di Bernardo De Luca
[È da poco uscita, a cura di Bernardo De Luca, l’edizione critica e commentata di Foglio di via, il primo libro di poesie di Franco Fortini. Presentiamo alcuni paragrafi dell’introduzione].
- Foglio di via ovvero la poesia dell’evento
Foglio di via e altri versi viene pubblicato per la prima volta nel 1946; raccoglie testi scritti dal 1938 al 1945, un arco cronologico segnato da uno degli eventi collettivi più tragici della storia contemporanea: la Seconda guerra mondiale. La maggioranza delle poesie fu composta negli anni di guerra, quando il soldato Fortini, chiamato alle armi nel luglio del 1941, fu prima di stanza a Milano, poi, dopo l’Armistizio dell’8 settembre, in fuga nella Svizzera neutrale, definita dallo stesso Fortini un «rifugio della libertà».
Nei campi di accoglienza per gli espatriati, il giovane soldato e poeta matura le scelte di una vita e scrive i versi del suo primo libro organico di poesia (e, più in generale, primo libro della sua lunga ed eterogenea attività letteraria). Nella casa di Alberto Fuhrmann, pastore valdese che accoglie il giovane rifugiato, Fortini compone molte delle liriche di Foglio di via e vive quella che con le sue parole è definibile come «una vera seconda università, un momento straordinario»[1]. Qui, infatti, conosce numerosi intellettuali europei, come lui in fuga dall’assedio hitleriano, e si apre alle suggestioni culturali provenienti da diversi paesi dell’Europa continentale. Ad esempio, in questo torno di tempo, Fortini legge e traduce i poeti della Resistenza francese. Quest’ultima fu un’esperienza significativa, che mostrò a Fortini un modo di fare poesia radicalmente diverso da quanto aveva scritto lui stesso negli anni precedenti la guerra.
Negli stessi mesi, un giovane studente di Ginevra, Jean Starobinski, in un saggio cruciale per la comprensione della poesia resistenziale francese, ragiona sul rapporto tra poesia e guerra, e sul valore di esperienze poetiche di autori come Aragon, Éluard o Emmanuel. Non sappiamo con certezza se Fortini abbia letto l’articolo di Starobinski pubblicato su «Lettres» nel gennaio del 1943, ma non è improbabile che ciò sia avvenuto, visti i rapporti che i due intellettuali intrattennero in quei mesi, testimoniati anche da una breve corrispondenza epistolare.[2] Ripercorrere brevemente le teorie esposte da Starobinski può essere un buon viatico per affrontare in prima battuta la poesia di Foglio di via; non solo l’articolo fornisce alcune categorie poetiche utili per situare la poesia del primo Fortini in un quadro dal respiro europeo, ma ci mostra anche quali fossero le urgenze storiche e culturali di quei terribili mesi e quale fosse la posta in gioco per chi, nonostante tutto, continuava a scrivere poesie.
Intitolato Introduction à la poésie de l’événement,[3] il saggio di Starobinski prende le mosse dal ruolo del poeta nel momento in cui è posto di fronte alla tragedia del presente: «Dinnanzi ad alcuni eventi gravi e assoluti, il testimone, colpito nel profondo, prorompe nel canto, cioè nel grido che aspira alla purezza». Come per il coro della tragedia classica, secondo Starobinski in questi momenti storici al poeta spetta il compito di testimoniare gli eventi tragici, appartenenti alla sfera del mito o, in generale, a quella collettiva. A differenza dell’antichità, però, il ruolo del singolo individuo ha ben altro peso, e dunque la forma più completa di testimonianza si dà quando, «gli occhi ben aperti dinanzi all’evento, un poeta si appoggia all’eterno per innalzare, muovendo al tempo stesso dal suo io individuale e dalla prova condivisa, un canto che esprime la sofferenza e che dà forma a una speranza in cui tutti possano riconoscersi».
