di Dwight Macdonald
[È uscita da poco, per Piano B edizioni, una nuova edizione italiana di Masscult e Midcult (1960) di Dwight Macdonald, a cura di Mauro Maraschi, che è autore della traduzione e della prefazione. Il volume contiene anche uno scritto su Macdonald di Umberto Eco pubblicato in Apocalittici e integrati.
Masscult e Midcult è un testo fondamentale per capire la sociologia della cultura contemporanea. Ciò che rimane decisivo e illuminante è soprattutto la categoria di Midcult. «Più di trent’anni dopo, possiamo ammetterlo: il Midcult ha vinto», scriveva Vittorio Giacopini nel 1996, in una frase che Maraschi riprende nella prefazione. «È diventato la norma della nostra cultura, il suo ventre molle. Midcult – oggi – sono (quasi tutte) le pagine culturali dei quotidiani e i programmi colti della televisione. Midcult sono l’università, il giornalismo, il lavoro culturale». Le pagine che seguono contengono una definizione di questo concetto]
Oggi, ovviamente, ci troviamo in un’epoca più sofisticata. […] dal 1929 sono state costruite tante di quelle fabbriche e aziende che il problema non è più la produzione quanto il consumo. La settimana lavorativa si è accorciata, gli stipendi sono aumentati, e mai prima d’ora la percentuale di persone con un tenore di vita elevato è stata alta come negli Stati Uniti a partire dal 1945. Al momento gli iscritti all’università sono oltre quattro milioni, tre volte quelli del 1929. Soldi, tempo libero e conoscenza, i requisiti base della cultura, non sono mai stati così abbondanti ed equamente distribuiti.
In un’epoca così avanzata, la Cultura Alta non è più minacciata dal Masscult, quanto da quell’ibrido nato dai rapporti contro natura che la Cultura Alta ha intrattenuto con esso. Si tratta di una variegata cultura intermedia che minaccia di assorbire entrambi i genitori. Questa forma – che chiameremo Midcult – ha le stesse caratteristiche fondamentali del Masscult (la formula, le Reazioni Controllate, il rifiuto di qualsiasi standard qualitativo a favore della popolarità) ma le nasconde per pudore sotto una foglia di fico qualitativa. Nel Masscult il trucco è scoperto: piacere al pubblico con ogni mezzo. Il Midcult, invece, attira il pubblico in due modi diversi: da un lato finge di rispettare i canoni della Cultura Alta, dall’altro, a conti fatti, li annacqua e li volgarizza.
È facile riconoscere il nemico quand’è fuori dalle mura. Ma il Midcult si propone come parte integrante della Cultura Alta, ed è quest’ambiguità a renderlo pericoloso. Non propone chicche da circoletto elitario o snobismi per quegli intellettuali che parlano soltanto tra loro, bensì un mainstream essenziale, di ampio respiro e facile comprensione, anche se forse non particolarmente profondo. Chiunque può accedervi per 16 dollari e 70, senza pagamenti anticipati, semplicemente compilando un tagliando e ricevendo direttamente a casa, nell’arco di un anno, sei numeri di Horizon: A Magazine of the Arts, con la sua copertina cartonata e le illustrazioni accattivanti, «probabilmente il magazine più bello del mondo […] che prova a guidarvi nel lungo processo di approfondimento culturale dell’uomo moderno, per esplorare le mille strade percorse da filosofi, pittori, storici, architetti, scultori, umoristi e poeti […] per gettare un ponte tra il mondo accademico e quello dei lettori intelligenti. Saranno soldi ben spesi. Compila subito il tagliando!». Horizon ha circa 160.000 abbonati, un numero che supera le tirature complessive, dopo tanti anni di fatiche, di Kenyon, Hudson, Sewanee, Partisan, Art News, Arts, American Scholar, Dissent e Commentary e di un’altra decina di importanti riviste culturali americane.
