di Francesco Rocchi

Non molto tempo fa la raccomandazione di un gruppo di esperti al Miur di abolire le bocciature, anche solo per una moratoria, è stata accolta con l’usuale levata di scudi massiccia e trasversale. E tra quelli che hanno espresso maggior stupore ci sono stati tanti docenti: ai loro occhi la proposta è stata poco meno di una pugnalata alle spalle.

Eppure ci sono fior di studi, e l’esperienza sul campo, a dimostrare che le bocciature servono a poco o nulla. Perché allora i docenti rimangono così affezionati ad un istituto cui in ogni caso non ricorrono con leggerezza e pur sempre con sincero rammarico?

Rispondere a questa domanda è necessario, se si vuole che un’innovazione così radicale possa diventare realtà. Non si tratta di blandire gli insegnanti, ma di capire cosa del complesso meccanismo scolastico porti i docenti a dire: “No, questo studente nella classe successiva non ce lo voglio”. Si potrebbe anche scoprire, andando un po’ oltre le apparenze, che l’esasperazione dei prof. non è proprio del tutto immotivata.

L’elemento fondamentale per capire la scuola dal lato degli insegnanti è la rigida routine burocratica della vita scolastica quotidiana. E’ questa che dà il tono e la misura a tutto il resto, e non le esigenze didattiche. Essa influenza negativamente un po’ tutto, ma qui ci concentreremo sul ruolo che gioca nel mantenimento della disciplina, nella valutazione e negli scrutini.

Idealmente lo schema di base è abbastanza trasparente: il professore spiega, la classe impara e alla infine, con interrogazioni e compiti, si vede cosa ha fruttato agli studenti lo sforzo di imparare qualcosa. Su questa impalcatura sono state aggiunte mille innovazioni, anche molto importanti, ma l’insieme rimane invariato, soprattutto nella sua conclusione: lo scrutinio che decide la promozione o la bocciatura.

Il difetto di questo processo è che non è elastico: nel momento in cui capita qualcosa al di fuori dello schema, il sistema entra immediatamente in affanno, e con lui il docente che è materialmente in classe.

Perché il lavoro proceda, infatti, il gruppo classe deve muoversi in maniera più o meno coordinata e senza strappi eccessivi, dal momento che un professore, per quanto innovativo e impegnato, può tenere in classe solo una lezione alla volta, non tante quante sono gli studenti. Dovrà tarare le proprie lezioni su un livello “medio” di preparazione anche se, per il principio del pollo di Trilussa, ciò potrebbe non corrispondere al profilo reale di nessuno dei suoi studenti -soprattutto nel primo biennio delle superiori, dove l’eterogeneità degli studenti appena paracadutati dalle medie è massima.

Mentre il professore si barcamena con queste difficoltà, gli studenti non rimangono inerti: ognuno di loro reagisce alle novità e alle difficoltà nella maniera sua propria. E non è una novità per nessuno che gli studenti adolescenti aggiungano alle difficoltà propriamente scolastiche quelle familiari, sociali e relazionali, con effetti spesso gravi sia sulla resa scolastica individuale, sia sull’andamento delle lezioni.

Si capisce che non è una problema astratto o lontano, ma solo chi è stato in classe con adolescenti in carne e ossa può sapere quanto è acuto il senso di frustrazione che viene dal vedere una lezione mandata all’aria da uno studente rumoroso, importuno o impertinente.

La professionalità di un docente gli impone di non essere emotivo e di non reagire come farebbe con un estraneo o un adulto, ma quando i comportamenti sbagliati riguardano numerosi studenti e sono frequentemente ripetuti – come spesso accade nelle classi difficili – l’impatto sul docente rischia di essere pesante.

Per evitare di essere travolto, i docenti devono essere in grado di gestire la classe e di ricondurla non solo all’ordine, ma anche a un buon clima di apprendimento. Ciò ha a che fare con il temperamento di ogni insegnante, ma sarebbe sbagliato pensare che il carisma o le doti di mediazione debbano essere gli unici strumenti in campo. In primo luogo perché ci possono essere docenti preparatissimi ma non molto carismatici (e non è un crimine), in secondo perché quand’anche il docente fosse un Napoleone della didattica, ci sono comunque giornate in cui le battaglie, senza adeguato supporto, si perdono e basta.

Quali sono gli strumenti a disposizione dei docenti? Non molti, e non particolarmente efficaci. Lo strumento principale è la sanzione: la nota, la sospensione o, più blandi ma spesso teatrali, i rimproveri. Un’altra possibilità è data dai compiti a casa punitivi, che però andrebbero banditi: utilizzare gli strumenti di apprendimento come sanzione fanno passare l’idea che l’apprendimento sia di per sé stesso una punizione.

Quali effetti sortiscono questi provvedimenti? Di solito nessuno. Una punizione che non serve a niente, però, non ha potere deterrente. Ecco allora che i regolamenti di istituto costruiscono quasi invariabilmente un ricettario di ulteriori pene, più serie, che vanno applicate quando uno studente prende troppe note o tiene comportamenti particolarmente gravi: le già menzionate sospensioni, il cinque in condotta o l’esclusione dalle gite (che però sono attività didattiche, non premi o balocchi).

In altre parole, la scuola cerca di disciplinare l’escalation sanzionatoria, in modo da riuscire, prima o poi, a intimorire uno studente quanto basta perché modifichi il proprio comportamento. L’arma finale, ovviamente, è la bocciatura.

È un sistema, questo, che ha una sua logica interna, ma ha tutti i difetti tipici delle minacce: se ad esse non si dà seguito, si perde la faccia e chi doveva essere intimorito si ritrova ancora più baldanzoso. E sono numerosi i casi cui alle minacce non si può o non si vuole dare seguito: per evitare un altro caso di abbandono scolastico, per non gettare via quel che un ragazzo può in ogni caso aver fatto di buono, o per dare fiducia a qualche segno di ravvedimento (per quanto si abbia sempre il ragionevole sospetto che questo sia puramente strumentale).

I docenti li vedono i limiti del sistema minatorio-sanzionatorio? Sì, li vedono benissimo. Siccome però non hanno altri strumenti, si tengono stretti questi, nella speranza, per quanto fioca, che il loro lavoro non finisca tutto quanto buttato a mare. Questa è la ragione per cui, quando il ministero interviene dicendo: “Non bocciate!”, un professore si sente tradito e lasciato in braghe di tela.

Il ministero ha un bel dire ai docenti che non devono arrivare allo scontro frontale con gli studenti, ma anche questa osservazione ha un sapore agro: difficilmente un insegnante ha voglia o gusto nel mettersi a litigare con uno studente, e se lo ha fatto è perché non gli rimanevano alternative, pur capendo benissimo che spesso uno studente è vittima di se stesso e di problemi più grandi di lui: immaturità, disagio familiare, background sociale impoverito, difficoltà di inserimento, e così via.

La cosa si può riassumere brevemente in questi termini: se un docente che vuole insegnare e una classe che non vuole imparare vengono chiusi in un aula e legati ben bene con attività e orari rigidamente predeterminati, quel che si otterrà sarà quasi sempre un manicomio in cui la punizione è – o almeno sembra – l’unico velo tra la possibilità di fare qualcosa ed il caos totale. Questo è tanto più vero nelle scuole che la classista società italiana destina alla funzione di ghetto – quali sono oggi alcuni tecnici e professionali.