Dopo aver tracciato questa prima ipotesi generale, Starobinski passa all’analisi di un passo tratto dalla premessa di Victor Hugo a Les Voix intérieures, nella quale l’autore ottocentesco riflette sulle tre principali modalità del poetare: la prima legata alla natura, la seconda al focolare e l’ultima agli avvenimenti politici e pubblici. L’analisi del passo di Victor Hugo serve a Starobinski per tracciare la linea di separazione tra la poesia moderna e quella classica civile: oggi, dopo le esperienze poetiche di Baudelaire e Rimbaud, non è più possibile immaginare una netta divaricazioni tra tre diversi ambiti poetici; la realtà poetica è «fondamentalmente una e la fusione in cui ogni uomo deve ritrovarsi […] viene conseguita in ciascun poema e non separando le raccolte e giustapponendo generi». Attraverso la separazione delle diverse modalità poetiche, il poeta era in grado di porre una distanza tra sé e gli eventi storici tale da poter dar vita a una poesia “edificante”; Hugo, ad esempio, poteva ergersi ad un’«altezza sovrana rispetto all’evento» e in tal modo vestire i panni di un «maestro che fa lezione», certo erede di una grande tradizione didattica e satirica, ma ormai fuori dall’orizzonte di attesa della contemporaneità.
Negli anni in cui Starobinski scrive, «teatro dell’evento» non è più la strada parigina (come poteva essere, appunto, per Hugo), ma l’intero universo. Poiché la guerra assume le proporzioni di una catastrofe mondiale, il poeta non può più ergersi al di sopra del tumulto, non può intrattenere con la storia lo stesso rapporto che s’instaura «tra spettatore e spettacolo».
Dunque, qual è il compito che spetta al poeta di fronte al cataclisma della guerra mondiale? Per rispondere a questa domanda, vale la pena riprendere diffusamente le parole dello stesso Starobinski:
La poesia non si contenta di seguire Hugo elevando magistralmente l’evento politico al rango di evento storico. Al nostro tempo, già calata nella storia, la responsabilità del poeta è piuttosto di conferire all’evento storico la qualità di evento interiore, di esprimerlo nella lingua lirica del sentimento piuttosto che in quella del giudizio e dell’esortazione. Dire allora che il poeta è costretto al grido, significa che deve dimenticare le parole e le formule convenzionali per trovare in se stesso una parola nascente, al limite dell’indicibile.
Il poeta che ha provato l’esperienza della tragedia bellica deve, in sostanza, vedere la «storia nell’uomo, piuttosto che l’uomo nella storia», secondo una celebre formula di Pierre Emmanuel ripresa dallo stesso Starobinski. Naturalmente, una tale prospettiva comporta dei rischi, che nondimeno devono essere assunti in tutta la loro contraddizione; primo fra tutti quello di dare forma a «sentimenti chiari ed illimitati» che sorgono dall’esperienza della guerra. La forma, infatti, traccia dei confini instabili, sempre esposti all’immediata rottura «per eccesso di intensità». È per questo motivo che, in filigrana, nel saggio di Starobinski è leggibile anche una critica alla lirica sorta dall’«evento»: la possibilità, cioè, che i testi prodotti dallo scontro con la Storia cadano in una facile retorica della liberazione, in vista di un futuro che riscatti i dolori individuali e collettivi di cui il poeta si fa testimone.
Come detto, non sappiamo se Fortini abbia letto il saggio del critico ginevrino. Se però ripercorriamo le pagine del primo volumetto di poesie di Fortini, è possibile constatare come il progetto poetico complessivo corrisponda alle linee direttrici tracciate da Starobinski. Basti qui, ad esempio, soffermarsi sullo stesso titolo della raccolta, che oltre ad essere il titolo di una delle liriche più rappresentative, è anche un indizio indiretto di poetica.
