le sputacchiere piene di segatura, le porte a vetro che si chiudono male, tutte testimonianze dell’anonimia dimessa dei luoghi d’incontro, collocati tra le vite private che scorrono lussuosamente dietro le porte degli appartamenti, una accanto all’altra, come chiuse monadi: la tristezza delle sale d’aspetto e delle stazioni degli autobus, dei luoghi negletti della vita collettiva che riempiono gli interstizi tra i comparti privilegiati in cui vive il ceto medio. Mi sembra che nella sua intima struttura una tale percezione dipenda dal caso e dall’anonimia, da un vago sguardo lanciato di sfuggita, come dal finestrino di un pullman, quando la mente è intenta in preoccupazioni più immediate: la sua essenza è di essere inessenziale. Per questo motivo essa sfugge al registro della grande letteratura: si faccia di queste percezioni una sorta di epifania joyciana e il lettore sarà obbligato a considerare questi momenti come il centro del suo mondo, come qualcosa esplicitamente infuso di un significato simbolico e, di colpo, la più sottile e precisa qualità della percezione è irrevocabilmente danneggiata, la sua esilità perduta, non potrà più essere appena avvertita, appena dimenticata – l’assenza di significato diviene arbitrariamente un significato dato.

Si collochi invece questa esperienza nel quadro del romanzo poliziesco e tutto cambia. Mi accorgo che l’uomo che ho visto non vive nemmeno nel mio palazzo, che in realtà stava aprendo la cassetta delle lettere di una donna assassinata, non la sua. Improvvisamente la mia attenzione ritorna a quella percezione trascurata e la vede in una forma rinnovata, accresciuta senza che la sua struttura ne sia danneggiata. Di fatto è come se ci fossero alcuni momenti nella vita che sono accessibili solo al prezzo di una certa assenza di attenzione: come per gli oggetti alla periferia del campo visivo che scompaiono quando vengono osservati direttamente. Proust l’aveva avvertito chiaramente, la sua intera estetica presupponeva un antagonismo quasi assoluto tra spontaneità e autocoscienza. Secondo Proust, possiamo essere certi di aver vissuto, di aver percepito solo dopo che l’esperienza stessa sia avvenuta: il programma deliberato, volontario, d’incontrare l’esperienza vis-à-vis nel presente è, per Proust, sempre destinato al fallimento. Entro certi limiti, la struttura temporale specifica del miglior romanzo poliziesco è anch’essa un pretesto, una cornice organizzativa più alta, per questa percezione isolata.

È sotto questa luce che va osservata la famosa differenza tra le atmosfere del romanzo poliziesco inglese e americano. Gertrude Stein, nelle sue Conferenze americane, riconosce la componente fondamentale della letteratura inglese in un’inesauribile descrizione del “quotidiano”, della routine del vissuto e della sua continuità, nella quale i beni e gli averi sono giornalmente riepilogati e valutati, e la cui struttura di fondo è quella del ciclo e della ripetizione. La vita americana – il contesto americano – dall’altro lato, è privo di forma, dev’essere sempre reinventato perché è un territorio selvaggio e inesplorato in cui la stessa nozione di esperienza è continuamente revocata in dubbio e riscritta, in cui il tempo è una successione indeterminata dalla quale risaltano con chiarezza pochi istanti, decisivi, esplosivi, irreversibili. Di conseguenza, in un placido villaggio inglese o in un club londinese avvolto nella nebbia il delitto è interpretato come il segno di una scandalosa interruzione di una quieta continuità, laddove la violenza delle bande urbane delle grandi città americane è percepita come un destino segreto, una sorta di nemesi appostata sotto la superficie delle fortune acquisite frettolosamente, dell’anarchica crescita delle città e della caducità della vita individuale. Eppure, in entrambi i casi, il momento dell’esplosione della violenza, apparentemente centrale, non è altro che una deviazione: la vera funzione del delitto in un tranquillo villaggio è di consentire che l’ordine sia sentito in maniera più forte, invece nel romanzo poliziesco americano l’effetto principale della violenza è di permettere che questa sia percepita a ritroso, nel puro pensiero, senza rischi, come uno spettacolo contemplativo che concede non tanto l’illusione della vita quanto l’illusione che la vita sia già stata vissuta, che sia già avvenuto il contatto con le sorgenti arcaiche di quell’Esperienza della quale gli americani hanno sempre fatto un feticcio.