Abolire la bocciatura e lasciare tutto invariato quindi potrebbe sì essere un miglioramento (perché senza la paura della bocciatura molte tensioni degli studenti sarebbero automaticamente alleviate), ma un docente vivrebbe questa cosa con il terrore di perdere il poco controllo che gli rimane sulle classi più riottose – terrore ampiamente visibile nelle levate di scudi che menzionavamo all’inizio.

Ma non è soltanto questo. Le ragioni più profonde che portano a difendere la bocciatura sono altre ancora. Oggi molte tensioni nascono dall’esito rigidamente binario dello scrutinio (promosso o bocciato, con la dilazione della rimandatura a settembre che cambia ben poco la cosa). Ciò costringe a buttare sui piatti della bilancia materie diversissime tra loro, portando ad annullare i buoni risultati in alcune per colpa di quelli cattivi in altre (è l’effetto della bocciatura), oppure a nascondere le difficoltà in alcune poche materie per non disperdere i buoni livelli raggiunti nelle restanti (sono le famose insufficienze che passano a sei). Questo stato di cose ha due conseguenze fatali.

La prima è che in questo continuo “mercanteggiamento” gli studenti finiscono per tenere comportamenti opportunistici, calcolando quali materie è necessario studiare e quali si possono invece lasciare andare (a dispetto degli sforzi del docente, che con un’ulteriore massiccia dose di frustrazione si trova a dover avallare voti in cui non crede “per decisione di Consiglio”).

La seconda è che se un diploma deve attestare il raggiungimento di certi livelli di istruzione, promuovere chi si è comportato male, non si è impegnato abbastanza o non ha una preparazione sufficiente sembra una vera e propria truffa, alla quale un docente scrupoloso non si vuole prestare. È un’obiezione fortissima, inoppugnabile, profondamente avvertita e vissuta: “Quello non ha fatto nulla tutto l’anno, ha disturbato, risposto male, mandato all’aria il lavoro di tutti, e gli devo dire pure «Bravo, sei promosso», mettendolo sullo stesso piano di chi ha lavorato davvero?”.

Se non si supera questa obiezione, non si va da nessuna parte. Finché esisteranno un premio e una punizione impropri, quali sono promozione e bocciatura, qualsiasi altra considerazione sarà spazzata via da questo semplice ragionamento.

Come si fa, allora? La soluzione più semplice e immediata è quella di abolire non solo la bocciatura, ma anche lo scrutinio collegiale che ha luogo nel Consiglio di classe di giugno. Ogni professore indica il proprio voto, e quello rimane, senza chiacchiere inutili.

A quel punto la “retribuzione” non è più decisa da promozione o bocciatura, ma dal voto finale, che è la somma di tutti i voti senza correttivi impropri (i sei “regalati”): chi ha studiato prende un bel voto, chi non si è dato da fare ne prende uno che ne denuncia il mancato impegno. Tutte le materie contribuiscono, nessuna fa da cenerentola, quel che uno studente semina poi raccoglie.

Se si pensa che ciò dia troppo potere agli insegnanti, basta inserire dei correttivi, nemmeno troppo difficili da implementare. Nel corso del quinquennio si lascerebbe ai docenti la piena libertà di decidere i voti secondo scienza e coscienza (non collegialmente), mentre per l’esame alla fine del quinquennio si istituirebbe una commissione di valutazione interna, costituita da professori della scuola che conoscono la didattica impiegata durante i cinque anni e possono quindi preparare le prove di valutazione per ogni classe. Tali prove sarebbero corrette anonimamente non dal docente di classe, ma dai suoi colleghi, evitando così che possibili aspetti “personali” possano incidere sull’obiettività della valutazione. In questo modo, l’unica cosa a contare davvero sarebbe la reale preparazione di ogni singolo studente. Lo schema è replicabile, se si vuole, alla fine di ogni anno scolastico o anche alla fine di ogni quadrimestre, se si vuole avere un monitoraggio costante.

I professori sarebbero così sgravati dal rito ormai vuoto dello scrutinio collegiale e dai continui mercanteggiamenti per il voto, gli studenti invece da quella sciocca ragioneria delle medie e dei crediti che oggi – non è un’iperbole – li ossessiona. Ancora, senza la paura della bocciatura e delle sue pessime conseguenze verrebbero meno tantissimi dei comportamenti infantili e oppositivi che oggi caratterizzano i nostri studenti. Per i residui comportamenti sbagliati ovviamente bisognerebbe pensare a nuove forme di sanzione, ma neanche questo è un problema. Si potrebbe introdurre la detention tipicamente anglosassone, in virtù della quale chi si comporta male rimane a scuola più a lungo e si dedica ad attività socialmente utili. Dare al voto di condotta lo stesso valore di quello di una materia, come già si fa, troverebbe in questo quadro un significato reale. Ma sarebbe facile immaginare anche altre punizioni senza troppi problemi.

Certo, non basterebbe soltanto questa semplice riforma: nel momento in cui si crea un sistema in cui è solo la preparazione reale a contare davvero, alle scuole viene chiesto di essere davvero efficaci e ai professori davvero pronti, preparati e motivati. Ma non sarebbe una bella sfida?

 

[Immagine: Rok Bicek, Class Enemy].

 

37 thoughts on “Perché i professori difendono la bocciatura

  1. “ 29 aprile 1985 – Possibile che il solo bocciato fossi io? Gli altri tutti promossi se ne andavano sghignazzando. E io mi trovavo a gridargli dietro: « Tanto vi riacciuffo! ». (Un sogno) “.

  2. la bocciatura corrisponde ad un principio di realtà. e quando si toglie il voto della condotta, la bocciatura, e si costruisce un’intera nuova pedagogia focalizzata sul personalismo in assenza totale di contenuti e nozioni didattiche, il principio di realtà viene meno, insieme al senso del limiti, così da produrre analfabeti che sono contemporaneamente anche psicotici.

  3. Interessante articolo, però dobbiamo ammettere che la domanda vera da cui dobbiamo partire non è “Bocciare è giusto o sbagliato in assoluto?” ma “Oggi, alla fine dell’obbligo scolastico i ragazzi hanno la preparazione minime per compiere qualche lavoro e la consapevolezza delle regole e dei valori democratici necessari nella società?” Dopodiché discutiamo se voti, bocciature, obbligo di certe materie piuttosto che altre funzionano o no a raggiungere questo obiettivo.

    Per quanto riguarda la proposta di Francesco Rocchi, cito testualmente,

    “La soluzione più semplice e immediata è quella di abolire non solo la bocciatura, ma anche lo scrutinio collegiale che ha luogo nel Consiglio di classe di giugno. Ogni professore indica il proprio voto, e quello rimane, senza chiacchiere inutili. A quel punto la “retribuzione” non è più decisa da promozione o bocciatura, ma dal voto finale, che è la somma di tutti i voti senza correttivi impropri (i sei “regalati”): chi ha studiato prende un bel voto, chi non si è dato da fare ne prende uno che ne denuncia il mancato impegno. Tutte le materie contribuiscono, nessuna fa da cenerentola, quel che uno studente semina poi raccoglie.”

    bisogna dire che funzionerebbe solo se insieme ad essa si abolisse il valore legale del titolo di studio e dunque se ad esempio fosse possibile che all’università e ad eventuali test di ammissione si iscrivano non solo chi ha un diploma di maturità ma anche chi ha la sola licenza media o elementare, dato che con questa soluzione ora quel diploma di maturità non certifica più l’aver appreso un livello minimo di competenze e conoscenze uguale per tutti gli altri diplomi.

    Ciao.