Nella prefazione alla seconda edizione (qui leggibile nell’Appendice I), Fortini afferma che «“il foglio di via” voleva essere la “bassa di passaggio” che nei trasferimenti accompagna il soldato isolato». Il soldato è per eccellenza uno dei protagonisti del fluire storico, immesso dunque in una catena di eventi che lo rendono testimone di accadimenti di portata collettiva; tuttavia, Fortini coglie (e si auto-rappresenta in) questa figura nel momento in cui essa è “isolata”, cioè quando vive gli eventi della storia sotto il segno dell’estraneità. Il “foglio di via” è quindi anche un viatico per raggiungere un luogo altro nel quale il soldato sia in sintonia con una nuova comunità; nella poesia eponima il soggetto lirico è infatti immaginato in transito, da una condizione di estraneità a un incontro con un popolo nuovo: transito descritto come un movimento spaziale preciso, che porta dalle altezze della montagna ai villaggi della valle. Se però ci soffermiamo sull’identità di questo soldato, non possiamo non notare che è anche un poeta; ciò ci permette di individuare un’ulteriore potenzialità figurale inscritta nell’immagine del “foglio di via”: quest’ultimo è da identificare anche con la poesia stessa, lo strumento grazie al quale il poeta-soldato può dare forma alla sua testimonianza e, quindi, rappresentare la storia non più come estraneità.
Dunque, l’io lirico di Foglio di via vive la propria esperienza e gli eventi storici non rinunciando alla contraddizione inscritta nel rapporto tra individuo e collettività; se, quando assume le sembianze della catastrofe, la storia si pone come evento che annichila l’individuo, tuttavia, lo stesso individuo può autoscopicamente indagare quanto della storia è in lui (si ricordi la prima metà della massima di Emmanuel: «vedere la storia nell’uomo»). È grazie a quest’operazione che il soggetto può installarsi nella contraddizione e farsi testimone sia della propria Erlebnis, che di un’esperienza collettiva.
A molti anni di distanza, ritornando su Foglio di via in occasione dell’auto-antologia inserita nei Poeti del Novecento (PN), Fortini definisce in questi termini il suo esordio poetico:
Fortini iniziò verso il 1937 con una versificazione scolastica che, nonostante una sua precoce opposizione intellettuale e morale all’ambiente e alla cultura dell’ermetismo fiorentino, non poteva non risentire di alcune forme tipiche della poesia del periodo 1910-35, e soprattutto degli esempi di Jahier, Ungaretti e Montale. La realtà storica e politica circostante sopraggiunse però ad alterare, se non a sopprimere, ogni inclinazione idillica; anzi, la innestò su di una ripresa di accenti del romanticismo tragico. Fra le vicende della persecuzione politica e razziale, l’esperienza della guerra, i contatti con la Resistenza e l’emigrazione, si vennero così componendo i versi di Foglio di via; libro allora isolato, fra l’attesa della guerra, la guerra e la fine del dopoguerra, ossia fra progressione e regressione, sonno e veglia, speranza e autonegazione (PN : 168).
Il passo sottolinea alcuni tratti salienti del libro che possono essere ancora oggi utili per una descrizione della poesia esordiale di Fortini. Innanzitutto, sin dalle prime prove risalenti al ’37,[4] Fortini riconosce la sua distanza dalla poetica egemone degli anni tra le due guerre: l’Ermetismo. Inoltre, viene riconosciuta alla triade Jahier, Ungaretti e Montale l’influenza più pervasiva. Vedremo che sarà soprattutto Montale il modello più presente, come testimoniano i numerosi prelievi lessicali, sintattici e in generale stilistici; Jahier e Ungaretti, invece, sono dei modelli per così dire astratti: l’uno, per la tensione a costruire una poesia corale dai risvolti civili, sebbene a partire da una base “espressionista”; l’altro, in quanto modello decisivo per la narrazione autobiografica del poeta-soldato. Tuttavia, al di là delle coordinate letterarie che costituiscono la formazione poetica dell’autore, è interessante notare che Fortini definisca Foglio di via un «libro isolato», in virtù delle esperienze personali e collettive evocate in quel suo primo libro poetico.