Il Midcult non è, come potrebbe sembrare a primo acchito, una versione di qualità del Masscult, ma piuttosto una corruzione della Cultura Alta che presenta enormi vantaggi sul Masscult: pur essendo anch’esso «completamente succube dello spettatore», per usare la definizione di Malraux, è in grado di passare per cultura vera. È Midcult la versione riveduta e corretta della Bibbia, pubblicata alcuni anni fa sotto l’egida della Yale Divinity School, che distrugge il più importante monumento della prosa inglese, la Bibbia di re Giacomo, unicamente per rendere il testo «chiaro e comprensibile alla gente di oggi», il che è un po’ come abbattere l’Abbazia di Westminster per costruire una Disneyland con le sue macerie. È Midcult la sezione cinematografica del Museo di Arte Moderna che rende omaggio a Samuel Goldwyn, insinuando che i suoi film siano (almeno un po’) migliori di quelli degli altri produttori di Hollywood, nonostante sia un enigma semantico il fatto che vengano chiamati “produttori”, quando non fanno altro che impedire la creazione di arte (si pensi, in tal senso, alla sorte toccata a Hollywood ad artisti come Griffith, Chaplin, von Stroheim, Ejzenštejn e Orson Welles). È Midcult la venerata rivista Atlantic, fondata nel 1857, che però nel secolo scorso pubblicava Emerson, Lowell, Howells, Hanry James e Mark Twain, mentre sulla copertina di un numero recente ha messo un ritratto fotografico di Dore Schary, che ha da poco trasferito il suo sentimentalismo colto da Hollywood a Broadway; il numero ospita un suo sermone intitolato «A un giovane attore», che dopo aver sintetizzato Jefferson, Polonio e il predicatore Norman Vincent Peale, così conclude: «Non siate soltanto dei bravi cittadini sul lavoro, ma anche nel mondo in cui vivete. Indignatevi di fronte alle ingiustizie, siate sobri nel successo, coraggiosi coi fallimenti, pazienti con le opportunità e risoluti nella fede e nell’onore». È Midcult il Club del Libro Del Mese, che dal 1926 propina ai suoi abbonati libri dei quali la cosa migliore che si può dire è che potrebbero essere ancora più scadenti: per intenderci, ricevono Hemingway piuttosto che Faulkner. È Midcult il passaggio dal duo storico Rodgers e Hart a quello composto da Rodgers e Hammerstein, dai testi gioiosi e malinconici di Pal Joey, spontanea espressione di quel luogo reale chiamato Broadway, al folclore fasullo di Oklahoma! e ai sentimentalismi di South Pacific. È Midcult, o almeno lo è stato, Omnibus, un programma finanziato da una grande fondazione allo scopo di innalzare il livello delle trasmissioni televisive, che esordì annunciando che si sarebbe «rivolto soltanto al pubblico americano medio, né highbrow né lowbrow, il pubblico dei lettori del The Reader’s Digest, di Life e del Ladies’ Home Journal, il pubblico che costituisce la spina dorsale di qualsiasi impresa e dell’America stessa», e che diede prova della sua buona fede spingendo i palinsesti a mescolare Gertrude Stein e Jack Benny, Čechov e le strategie calcistiche, Beethoven e i campioni di pattinaggio. Guarda caso, però, Omnibus si rivelò un fallimento. E per qualche motivo il livello della televisione non ne uscì migliorato.
[…]
Il Midcult è pericoloso perché sfrutta le scoperte delle avanguardie. È un fenomeno del tutto nuovo. Il suo precursore storico, l’Accademismo, aveva in comune con il Midcult il fatto di essere considerato kitsch dall’élite: veniva spacciato per Cultura Alta, ma a conti fatti era un articolo prefabbricato, esattamente come i beni culturali scadenti prodotti per le masse. La differenza è che l’Accademismo si opponeva in modo categorico alle avanguardie. Ne facevano parte pittori come Bouguereau, Alma-Tadema e Rosa Bonheur; critici come Edmund Gosse ed Edmund Clarence Stedman; compositori come Sir Edward Elgar; poeti come Alfred Austin e Stephen Phillips; scrittori come Rostand, Stevenson, James Branch Cabell e Joseph Hergesheimer. L’Accademismo, in un suo modo spaventoso, quantomeno prendeva le distanze dal Masscult. Aveva dei canoni, quelli classici, e istruiva i nouveaux riches, alcuni dei quali finirono per essere così istruiti da riuscire ad apprezzare le avanguardie, e da comprendere che in fondo promuovevano quello spirito della tradizione che gli Accademici stavano uccidendo. Si potrebbe considerare l’Accademismo come uno dei “dolori di crescita” della Cultura Alta, quella crisalide restrittiva necessaria a far nascere qualcosa di nuovo, e il fatto che sia stato abbandonato dopo pochi decenni non fa che confermare questo paragone. A chi interessano più i quadri di Alma-Tadema, oggi? Chi legge più Hergesheimer?