  4. Il complemento indispensabile dell’abolizione della bocciatura sono le classi organizzate per gruppi di livello. Chi alla fine dell’anno ha 4 in matematica, non farà matematica l’anno successivo insieme a chi ha preso 7, ma insieme ai suoi pari. Idem per chi ha 7: non farà matematica insieme ai 4. A fine corso, conterà la permanenza in un certo gruppo di livello, per cui potrà essere certificato che lo studente sa la matematica “da 4” (o “da 7”) se non ci sono stati progressi, ossia passaggi a un gruppo di livello superiore.
    Questo come ampliamento dell’utopia.

    Quali insegnanti mettiamo nei gruppi di livello “da 4”? Chi ci vorrà andare, con gli asini? (Evidente provocazione, ma legittimo dubbio.)

  5. Aggiungo un’altra cosa: sarebbe meglio anche dare agli studenti la facoltà di scegliere se, alla fine dei cinque anni di superiori, loro vogliono fare altri anni in più in cui vogliono impegnarsi per alzare ancora i voti di alcune materie.

    @Jacopo D’Alessio :

    saresti disposto a cambiare idea se tu vedessi risultati statistici che dimostrano che metodi scolastici alternativi alla bocciatura “così come è oggi” fanno uscire dalla scuola ragazzi capaci di avere conoscenze e competenze minime per compiere almeno certi lavori e per essere consapevoli delle regole e valori democratici della società?

  6. “ Venerdì 26 gennaio 1996 – Dopo trent’anni mi chiedo ancora se fu giusto che quel professore giovane mi bocciasse in italiano all’esame di maturità. Certo, a quel tempo ero un po’ trombone, un po’ troppo facondo, un po’ troppo sicuro di me. Ma che Walter Scott si dice « Uolter » e non « Valter » lui non poteva non capire che lo sapevo benissimo, a meno di non volermi stangare – con l’incontrollabilità di un raptus, mi ricordo perfettamente. Lui aveva un’aria di povero Cristo, e io ero un giovane fortunato e atletico. Penso che fosse comunista. “.

  7. “ Lunedì 2 marzo 1998 – « Fini boccia Berlusconi », scrivono i giornali. Avrebbero potuto scrivere « Berlusconi boccia Fini », anzi, sono sicuro che l’hanno già scritto, e sarebbe stato lo stesso. Ma non è questo il punto. Quello che io voglio notare è che ai giornali(isti) piace il verbo « bocciare ». Eredi di una secolare tradizione di bocciature (scolastiche), convinti peraltro che « gli esami non finiscono mai », i produttori di notizie si divertono a bocciare – a veder bocciare – tutti, tutte le volte che possono, dimostrando anche che, così come si boccia, si può essere anche bocciati – i produttori di notizie sono anche eredi di una trentennale tradizione anti-autoritaria. L’importante è restare fra i banchi di scuola, al di qua della « vita vera » cioè, per esempio, di ciò che si continua a chiamare il « lavoro » – i giornalisti sono anche quelli che dicono del loro mestiere che è « sempre meglio che lavorare ». Come gente adusa alle bocciature, i giornalisti conoscono bene i banchi di scuola, ne sanno tutti i segreti, come dormire, come mangiare, come farsi le seghe, come fare la spia, come copiare, tutto, tutte le volte che si può, ad esempio. Anche se gravati da un numero imponente di « debiti formativi » gli operatori mediatici non hanno comunque intenzione di abbandonare le aule che, non sia mai, senza di loro rischierebbero di diventare « sorde e grigie ». E se c’è una cosa che i giornalisti non amano è la sordità – degli altri – e il colore grigio – per sé. “.

  8. “ Martedì 20 settembre 2010 – « Eco “ boccia “ Ratzinger / “ Non è un grande teologo “ » [*] [*] Se è per quello neanche lui è un grande scrittore… “.

  9. “ Martedì 22 dicembre 2015 – A scuola, tanti anni fa – una vita fa -, c’erano quelli tonti. Venivano dalla campagna, e, a quei tempi, si vedeva. Erano goffi, spaesati, stralunati, come se la scuola, per loro, fosse un paese straniero. Andavano male, per quanto studiassero, venivano spesso bocciati. Quando li interrogavano, erano sofferenze indicibili, un vero calvario. Ma quello che mi ricordo di più erano certi professori, certi insegnanti cattivi, che, evidentemente, a vederli soffrire, ci prendevano gusto. Se no, non gli avrebbero fatto certe domande, domande-trappola, a cui era chiaro che non avrebbero saputo rispondere. Io vedevo tutto, la domanda, l’agguato, la rovinosa, spassosa – sì, c’era anche chi rideva, fra i banchi -, caduta. Io atterrivo, di fronte allo scempio. Si dirà che esagero, ed effettivamente è così. Erano solo piccoli drammi, tragedie dell’infanzia, senza sangue né morti. Ero solo io, lo spettatore indocile, il giustiziere in nuce, il paranoico à venir. Quello che, dei piccoli e grandi mali del mondo, non riesce mai a farsene una ragione. “.

  10. @Jacopo d’Alessio: allora sarà contento di scoprire, leggendo l’articolo, che si propone di dare forza al voto di condotta e che non si parla assolutamente di personalismo o di contenuti didattici. E che il problema è proprio il senso della realtà…quello ad esempio che porta molti, ma non tutti, a notare che nonostante le abbondanti bocciature e gli abbondanti abbandoni, il livello generale dell’istruzione italiana è basso.

    Legga, davvero, potrebbe scoprire di essere d’accordo con tante cose che scrivo.

  11. Io non penso che la proposta di Rocchi implichi le “classi di livello”, né l’abolizione del valore legale del titolo di studi.
    Se si aboliscono le bocciature, chi in una materia non ha raggiunto gli obbiettivi di quell’anno ripete l’anno solo per quella materia; quindi lo ripete insieme a quelli che iniziano a farlo per la prima volta, che possono essere anche molto bravi; si preserva così la non omogeneità del gruppo, che facilita gli apprendimenti di tutti. Bisogna dare la possibilità, a chi ripete un anno in una materia, di “accelerare” (se ce la fa, se ha voglia) e recuperare il tempo perso. Alla fine del percorso verranno certificate le competenze raggiunte: quelle del terzo anno, o quelle del quarto, o quelle del quinto, dipende.
    Quest’ultimo punto mostra che c’è un valore legale del titolo. Non è necessario discutere anche di questo, che è un altro problema. Sono però d’accordo nel rendere più elastico l’accesso alla formazione superiore anche a chi non ha “il pezzo di carta”, sulla base delle competenze.

  12. Il punto non è eliminare la bocciatura, ma motivare la promozione. Se ci sono i presupposti, semplicemente non si ammette alla classe successiva.

  13. Leggo parecchie imprecisioni e frettolosità nel suo articolo (mi perdoni, lei è un insegnante?), ma vado di fretta e le dirò solo che in pochi hanno idea di quanti recuperi, quanta semplificazione nelle lezioni e nelle verifiche, quanta didattica inclusiva, quanti colloqui con le famiglie, quante occasioni offerte, quanti solleciti, quanto di umanamente possibile viene messo in atto prima di fermare (fermare!) un alunno. E quante notti insonni sul bene o sul male che la nostra decisione potrà portare. Il resto sono chiacchiere.

  14. @Mauro Piras e Mariangela Caprara

    Il sistema può portare ai gruppi di livello, ma non necessariamente (anche se non sono ostile all’idea) : già Mauro ha indicato alcuni compromessi. Io aggiungo che ad alcune materie in cui il gruppo di livello ha senso, darei forse uno status particolare: lingue straniere ed educazione fisica le sposterei direttamente al pomeriggio, per dargli maggiore respiro e uno spazio più adeguato alle loro peculiarità (è una suggestione, la butto lì).