Probabilmente, l’originalità riconosciuta al suo esperimento esordiale è da addebitare proprio alle modalità poetiche riconducibili alle teorizzazioni di Starobinski. Difatti, gli eventi richiamati (la guerra, la Resistenza, l’emigrazione ecc.) fanno tutti riferimento ad una sfera dell’esperienza che racchiude in sé elementi riconducibili sia al singolo individuo, sia alla collettività entro la quale l’individuo stesso si situa. In questa prospettiva va letto il riferimento al romanticismo tragico, una tradizione che, sebbene fondata sull’unicità dell’io lirico, si complica attraverso lo scontro frontale con la realtà storica. Potremmo infatti dire che Foglio di via si sviluppa attraverso la dialettica fra due poli delle forme poetiche, corrispondenti ai due poli dell’individuo e della collettività: la greater Romantic lyric, di cui i principali modelli italiani sono rappresentati in Foglio di via da Leopardi e Montale (influenze particolarmente evidenti nella sezione elegiaca) e quella che, sulla scorta di Starobinski, abbiamo definito “poesia dell’evento”, i cui immediati esempi sono i poeti della Resistenza francese.[5] La dialettica tra questi due poli è evidente sin dalla struttura macrotestuale del libro.
- La struttura macrotestuale
Se analizziamo gli argomenti di Foglio di via ricorrendo alle categorie fornite da Niccolò Scaffai nella sua indagine sul libro di poesia novecentesco (Scaffai 2005 : 37-43)[6], possiamo constatare che la raccolta di Fortini si situa a cavallo tra «argomento di contesto» e argomento lirico-amoroso, al pari di altri due libri che recano evidenti tracce degli effetti della Seconda guerra mondiale, cioè il Diario d’Algeria di Sereni e La bufera e altro di Montale. Foglio di via si presenta, infatti, sia come un «libro Storia», nel quale la dimensione extratestuale ha un peso fondamentale nella gestazione del libro, sia come sintesi del rapporto amoroso con una deuteragonista assente (Scaffai 2005 : 77-82). Vi sono tuttavia delle differenze: il Diario d’Algeria di Sereni esibisce il suo ancoraggio alla realtà extratestuale e alla Storia grazie alla struttura diaristica, nella quale sono registrate fedelmente tappe e tempi del viaggio e della prigionia del soldato; nella Bufera e altro a prevalere è l’argomento amoroso, essendo la Storia lo sfondo entro il quale si muovono le vicende dell’io e del tu. In Foglio di via, invece, Fortini gestisce i due piani dell’argomento attraverso l’accostamento delle sezioni in cui è suddiviso il libro.
Così come apparso nel 1946,[7] Foglio di via è suddiviso in tre sezioni: Gli anni, Elegie e Altri versi; ha, inoltre, sul modello delle liriche di apertura delle prime due raccolte montaliane, un componimento liminare che introduce l’intero libro (E questo è il sonno, edera nera, nostra). Soprattutto nel rapporto tra la prima e la seconda sezione è evidente la giustapposizione di due tipologie di argomenti.
Gli anni sin dal titolo indica una strategia macrotestuale legata allo sviluppo della temporalità degli eventi; sebbene l’indicazione possa essere interpretata anche come allusione ad una biografia dell’io (e tale inizialmente appare), tuttavia bisogna evidenziare che il principale fine della sezione sembra essere quello di restituire l’impatto dell’evento bellico sull’io e sulla collettività. I primi tre componimenti di Gli anni, infatti, descrivono lo stato del soggetto poetico nel suo rapporto conflittuale col contesto che l’accoglie. La principale protagonista, qui, è Firenze, definita città nemica proprio nella lirica di apertura della sezione. Dunque, sebbene in primo piano appaia la spettrografia del soggetto poetico, questa è in realtà disegnata a partire dalla relazione dell’io col mondo che lo circonda, un mondo connotato politicamente (il Fascismo) e culturalmente (il milieu della Firenze anni Trenta). È questo il motivo per cui in questi versi l’io appare dominato dal sentimento di estraneità, mentre il contesto in cui si muove (la città) è prima di tutto un’immagine dell’ostilità (Lenzini 2013 : 87).