Il Midcult, però, è per la Cultura Alta un avversario più pericoloso dell’Accademismo, appunto perché incorpora parecchi elementi dell’avanguardia. Le quattro opere da me prese in esame erano, almeno per la loro epoca, più mature e raffinate dei romanzi di John Galsworthy; erano, si potrebbe dire, i prodotti di avanguardisti falliti, capaci di usare il linguaggio moderno ma soltanto per veicolare banalità. I loro autori erano tutti espatriati negli anni Venti, persino Benét, che datò la sua epopea americanesca con la sigla «Neuilly-sur-Seine, 1928». A rendere così attraenti i loro ultimi lavori, dal punto di vista del Midcult, è proprio il fatto che questi autori non erano consapevoli di come fossero cambiate le cose, e che si considerassero ancora degli avanguardisti. «Verso la fine degli anni Venti cominciai a perdere interesse per il teatro» scrive Wilder nella prefazione dell’edizione del 1957 di Tre commedie. Spiega che mentre Joyce, Proust e Mann continuavano ad affascinarlo, il teatro non ci riusciva più, e continua così: «Cominciai a pensare che il teatro non fosse soltanto inadeguato, ma persino elusivo: non voleva davvero esplorare le proprie potenzialità […] Mirava a essere consolatorio. Le sue tragedie erano tiepide, le parti comiche non abbastanza mordaci, e la sua critica sociale non riusciva a farci pesare le nostre responsabilità. Cercai di risalire al momento in cui il teatro aveva smarrito la retta via, in cui era diventato un’arte minore, un’innocua deviazione». E quel momento, secondo lui, era stato «il palcoscenico a mo’ di scatola», con le sue scenografie realistiche e il proscenio che separava gli attori dal pubblico. Ma nonostante si fosse reso conto di tutto ciò, i lavori teatrali che inscenò sul suo palco d’avanguardia furono comunque elusivi, consolatori, tiepidi e poco mordaci, e sorprendentemente privi di critica sociale. La famiglia Antrobus (The Skin of Our Teeth), ad esempio, ha un tema tanto vasto quanto quello de La piccola città era modesto, poiché parla dell’intera storia del genere umano, ma lo spirito e i dialoghi sono ugualmente popolari, e la morale, stavolta veicolata dal personaggio di Sabina, la cameriera, è la stessa: la vita viene e va e, come direbbe il Direttore di Scena de La piccola città, non c’è niente da fare. «Qui è da dove siete entrati» dice Sabina mentre cala il sipario. «Noi dovremo andare avanti ancora per anni e anni. Ma voi, tornate pure a casa. La fine di questa commedia non è stata ancora scritta. La signora e il signor Antrobus hanno la testa piena di idee, e lo stesso entusiasmo del giorno in cui hanno cominciato». Una debole provocazione, ma è anche vero che il Midcult è specializzato in provocazioni deboli. Le sue torte sono fatte per essere mangiate in eterno, e in eterno rimanere intatte.
La famiglia Antrobus fu messo in scena per la prima volta nel 1942, nel momento più delicato della guerra, e il suo messaggio (l’adattabilità e la tenacia del genere umano negli eventi più catastrofici) fu ben accolto da tutti. «Io credo che la vitalità dell’uomo si manifesti soprattutto nei momenti di crisi» scrive l’autore. «La mia opera è stata spesso accusata di essere una fantasticheria libresca sulla Storia, piena di innocue battute scolastiche. Ma avervi assistito in Germania poco dopo la fine della guerra, nelle chiese e nelle birrerie sinistrate che fungevano da teatri, con un pubblico per il quale il biglietto d’ingresso significava rinunciare a un pasto, ecco, tutto ciò è stato un’esperienza che stenterei a definire fredda. Sono molto orgoglioso che quest’anno [1957] sia stata rappresentata per la prima volta a Varsavia, e con enorme successo. La pièce deve moltissimo a Finnegans Wake di James Joyce». Personalmente, la qualità libresca è una delle cose che apprezzo di più del dramma in questione, e anche le battute sono spesso riuscite; a conti fatti, in termini di intrattenimento, La famiglia Antrobus è un lavoro eccellente, affascinante e ingegnoso; il suo unico difetto è che quando tenta di essere serio, e accade spesso, diventa pretenzioso e imbarazzante. Non metto in dubbio l’affermazione dell’autore riguardo all’accoglienza ricevuta nella Germania post-bellica (Thornton Wilder gode più fama all’estero che in patria) e penso anch’io che il pubblico sia stato coinvolto dall’opera perché pensava che parlasse del cataclisma storico appena superato. Ma tutto ciò, per quanto comprensibile, lo trovo comunque deprimente. L’omaggio a Finnegans Wake è un’elegante ammenda riferita a un’ipotesi di plagio avanzata quindici anni prima, sulle pagine del Saturday Review, da Henry Morton Robinson e Joseph Campbell, autori del saggio A Skeleton Key to Finnegans Wake. Va riconosciuta all’autore l’abilità di aver saputo trasmutare in Midcult un’opera d’avanguardia tanto impenetrabile come quella di Joyce: se si dispone della boria sufficiente, sembra che non esistano limiti a questo tipo di alchimia inversa.
[Immagine: Thomas Struth, Audience].
How! You Italians are really getting nostalgic, are you not? Dwight McDonald’s history…