    Alcune materie necessitano di alcune propedeuticità nel loro percorso. Penso -da profano- soprattutto a matematica e fisica. Già per biologia, botanica e altre branche delle scienze esatte il vincolo è meno stringente, anche se ovviamente le basi della chimica e della fisica sono ineludibili. In questo ambito un approccio più vicino ai gruppi di livello sarebbe forse più utile. E’ anche vero che nell’approccio di Mauro Piras corsi di recupero sarebbero “esterni” e “paralleli” alla didattica d’aula, cosa che favorisce l’accesso anche degli adulti che tornano a scuola per aggiornamento.

    Nelle materie umanistiche, se non si è schiavi dell’hegelismo ministeriale, propedeuticità di fatto non ce ne sono. Neanche in storia (altrimenti per studiare la rivoluzione francese uno dovrebbe cominciare da Meroveo…).

    @Marcello Malloni

    Lei descrive lo status quo. Quello che non funziona, in altre parole, e che tocca cambiare perché sta facendo danni.

    @Elisabetta

    Sì, sono un insegnante. Se vuole segnalare imprecisioni e frettolosità ne faccio tesoro. Sui recuperi, didattica inclusiva, colloqui, occasioni e solleciti, nessuna obiezione. Avrà notato che l’articolo comincia col chiarire che gli insegnanti non ricorrono allegramente alla bocciatura. Tutto il resto, banalmente, non sono chiacchiere: è la necessità di calibrare un sistema che faccia sì che gli studenti dalla scuola non vogliano scappare e non ci vogliano continuamente combattere.

    @Michele De Russi

    Faccio mia la risposta di Mauro Piras e aggiungo che anche nei Paesi in cui non c’è valore legale, le ammissioni all’università comunque non sono all’acqua di rose: in UK (dove non c’è bocciatura) tipicamente si richiede un certo voto in alcune materie fondamentali. Il minimo sindacale è aver avuto da un certo voto in su in English, Math, Science.

  15. Temo di aver attribuito a Mauro Piras idee non sue su “corsi di recupero” che lui non ha proposto…come non detto.

  16. @mauro piras: affermare che la non omogeneità di una classe favorisca la didattica significa non aver mai messo piede in una classe in vita propria (condannerei tutti coloro che blaterano di scuola a insegnare per qualche mese in una seconda media – e poi ne riparliamo)

    Comunque sì, l’unica alternativa all’eliminazione delle bocciature sono le classi di livello – anche per le materie umanistiche, perché la capacità di ragionare sui fatti storici, quella di comprendere e analizzare un testo, quella di scrivere, sono competenze complesse che si sviluppano gradualmente

  17. Cara Emanuela Bandini,
    io insegno da oltre quindici anni, non ho mai insegnato alle medie, ma ho insegnato in classi in cui c’erano ampie differenze di competenze e motivazione, e anche in scuole piuttosto complicate. Se devo dire la verità, sono un po’ stanco (anzi, molto stanco) di questo modo di impostare le discussioni, facendo attacchi alle persone, sulla base della propria personale esperienza. Però, anche se sono molto irritato, le rispondo sull’argomento.
    Molte ricerche hanno dimostrato che la non omogeneità delle classi favorisce il successo formativo, più della omogeneità, perché c’è uno scambio reciproco che altrimenti non ci sarebbe. Inoltre, chi insegna sa (e sicuramente lo sa anche lei, l’avrà fatto anche lei) che si possono mettere i migliori nelle condizioni di aiutare i più deboli. Infine, oltre a questi due aspetti di “efficienza”, c’è un aspetto di “giustizia”: non possiamo proporre un ideale di società “per ghetti”, i migliori con i migliori e i peggiori con i peggiori, che educazione sarebbe? Ecco perché la risposta secondo me non sono i “gruppi di livello” in quanto tali, ma un metodo flessibile che permette di dare a tutti i propri tempi.

  18. Anonimamente? E come si fa? L’idea è interessante, ma va declinata nel dettaglio: correzioni anonime in una scuola pubblica non sembrano ammissibili.
    È valido il principio di una commissione interna alla scuola che valuti, con prove concordate in base agli effettivi programmi svolti, gli apprendimenti degli studenti. Ma nel caso di esiti negativi sarebbe inevitabile la bocciatura.
    E in un luogo formativo e non selettivo, inclusivo e non esclusivo, come è la scuola, insisterei sul carattere demotivante della bocciatura.
    Ripristinare il ruolo e la funzione dei docenti come mediatori culturali, non è un problema interno alla scuola e non si difende bocciando chi non vuole o non sa imparare. Si tratta di un problema sociale che investe la collettività e la politica.
    La legge 107/2015 certo non aiuta in questo senso.

  19. Gentile Mauro Piras,
    non serva che difenda sotto il profilo educativo ed “ideologico” l’eterogeneità delle classi con la sottoscritta, perché sfonda una porta aperta.
    Mi permetto invece di dissentire sulla “molte ricerche” (comincio anch’io ad essere un po’ stufa della ricerca quantitativa dura e pura gettata sulla scuola, che è fatta di persone e non di numeri – e non è un caso che ultimamente comincino a sentirsi voci dissonanti anche sulla standardizzazione delle rilevazioni nazionali ed internazionali): i miei quindici anni di esperienza (medie, istituto tecnico, liceo) mi hanno insegnato che il lavoro per gruppi di livello funziona molto meglio per livelli omogenei anziché disomogenei: i “bravi” si sentono liberi di andare come treni, di indagare e approfondire, di cimentarsi con argomenti difficili, gli “scarsi” (anziché andare semplicemente a ruota dei più bravi o, peggio, starsene con le meni in mano), possono lavorare con tempi più distesi ed essere meglio seguiti dal docente; inoltre sono gratificati dal fatto di riuscire a svolgere in autonomia compiti alla loro portata. Poi, il “bravo” nell’attività A, nell’ora dopo diventa lo “scarso” nell’attività B. Però magari sono io che non sono abbastanza brava in questo tipo di lavoro (e lo dico con assoluta sincerità), o, semplicemente, non è possibile applicare lo stesso tipo di metodologia a discipline molto differenti tra di loro (non è un caso che moltissime metodologie attive e cooperative – non ultima la flipped classroom – nascano da esperienze condotte sulle discipine tecnico-scientifiche).

  20. @Teresa D’Errico: anonimamente nel senso che i DOCENTI non sanno di chi stanno valutando il compito, come nei concorsi. La commissione non può che essere nota e stranota, e l’unica cosa importante è che ne sia escluso il docente dello studente, così non si crea alcun cortocircuito o sovrapposizione con la didattica “d’aula”.

    La bocciatura non è inevitabile. Semplicemente si viene licenziati con il voto che si riesce a prendere sommando le prove nelle diverse materie. E’ quanto fa l’Inghilterra, e non solo, più o meno da sempre.