Dopo questi primi componimenti, già nella semplice successione dei titoli le liriche mostrano quanto la realtà esterna, la Storia con il suo portato tragico, entri prepotentemente nella vita dell’individuo, occupandone in sostanza la totalità del vissuto. Il componimento che segna questo passaggio è Italia 1942, un testo per il quale i bombardamenti hanno rappresentato l’occasione che ha mosso il poeta al canto. Inoltre, è necessario sottolineare come proprio i titoli delle liriche che, da qui in poi, occupano l’intera sezione rechino precise informazioni geografiche e/o temporali (Italia 1942, Varsavia 1939, Varsavia 1944, Valdossola) oppure indichino una situazione “collettiva” (Coro di deportati, Per un compagno ucciso, Canto degli ultimi partigiani, Manifesto). Infine, solo la seconda lirica della sezione (Quando) presenta una datazione bassa in contraddizione con la posizione alta (probabilmente, perché legata a temi pre-bellici – si veda il cappello introduttivo alla stessa lirica), mentre la successione delle restanti poesie suggerisce anche uno sviluppo cronologico, testimoniato dalla datazione dei singoli testi e in linea con il titolo della sezione, Gli anni appunto.
Dunque, la Storia, e in particolare l’evento della Seconda guerra mondiale, rappresenta l’argomento principale della prima sezione. Sebbene questo sia declinato in funzione anche biografica e lirica, non vi è dubbio che l’extratesto entri prepotentemente a strutturare il testo. D’altro canto, la stessa alternanza tra liriche per così dire monodiche e liriche corali descrive la complessa dialettica cui è sottoposto il soggetto nel momento in cui subisce gli eventi storici; una dialettica cioè che costringe a confrontarsi con la doppia natura dell’esperienza bellica, contemporaneamente esperienza individuale e collettiva. Non è così, invece, per la seconda sezione, Elegie. Già nel titolo vi è un ripiegamento soggettivistico, essendo l’elegia dalla latinità in poi il genere votato alla confessione dell’io poetico. Difatti, sin dalle Cinque elegie brevi che la aprono, ci troviamo di fronte a una classico dialogo in absentia tra io e tu nel quale il principale modello è il Montale degli Ossi e delle Occasioni.[8]
Dopo le prime liriche dedicate esclusivamente alla ricostruzione della relazione amorosa, la sezione procede con componimenti che rappresentano un viaggio geografico e spirituale attraverso l’Italia centrale. Difatti, tutte le liriche presentano nel titolo una specificazione geografica e/o temporale, tramite l’accostamento della preposizione di specificazione (semplice o articolata) alla località geografica che accoglie le meditazioni dell’io. Fa eccezione a questa prassi di titolazione solo la conclusiva vice veris. Tuttavia, la citazione oraziana («Solvitur acris hiems grata vice veris et favoni»; Odi, I, 4, v. 1: “si dissolve l’aspro inverno con il dolce ritorno della primavera e dello zefiro”) viene rifunzionalizzata per descrivere il passaggio dal novembre e dagli autunni del ripiegamento soggettivistico alla primavera e all’aprile della “liberazione”; passaggio che suggella la natura mentale e spirituale del cronotopo elegiaco.
Se la prima sezione si chiudeva con componimenti dalla natura corale datati 1945 (e, quindi, legati alla conclusione della guerra e della lotta resistenziale), l’apertura della seconda sezione con un gruppo di liriche scritte entro il biennio 1939-42 indica una precisa strategia macrotestuale e, per così dire, narrativa. La sezione elegiaca, infatti, sul piano diegetico va interpretata come un’analessi, nella quale il poeta descrive esclusivamente la sua evoluzione interiore, che va dai turbamenti amorosi a quelli religiosi e politici. Sebbene la relazione con la deuteragonista rappresenti l’occasione per la meditazione sullo stato del soggetto, in realtà nelle Elegie l’argomento principale non è tanto l’assenza dell’amata o la fine della relazione, quanto la crisi dell’io e l’assenza di prospettive di senso.