[1] Raymond Chander, Lettera a Frederick Lewis Allen (7 maggio 1948), in Dorothy Gardiner e Katherine Sorely Walker, a cura di, Parola di Chandler, trad. it. di Sandro Veronesi, Coconino Press, Bologna 2011, pp. 269-270.

 

[Immagine: Raymond Chandler]

6 thoughts on “Raymond Chandler. L’indagine della totalità

  1. “ 2 settembre 1987 – « “ Credevo che lavorasse a letto come Marcel Proust “ “ Chi è? “ “ Un grande scrittore francese “ » (Il grande sonno, Howard Hawks, 1946) “

  2. “ Martedì 14 maggio 2002 – Povero Dombroski. Per me, va detto, è una vecchia conoscenza. Lo dico sen-za alcuna sciocca ironia. Lo capisco quando vedo il suo libro – verdino, un po’ triste, nelle decadute edizioni Vallecchi: Introduzione alla poetica di Carlo E. [sic] Gadda (1974). Lo riconosco: l’ho già letto, sta ancora, fra gli altri di e su Gadda, nella libreria di Siena, rimasti lì, come ci li ho messi, un quarto di secolo fa. Quando mi sono laureato, con una tesi – me ne accorgo solo ora – che aveva un titolo quasi identico a quello del saggio del professore a-mericano: La formazione della poetica di C. E. Gadda. Povero Dombroski. Senza rubare, va detto, niente a nessuno – tantomeno a me, che non possiedo niente -, studiava le stesse cose che avrei voluto, dovuto studiare io: Gadda, naturalmente, ma anche Manzoni – L’apologia del vero. Lettura ed interpretazione dei Promessi sposi, 1984 -, oppure la letteratura e i suoi rapporti con la politica – L’esistenza ubbidiente. Letterati italiani sotto il fascismo, 1984 -, oppure il barocco – Gadda e il barocco, 2002. In Dombroski ritrovo anche un autore che, un quarto di secolo fa, forse avrei dovuto leggere: Fredric Jameson, un buffo marxista americano – i marxisti americani sono buffi -, me lo consigliò Fortini: Marxismo e forma, 1975 [1974]. Dombroski, va detto, ha scritto su «Allegoria» un articolo dal titolo: Jameson e il cinema (16, 1994). È certamente una recensione al libro di Jameson The geopolitical aesthetic: cinema and space in the world system (1992). Chissà se lo leggerò mai. Comunque sono contento di sapere che c’è almeno uno che ha capito che se sotto il fascismo c’erano i letterati, sotto l’antifascismo deve esserci qualcun altro. “.

  3. “ Giovedì 5 dicembre 2008 – Poi mi ricordo che ho letto che Jameson ha scritto un libro in cui dice che lo spazio ha preso il posto del tempo. Infatti mi pareva. “.

  4. Quando su questi frammenti d’erlebnis d’adriano barra s’innestano schegge di vissuto d’un lettore occasionale, come nel mio caso (siena, dombroski, allegoria), allora direi che la condivisione operi come valore aggiunto accrescendo il piacere testuale

  5. “ Martedì 3 luglio 2001 – « Invece, Walt Disney detestava i gatti. Soltanto nel 1970 si decise a creare un personaggio che, naturalmente, non gli portò successo né denaro. Disney era una di quelle persone che non si fanno mai voler bene dai gatti. Credo che sia stato Chandler a dirlo. Non so se nella biografia del detective Marlowe o nella propria. » (Osvaldo Soriano, Metti un gatto nel romanzo, in «La Repubblica», oggi) “.

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