  21. @Emanuela Bandini

    quando lei dice:

    “Mi permetto invece di dissentire sulla “molte ricerche” (comincio anch’io ad essere un po’ stufa della ricerca quantitativa dura e pura gettata sulla scuola, che è fatta di persone e non di numeri – e non è un caso che ultimamente comincino a sentirsi voci dissonanti anche sulla standardizzazione delle rilevazioni nazionali ed internazionali): i miei quindici anni di esperienza (medie, istituto tecnico, liceo) mi hanno insegnato…”

    lei sta compiendo la nota fallacia logica del contrapporre ai dati statistici l’esperienza personale, con lo stesso ragionamento io potrei dimostrare che fumare fa bene e allunga la vita, dato che il filosofo Bertrand Russell, accanito fumatore di pipa, è morto in buona salute a 98 anni…

    Inoltre sono ormai stufo dell’antipositivismo e antiscientismo del tipo “abbiamo a che fare non con numeri ma con persone”, “non si può misurare lo spirito umano” e cose del genere, oltre ad essere usato dai contrari ai vaccini, dai sostenitori di medicine alternative e personaggi simili, è anche uno screditare con ogni modo chi si è tanto impegnato nel rendere la pedagogia un sapere che davvero dà frutti e che aiuta anche chi non è già colto per conto proprio per capacità innate o di buon ambiente familiare, insomma se non ci sono studi intersoggettivi su quale metodo d’insegnamento e migliore i figli di famiglie con meno mezzi sono disarmati e non hanno possibilità di avere un riscatto sociale legato ad avere i docenti migliori…

  22. Non sempre le punizioni sono inutili, da insegnante posso citare non pochi casi di studenti e studentesse che sottoposti a ragionevoli e mirati provvedimenti hanno imparato a comportarsi responsabilmente. Se uno a fine anno la sufficienza non la raggiunge non so davvero se posso passarlo al successivo (vale a dire ad un livello di competenza che non potrebbe sostenere, parlo ovviamente delle scuole superiori). Mi sembra che qui ci sia un equivoco di base, ossia considerare la bocciatura una punizione e non (anche) una valutazione sulle competenze raggiunte

  23. @Jacopo

    La casistica personale non conta molto. Io personalmente quest’anno ho visto tre sospesi: a due la cosa non ha fatto né caldo né freddo, ad uno sì. Mi sembra un risultato deludente, ma per capire se il sistema funziona, bisogna guardare al quadro complessivo. E non mi sembra che il quadro sia quello di una situazione funzionale.

    Vero, la bocciatura è concepita, e difesa, come una valutazione di merito. Ma lo è per davvero? Ma se uno viene bocciato per le insufficienze in matematica e scienze, che valutazione di merito è quella che gli fa ripetere anche lo studio di italiano, storia, inglese o simili?

    Ancora: se si tratta di valutazioni di merito, perché la bocciatura viene “risparmiata” a quelli che hanno fatto moltissime assenze per ragioni di salute, purché si possa rabberciare una qualche forma di valutazione?

    Lo stesso ragionamento si potrebbe fare per le bocciature disciplinari: se la bocciatura è solo una valutazione di merito, cosa c’entra il far ristudiare le stesse cose dell’anno prima quando il problema è, ad es., il bullismo?

    Il bullismo va punito di per sé, penalmente se necessario. Non con una ritorsione gratuita, il cui risultato, peraltro, sarà che i bulli andranno a fare i bulli in un’altra classe, dove gli riuscirà ancora più facile essere arroganti e prepotenti, visto che i compagni di classe sono più piccoli. E’ questo che vogliamo?

  24. @Jacopo:

    lo ripetiamo, la domanda vera da cui dobbiamo partire non è “Bocciare è giusto o sbagliato in assoluto?” ma “Oggi, alla fine dell’obbligo scolastico i ragazzi hanno la preparazione minime per compiere qualche lavoro e la consapevolezza delle regole e dei valori democratici necessari nella società?” e dopo quindi ci facciamo la domanda “voti, bocciature, obbligo di certe materie piuttosto che altre funzionano o no a raggiungere questo obiettivo?” A noi importa questo obiettivo, non che la bocciatura o un certo uso dei voti siano sentiti come punizione o meno.

    L’articolo di Francesco Rocchi ha argomentato bene che un sistema alternativo a quello attuale di voti e bocciature raggiungerebbe meglio l’obiettivo di far uscire i ragazzi da scuola con queste preparazioni minime, lei ritiene che non lo faccia? Se sì, quali argomentazioni porta?

  25. Salve
    articolo interessante, e ma alla fine credo tutto sbagliato. Questo è un msg di prova, mi riprometto di riscrivere con calma tra qualche giorno. Ho appena scoperto questo sito grazie all’articolo di Guido Mazzoni di oggi sul Il Manifesto. A presto
    mario

  26. La struttura argomentativa del post è comune a quella di molti interventi di colleghi docenti sulla Scuola italiana interventi che mi sembrono spesso fallaci, anche se non sempre riesco a coglierne il perché.

    In genere si parte da una veloce descrizione di come la Scuola funziona, si denunciano alcuni, o molti, aspetti disfunzionali (reali!), e si offre una soluzione, per almeno alcuni di quelli, talvolta dichiaratamente tampone e d’emergenza, talvolta pensata come strutturale. Spesso della soluzione non si considerano nè quale sarebbe la prassi che per effetto invalerebbe nella maggioranza delle situazioni né come andrebbe a incidere sulla configurazioni di diritti e doveri nella relazioni scolastiche, considerando anche la varietà dei docenti e di Scuole. Per esempio, la proposta del post di abolire la responsabilità collegiale della votazione finale sarebbe alla lunga un disastro, perché -come minimo- l’attuale collegialità garantisce un minimo di equità e inoltre, abbastana spesso, di tamponare la presenza di colleghi fuori dalla righe o del tutto disfunzionali.

    Nel post si assume, apparentemente considerandola ovvia, una certa didattica, quella della lezione frontale di esposizione riassuntiva di un argomento da sapere, studio manualistico/mnemonico dello studente (a casa), verifica individuale della riuscita memorizzazione. Scrivere “Idealmente lo schema di base è abbastanza trasparente: il professore spiega, la classe impara e alla infine, con interrogazioni e compiti, si vede cosa ha fruttato agli studenti lo sforzo di imparare qualcosa.” significa non avere nessuna consapevolezza che questo schema è stato oggetto di critiche durissime da almeno la fine dell’800, che la migliore tradizione didattica italiana – quella dell’attivismo – ne ha distrutto i fondamenti, e -sopratutto- che quel di buon c’è, o c’era, nella Scuola italiana proviene più o meno direttamente da quella critica. (Detto per inciso, Francesco non so la tua età, ma quello che noto nella nuove generazioni di colleghi è una specie di analfabetismo di ritorno su tutta il ricco armamentario critico sviluppato nel decenni scorsi).

    Pensare di essere nell’obbligo (de jure o de facto) di “tarare le proprie lezioni su un livello ‘medio'” è errato, e crederlo discende solo da una certa scelta didattica (e più generalmente di configurazione del proprio ruolo di docente), che non è senza alternative, in generale e anche nel concreto della Scuola italiana attuale. Anzi, la configurazione giuridica del ruolo del docente italiano, e una parte della normativa scolastica, permeterebbe scelte alternative. In particolare scelte la cui didattica non è basata sulla trasmissione di nozioni da memorizzare, ma su la predisposizione di percorsi di studio personale, assistito (questa la funzione del docente), ma non imposto. Purtroppo, una didattica attivista è più faticosa, e la maggioranza dei colleghi la boicotta sistematicamente.

    Consideriamo il problema della valutazione e della bocciature. Innanzitutto, sono problemi diversi. Si potrebbe anche darsi un sistema dove non sono previste seconde chance, chi non c’è la fa nei termini prefissati rimane indietro, ed è indirizzato a classi di serie B (come mi sembra suggerito da uno dei commenti). Ovviamente sarebbe un sistema non auspicabile, dove l’ingiustizie (di classe e non) esploderebbero ancor di più. Bocciare in linea di principio è offrire un anno di istruzione in più.