In alcuni componimenti la figura femminile assume tratti identitari ambigui, per cui è difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra narrazioni di esperienze dell’autore empirico e figurazioni allegoriche testuali. Un indizio di questa ambiguità tra piano dei referenti e figuralità allegorica è data dall’assenza di un senhal o di un nome specifico per identificare precisamente la donna amata. D’altro canto, proprio il tema dell’impossibilità di pronunciare il nome della deuteragonista crea le situazioni liriche in cui più evidenti sono i risvolti religiosi di questo rapporto (si veda, in particolare, Sulla via di Foligno). A tal proposito, non è sbagliato dedurre che, in questo micro-canzoniere lirico, Fortini volle riportare i propri turbamenti giovanili, scissi tra le ragioni della letteratura, quelle religiose (si ricordi che, nel 1939, Fortini si convertì alla religione protestante della chiesa valdese)[9] e le incipienti istanze etico-politiche, che prenderanno poi il sopravvento dopo l’esperienza della guerra e della Resistenza.
Un dato testuale non secondario che permette di rilevare la vocazione lirica della sezione elegiaca è l’assenza di riferimenti specifici alla guerra e alle vicende esistenziali scaturite dall’esperienza bellica (come, ad esempio, l’esilio). Un caso particolare ma significativo è l’elegia Della Sihltal, ambientata nei territori della Svizzera neutrale, ma priva di informazioni trasparenti sulle ragioni che conducono il soggetto lirico nella valle oltralpe. Non a caso, la lirica sarà espunta dall’assetto definitivo di Foglio di via quando, a partire dall’edizione del 1967, Fortini decide di smussare il ripiegamento soggettivistico della sezione elegiaca, a favore delle sezioni più sbilanciate su temi d’interesse collettivo (cioè, la prima e la terza).[10]
L’ultima sezione, Altri versi, raccoglie i testi più maturi di Fortini, ma è anche la sezione in cui più si fatica a riconoscere un principio ordinatore: lo stesso titolo generico, almeno superficialmente, indica l’eterogeneità dei testi qui raccolti. In realtà, la quasi totalità delle liriche di Altri versi esibisce un modo poetico, e anche di costruzione macrotestuale, che sarà proprio del Fortini maturo. I componimenti della terza sezione, infatti, sono una sintesi di avvenimenti e stati dell’io rappresentati nei testi delle prime due, a partire dalla poesia eponima della raccolta che nel giro di pochi versi ricapitola il tema dell’estraneità che pervade l’intero libro. Tuttavia, la particolarità di questi testi sta nell’esibizione di un background culturale che incide profondamente sulla stessa costruzione delle singole liriche, in virtù di una poetica che «si nutre, al pari e forse più di altre, di una cultura che è consustanziale all’ispirazione» (la definizione è di Carrai [2002 : 357], formulata proprio a proposito di una lirica di Altri versi, cioè La buona voglia). Siamo, in pratica, agli albori del manierismo fortiniano, che nei libri di poesia maturi si concretizzerà nella costruzione di sezioni in cui le rappresentazioni di maniera e dal vero (titolo di una delle sezioni di Questo muro) procedono parallelamente; anzi, è forse proprio la maniera che permette all’io, e dunque al lettore, di smascherare le rappresentazioni illusorie dello stesso vero.[11] All’altezza di Foglio di via, questa pratica testuale è messa in atto con minor coscienza critica e non è ancora fulcro dell’intera prassi poetica fortiniana. Probabilmente, è questa una delle principali eredità del magistero di Noventa, da cui Fortini riprende sia la tendenza a comporre una poesia che mira ad avere dei destinatari precisi, sia la passione per i modelli della tradizione italiana, magari anche inattuali (Tasso, Manzoni, Leopardi, Carducci ecc.); ma è soprattutto il “cantar allusivo”[12] di Noventa a incidere sulla formazione poetica del giovane allievo; con gli anni, infatti, questo strumento diventerà caratteristica peculiare di Fortini, anche rispetto agli altri autori del panorama secondo-novecentesco. A questo punto, non è forse azzardato ipotizzare che nel titolo Altri versi non vi sia da scorgere l’indicazione di un’eterogeneità di forme, quanto piuttosto l’allusione, forse anche velatamente ironica, alla natura letteraria delle liriche di cui è collettrice la sezione.