    In certe situazioni (sicuramente prima classe dei licei classici) la bocciatura è sicuramente usata per rendersi la vita più facile negli anni seguenti e mantenere un profilo privilegiato; nelle scuole dell’obbligo però la non bocciatura è piuttosto una strategia per liberarsi di soggetti difficili, nelle media inferiori in genere dopo averli fatti pascolare nell’ultima fila di banchi per tre anni. In alcuni casi paradossalmente, dovrebbero essere le famiglie a pretendere la bocciatura dei propri figli, per dargli più tempo per recuperare lo svantaggio delle condizioni di nascita.

    Per la valutazione, denunciare che non possa essere usata per motivi disciplinari – essendo una perversione delle sue funzioni, credo anche normativamente illecito – è ovviamente corretto. Denunciare che ci sia una voto-mania, che distoglie l’attenzione degli studenti dalle proprie acquisizioni intellettuali privilegiando la gratificazione a breve del voto, è pure del tutto condivisibile.

    La valutazione però è anche un dovere professionale. Forse una analogia medica e una sportiva possono aiutarci a porci alcune domande.

    Analogia medica. Io posso andare da un medico (di fiducia) per avere una diagnosi (privata, riservata) su, per es., le mie funzionalità epatiche, eventualmente anche mediante la somministrazioni di analisi e test (pure riservati), ovviamente perché ho un interesse strettamente personale a sapere come sta il mio fegato;
    oppure posso essere sottoposto a visita medica (detta fiscale), da parte di un medico pubblico (si può dire?), per avere una certificazione pubblica che mi permetta di accedere a certi qualfiche (patente di guida) o beneficiare di certi aiuti (precedenze ex 104). Ovviamente la configurazione giuridica dei rapporti medico-paziente nelle due situazioni è ben diversa (ma non facile da descrivere, perché coinvolge in un caso e non nell’altro l’interesse al falso.)

    Analogia sportiva. Si consideri una sport individuale, e la valutazione che di un atleta può dare il suo allenatore, e quella che risulterà, dopo la gara, da parte di un giudice (o giuria) di gara. La prima deriva dalla conoscenza protratta nel tempo delle reali possibilità sportive dell’atleta (acquisita anche grazie ma non limitatamente a simulazioni di gare svolte durante gli allenamenti), la seconda da dati oggettivi (o quasi, si pensi al ruolo della giuria nei tuffi) ottenuti nel tempo ristretto di una gara.

    Ora la valutazione del docente è un una strana combinazione dell’analogo di tutte questi ruoli. Sicuramente, la valutazione del docente è, de jure, ‘fiscale’ e non riservata all’interno di un rapporto di fiducia; ma di fatto, quando la relazione con famiglia (e/o con lo studente) funziona è perché si è instaurata, nonostante tutto e tutti, una rapporto di fiducia tale che essi ricorrono al docente per sapere – tipicamente in privato durante i colloqui – quale è il reale profilo -attuale e potenziale- del figlio. Oserei dire che la crisi di autorevolezza dei docenti nei confronti delle famiglie nasce quando piano piano i primi si sono sottratti a ricercare la fiducia, mediante un franco, articolato e privato colloquio, non considerandolo prioritario nello svolgimento dei propri compiti professionali.

    La proposta finale del post (esame finale da parte di colleghi esterni al consiglio di classe, ma della stessa Scuola) è quella appunto di distinguere docenti-allenatori e docenti-giudici di gara. Da un punto tecnico, è una vecchia battaglia, quella di riqualificare l’esame di Stato con commissioni esterne (battaglia meritevole di essere perseguita, mentre la solunziocina che propone il post non funzionerebbe mai). Considerata nei sui fondamenti però, non è ovvio che i giudici di gara, e non l’allenatore, siano coloro che meglio e in modo più sicuro possono valutare le qualità – atletiche nel caso sportivo, intellettuali nel caso scolastico – dello studente, essendone la conosocenza prodotta dalla consuetudine relazionale difficilmente acquisibile nel breve tempo di una gara-esame finale. Qui abbiamo un dilemma, non facilmente risolvibile in una o altra direzione.

    Una ultime osservazione. La mia esperienza in diversi consigli di classe, anche in quelli in cui sistematicamente ci siamo alzati la voce contro tante e tali erano le differenze di didattica, preoccupazione e rispetto reciproco, è che il 90% delle volte la classificazione ordinale degli studenti fosse condivisa, chi era più sveglio per me, lo era anche per il collega più lontano dalla mie convinzioni, chi trovavo debole e scarso lo era anche per tutto il consiglio. Il problema non è mai veramente l’oggettività della valutazione, ma quali i doveri della Scuola, e di noi docenti, nei vari casi: come far volare chi ne ha la possbilità, come aiutare veramente chi è rimasto indietro.

    Per concludere – ma sperando in un proficuo botta e risposta – io direi che i docenti giovani, entusiasti del mestiere scelto dovrebbero avere fiducia nel recupero di idee, proposte, atteggiamenti e preoccupazioni per un didattica anti-nozionista, che faccia scaturire dallo studente proposte di studio serie, ma sentite e vissute come personali, offrendo un aiuto a tutti e sopratutto a ciascuno a perseguirle. La valutazione sorgerà allora abbastanza spontanea.

    m.

  27. @Teresa

    letto articolo di Teresa D’Errico. Non capisco se condividi tutto o meno, ma l’articolo muove critiche giuste (solo sul costruttivismo sono più ottimista).
    Ne manca una, la trasformazione – non solo esitenzial-mentale ma anche giuridico-normativa – della docenza da una professione pubblica a un impiego pubblico, da cui tutti i malanni tipici delle organizzazioni burocratiche spersonalizzate e spersonalizzanti, comprsa la (presunta( esplosione del bullismo.

  28. Caro mario

    Certo che vogliamo mantenere la cosa nei termini di un proficuo “botta e risposta”.

    1) Lei parla di “collegialità” come di un fattore di “equità”. Non dice però come sia arrivato a questa conclusione. Anzi, non dice nemmeno in cosa consisterebbe questa equità. Il prof. di italiano dice che uno studente è a un livello di preparazione corrispondente a 4. Si discute e il Consiglio delibera un 6. L’equità esattamente in cosa è consistita? Nel travalicare la valutazione dell’unico professore che poteva dare un giudizio qualificato? Oppure andare bene, che so, in matematica aiuta a riempire le lacune in italiano, o viceversa?

    Il suo concetto di “equità” (termine quantomai improprio) si spiega solo in vista della promozione o della bocciatura: come in un giudizio ultraterreno davanti ad Osiride, si pesa questo, si pesa quello e si vede dove pende la bilancia, verso la salvezza o la perdizione. Ecco allora che servno i “giudici”, possibilmente salomonici. Se l’impostazione è questa, però, negli scrutini è impossibile entrare nel merito degli apprendimenti. E questo spiega come mai le discussioni in sede di CdC siano tanto anodine. Ovviamente, se ci sono colleghi disfunzionali o fuori dalle righe, il punto è farli lavorare bene o allontanarli, non piegare il sistema per tamponarli.

    2) Lei dice che il mio ragionamento è fallace perché lo schema spiegazione-studio-interrogazione non è più attuale, e in crisi nientemeno che dall’800. Grazie tante che lo schema è fallace. E’ proprio questa la ragione per cui stiamo discutendo se cambiarlo. Prima di parlare di “analfabetismo di ritorno” di colleghi (giovani o vecchi che siano), le raccomando di leggere con attenzione: il sistema è frusto a dire poco, ma se lo si cambierà per proclami o girando qualche vite. La lezione frontale è consustanziale al modello attuale e tutte le modifiche/innovazioni sono rimaste ai margini proprio perché, al contrario della lezione frontale, non sono funzionali alla catena di montaggio che è attualmente la scuola italiana. Se si vuole cambiare qualcosa, deve modificarsi il sistema: abolendo la bocciatura -che NON è un anno in più, e non facendo prediche sulla lezione frontale, ma rendendola inutile.

    3) Al netto di questo: se il professore è uno e i ragazzi 20-30, dovrà per forza fare una sintesi e una media, anche se le attività laboratoriali o di altro tipo lasciano più margini di intervento individuale. Modi per diversificare e adattare ce ne sono molti, ma l’insegnante è uno e il tempo ridotto.

    4) Come già detto da Mauro Piras, non c’è affatto bisogno di creare gruppi di livello -le soluzioni possono essere le più varie: ripetizioni di singole materie, corsi ulteriori, assistenza allo studio, ecc. E’ il sistema attuale che non dà seconde chance.

    5) Per l’uso della non-bocciatura alle medie e sui risultati cui porta: la soluzione è molto semplice. Aboliamo la media. E’ pur tempo, ormai.

    6) la valutazione, per come è oggi, è un elemento di disturbo: erratica (interrogazioni sparse qua e là), arbitraria (domande diverse a studenti diversi), improvvisata, frettolosa e continua causa di tensioni. O meglio: ad essere causa di tensioni è quella “fiscale”. Quella utile, da “allenatore”, no, ma oggi è obliterata dalla mania per i voti. E siccome la scuola non è una competizione, il mio sistema privilegia la seconda restringendo la prima ad un momento finale lungamente atteso, preparato e gestito in modo da non riverberarsi negativamente sulla didattica. Quella che lei chiama simpaticamente “soluzioncina” tiene insieme due necessità: evitare di fare del docente in classe l’arbitro delle sorti degli studenti e arrivare ad una valutazione “fiscale” che abbia una spendibilità (“credibilità”) esterna, in più salvaguardando l’autonomia della scuola, che sarebbe compromessa da esami esterni paragonabili a quelli per i GCSE inglesi (in cui i “programmi di esame” decidono di fatto la didattica). Ovviamente, per funzionare, la cosa necessità di docenti capaci di capire cosa stanno facendo, abituati a cooperare, a gestire didattiche diverse e non schiacciati sui fantasmatici “programmi”. In altre parole, ci vogliono docenti competenti, che sono l’ingrediente fondamentale per QUALSIASI riforma.

    7) far volare e aiutare: nessuno si è sognato di affermare che l’obiettivo dia altro da questo.

    La ringrazio per l’attenzione e alla prossima

  29. Francesco
    grazie risposta.
    In una recente discussione di lavoro con un collega, mi è stato rimproverato -da un terzo- che stavamo difendendo la stessa tesi ma non riuscivamo a vederlo. Cerco di evitare lo stesso errore qui.

    Mi sembra che siamo ambedue piuttosto contrariati dall’andazzo scolastico e -capisco meglio ora- ambedue pure allo schema “spiegazione-studio-interrogazione” (io non le chimerei nemmeno “spiegazioni”, suggerisco di dirla “didattica del riassunto”: il docente espone il riassunto del manuale liceale, in genere un riassunto di un manuale universitario, e verifica solamentre che lo studente esponga in modo scorrevole un riassunto del suo riassunto. Questo è sicuramente così per tutte le discipline a carattere storico, e per quelle scientifiche senza esercizi matematici o a carattere matematico. Si salvano un poco la parte grammatica/traduzione della due lingue classiche, matematica al liceo scientifico e agli ITI, e qualche residuo laboratorio dei professionali.)

    Vado per punti:

    1. Anche nell’amministrazione della giustizia, le giurie -per i casi più gravi/difficili- sono collegiali. La riunione dello scrutinio è comunque un luogo dove si può chiedere di render conto delle diverse valutazioni, in effetti l’unico. A me è capitato di farlo. Non è vero sempre e comunque che ‘’unico professore che poteva dare un giudizio qualificato” su un campo disciplinare sia quello con l’incarico di quella disciplina, banalmente perché in uno stesso CdC ci sono spesso più abilitati in più classi di concorso, meno banalmente perché, per es., le prove di italiano possono essere valutate proficuamente da docenti di altre materie umanistiche (e non solo, considerato alcuni temi ‘scientifici’ delle prove di italiano dell’esame di Stato), sia anche perché non si può escludere di dover -tacitamente- riequlibrare situazioni di chiara preferenza per anti/simpatia di un docente verso uno studente.

    Far saltare l’isitituto dello scrutinio collegiale è anche pericoloso per un altro ordine di ragioni. Nello scrutinio il docente esercita un compito di ordine peritale, assumendosi la responsabilità personale della valutazione (sono i docenti, non la Scuola che valuta e certifica), e – a meno di non corrompere tutto il sistema – questo rende molto difficile esercitare una qualche pretesa di rapporto di dipendenza da parte dell’Ammistrazione nello svolgimento di tale compito, e questa indipendenza è sicuramente qualcosa che -siamo d’accordo?- si vuol proteggere (ed esattamente questa indipendenza che si cerca di far saltare con l’INVALSI). Ma se l’onere e l’onore della valutazione ricadono sul singolo docente, fuori dalla solidarietà di un collegio, allora eventuali pressioni, eso e/o endogene alla comunità scolastica, sarebbero meno facile da resistere, e anche da smascherare. La tua proposta mi sembra esattamente un trojan per questioni di riconfigurazione complessiva, e meno liberale, della configurazione giuridica della docenza.

    2. (errore di battitura? la frase di mezzo sembra tronca) Se siamo d’accordo contro la “didattica del riassunto’, la questione delle bocciature mi sembra comunque marginale. Ben altri sono i motivi del perdurare di quella didattica, non ultimo che di fatto – contrariamente a quel che sostengono i detrattori del costruttivismo – essa sia ben più comoda per i docenti della alternative attiviste.

    3. Non saprei. Bisognerebbe provare in modo sistematico, per più anni, con un consiglio tutto orientato a riuscirci. Considera un altro aspetto: perché in Italia è così difficile fare revisioni, far fare e rifare un tema (piccolo saggio) più volte? (vedi l’umiliante fallimento delle tesine per gli esami di Stato). Come mai la maggior parte dei colleghi non prevede unità didattiche ove sia prevista una sequenza di successive correzioni/revisioni dello stesso elaborato?

    4. ok
    5. Non capisco; stai affermando di passare dalle elementari alla superiori?

    6. Mi sembra che siamo d’accordo che le interrogazioni a domandine o piccole quiz, nelle ore di lezioni, mentri gli altri studenti domicchiano, sono inutili, uno spreco di energie e di tempo, e di nessun valore. Ma bisogna evitarla di farla troppo facile. Consideriamo uno modello in cu i-da una parte- il docente è solo un allenatore, senza nessuna ruolo di valutatore, e -dall’altra parte- esami periodici (o solo finale?) svolti da valutatori-giudici di gara esterni (assumendo come suggerisci che i valutatori possano essere docenti interni alla Scuola ma diversi da quelli degli studenti, ipotesi che temo umanamente/burocraticamente non gestibile). Un sistema scolastico nazionale – con le sue emozioni, disfunzioni, varietà di situazioni particolare, tensioni esogene e endogene varie, ecc. ecc.- reggerebbe se impostato su tale modello? Io non credo. La questione mi appare comunque intrisicamente complessa e da analizzare meglio. Per ora un solo altro commento. La tua argomentazione da una parte accetta che la valutazione non possa essere demandata che conoscono gli studenti, ai docenti-allenatori, dall’altra esclude esami esterni tipo “GCSE inglesi”. Non sono sicuro che tu possa evitare uno slipping slope, che dalle premesse che accetti alla fine non si arrivi proprio a ciò che escludi.

    alla prossima
    notte
    m.

  30. Mah, che dire visione personalissima dell’autore, non corrispondente a quanto vissuto e visto alla scuola secondaria di primo grado. Non si valuta il ragazzo, nè si cerca di capire se la promozione permetterebbe al ragazzo di raggiungere con il tempo gli obiettivi minimi al superamento dei percorsi successivi, nè se tale pratica lo potrebbe invece affossare definitivamente costringendolo a confrontarsi con obiettivi irraggiungibili perché privo delle basi necessarie. Di vede la b9cciatura solo come una punizione e non una possibilità. Il problema verrebbe solo rimandato al quinto superiore dove chi non ha mai fatto nulla nè voluto apprendere nulla dovrà essere valutato. A quel punto il 3 di matematica o di Elettronica o di economia resta e nessuno ha il potere di farlo diventare magicamente 6 perché se uno non ha appreso come si fa a dirgli che è un ragioniere o un perito o un meccanico? Che senso avrebbe sfornare incompetenti? E chi ha faticato come un mulo per raggiungere quel 6 dove lo mettiamo? Lo schiaffo morale che molti ricevono alla maturità è sempre stato questo: stesso voto a percorsi completamente diversi, il non riconoscimento del merito, il fare di tutta l’erba un fascio. Con l’illusione che poi nella vita sarà diverso, quando già sappiamo che purtroppo non è così. Basta guardarci tra colleghi: lavorare tanto e spendersi per poi ricevere lo stesso stipendio di chi non fa nulla. È vero si fa per passione, per amore del proprio mestiere, per la propria dignità…. ma il risultato è sempre lo stesso: meno fai più guadagni e più ti godi la vita. Che spasso e che meraviglioso messaggio diamo alle generazioni future!!

  31. @Mario

    1) Il parallelo con la giustizia è tanto rivelatore quanto improprio. Lo scrutinio di un CdC NON è un verdetto (improprio) ma è esattamente così che è visto (rivelatore). La presenza di docenti simili o affini nel CdC è assolutamente casuale, ed in ogni caso, oggi, la valutazione “collegiale” fa esprimere tutti i docenti su tutte le materie. Ma quand’anche si inserisse il correttivo dell'”affinità”, rimane il fatto che a conoscere e a valutare l’operato dello studente, nello schema attuale, è chi sta in classe e non si vede come potrebbe obiettarvi chi in classe non c’è stato e non ha neanche visto le prove di valutazione. Nel mio schema, invece, la valutazione “finale” o “periodica ma non vincolante” non è svolta dai docenti di classe ed è pure anonima, ragion per cui un CdC non ha proprio ragion d’essere.

    Sul discorso “responsabilità”, problemi non ne vedo, visto che le valutazioni “intermedie” in realtà non sono nulla più che “simulazioni” con valore diagnostico, null’altro, quindi senza conseguenze e cioé senza tensioni. Sul fatto che poi alla fine ci sia una commissione esterna (anche se non “remota”, trattandosi di docenti della scuola) non vedo problemi. E’ un po’ come negli Esami di Stato professionali.

    2) e 3) Mi sembrano una questione minore, tutto sommato, rispetto alla questione della bocciatura. La mia impressione è che il sistema attuale sia coerente nelle sue parti interne e finalizzato a produrre mediocrità, ma sono minuzie, queste.

    5) Più o meno. O meglio: lasciare intatto il numero degli anni scolastici, ma fare superiori di 8 anni (all’inglese), o di sette con sei di elementari, o viceversa.

    6) Non vedo particolari difficoltà. Già ora parte della valutazione all’Esame di Stato è esterna e nessuno si straccia le vesti. Inoltre, è nel sistema attuale che la valutazione non può che essere espressa da chi conosce gli studenti, visto che il docente “allenatore” è anche il valutatore (in corso d’opera).

  32. @Francesco

    1)
    >>>> Il parallelo con la giustizia è tanto rivelatore quanto improprio. Lo scrutinio di un CdC NON è un verdetto (improprio) ma è esattamente così che è visto (rivelatore).

    paralleli ne ho fatti con giustizia, sport, medicina. Stiamo cercando di cogliere affinità e differenze.

    >>>>> Ma quand’anche si inserisse il correttivo dell’”affinità”, rimane il fatto che a conoscere e a valutare l’operato dello studente, nello schema attuale, è chi sta in classe e non si vede come potrebbe obiettarvi chi in classe non c’è stato e non ha neanche visto le prove di valutazione.

    NI, qui renderesti di principio corretto solo ciò che deve rimanere un andazzo prevalente. Non devi chiudere il quadro normatvo alla possiblità (anche sistematica) di un lavoro più collegiale dell’usuale. E comunque anche oggi è del tutto possibile, legittimo e didatticamente utile contribuire alle reciproche valutazioni. Se come docente di matematica vedo errori ortografici sistematici nelle verifiche di geometria di uno studente, posso certo proporre (far mettere a voti) di abbassare un voto troppo alto di Italiano.

    >>>>Sul discorso “responsabilità”, problemi non ne vedo, visto che le valutazioni “intermedie” in realtà non sono nulla più che “simulazioni” con valore diagnostico, null’altro, quindi senza conseguenze e cioé senza tensioni. Sul fatto che poi alla fine ci sia una commissione esterna (anche se non “remota”, trattandosi di docenti della scuola) non vedo problemi. E’ un po’ come negli Esami di Stato professionali.

    Attualmente credo (ma chiedo aiuto a qualche collega giurista), i risultati di scrutinio annuale sono appellabile al TAR. Quando ne ravvisa la fondatezza, il TAR può esigere di riconvocare il CdC e riconsiderare la valutazione. Nota che l’Amministrazione non ha potere di ‘rivalutazione’ dei risultati dello scrutinio, e l’ingiuzione del TAR, è ai singoli CdC, non alla Istituzione Scolastica. Nel tuo schema, la responsabilità sarebbe in capo al singolo docente (oppure prevedi scrutinii annuali di Commissione di valutazione finale, e il ricorso al TAR sarebbe quindi contro tali Commissioni?). Sicuramente non volgiamo che l’azione sia contro l’Istituzione Scolastica, perché questo cambierebbe totalmente la configurazione giuridica della docenza.

    5)
    >>>>> Più o meno. O meglio: lasciare intatto il numero degli anni scolastici, ma fare superiori di 8 anni (all’inglese), o di sette con sei di elementari, o viceversa.

    potrebbe essere soluzione nominalistica, anche se condivido che la media sia l’anello debole del sistema italiano

    6)
    >>>> Non vedo particolari difficoltà. Già ora parte della valutazione all’Esame di Stato è esterna e nessuno si straccia le vesti. Inoltre, è nel sistema attuale che la valutazione non può che essere espressa da chi conosce gli studenti, visto che il docente “allenatore” è anche il valutatore (in corso d’opera).

    Ancora rinvio la discussione di tutti i pro e i contro, i presupposti e gli effetti remoti delle varie opzioni ad altra occasione (trovando, ripeto, la questione intrisicamente difficile da analizzare). Considera comunque che se assumi in pieno un modello di docenti-allenatori senza poteri di valutazione (nemneno intermedia), diviene difficile non introdurre forme di preferenza e di scelta da parte delle famiglie dei docenti dei propri figli.

    alla prossima grz
    m.

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