A differenza di quanto recita la Nota dell’autore apposta al volume uscito nel 1946 («L’autore, al momento di raccogliere le sue composizioni, avrebbe voluto vederle collegate naturalmente fra loro da una qualche concordia di motivi o espressioni; e le ha riconosciute, invece, come gli anni che le han generate, diverse e divise secondo diversità e divisioni che erano, prima di tutto, sue proprie; e irresolute, astratte»), in realtà, sebbene le tre sezioni siano ognuna espressione di una modalità poetica diversa dalle altre, la raccolta risponde a dei principi di coesione che potremmo sintetizzare in questo modo: il rapporto tra le prime due sezioni è fondato su di una connessione narrativa, che tende a differenziare le poesie più legate agli eventi della storia collettiva e quelle che invece sono il riflesso dell’evoluzione interiore dell’io; entrambe, in ogni caso, collaborano alla raffigurazione complessiva di una stagione della vita del soggetto e della storia collettiva. La terza sezione, invece, intrattiene con le due precedenti, da un lato, un rapporto di continuità, in quanto tema delle poesie sono gli stessi avvenimenti narrati nelle sezioni precedenti; dall’altro lato, invece, un rapporto per così dire differenziale, fondato cioè sulla percezione della difformità formale tra testi più legati all’espressione diretta dell’esperienza individuale o collettiva e testi in cui la mediazione letteraria è più marcata.
[…]
- Foglio di via nel percorso poetico fortiniano
Col senno di poi, Foglio di via appare come il momento fondativo della lirica fortiniana non semplicemente perché suo primo libro poetico. Prima di tutto, come in molti autori della sua generazione, la guerra tende a istituirsi come un “orizzonte permanente” (Alfano 2014 : 201), il trauma che fonda la sua fisionomia di uomo e intellettuale. Sul piano tematico, infatti, nelle successive raccolte, numerose sono le occorrenze di immagini e situazioni che riprendono quelle già incontrate nella sua prima raccolta. Ad esempio, la figura del soldato isolato ricorre più volte lungo tutto l’arco dell’opera poetica. Si pensi a una poesia come A metà, che nella sistemazione ultima di Poesia e errore dà il nome ad un sottogruppo di testi della macrosezione Al poco lume; la terza strofa recita: «a metà della strada – quando il comando è lontano/ e il foglio scritto è sbiadito di pioggia/ e la battaglia è un’eco e la notte precipita/ e chi porta il messaggio ha l’affanno del disertore». Il soldato allude anche in questo caso alla figura del poeta, custode di un messaggio da consegnare; ancora una volta, l’uomo nella storia appare in viaggio, alla ricerca disperata di un Altro cui consegnare il “foglio”. Inoltre, l’accostamento al disertore mette in evidenza la condizione di solitudine che vive il soldato-poeta, che rinvia alla figura del personaggio lirico di Foglio di via.
Oppure, si pensi ancora all’immagine del soldato (questa volta non isolato, ma disperato) che ritorna nella poesia considerata il testamento poetico di Fortini: «E questo è il sonno»…come lo amavano il niente, ultimo componimento “serio” di Composita solvantur. Nella penultima strofa, si legge: «Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941./ “Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci./ Abbiamo Mosca alle spalle”. Si chiamava/ Klockov». Come indicato dal titolo-incipit, la poesia si apre con un riferimento al primo componimento di Foglio di via, cioè È questo è il sonno, edera nera, nostra; dunque, sin dall’esordio, la poesia di Composita solvantur si presenta al lettore come una resa dei conti con la memoria. La strofa, infatti, recupera uno dei temi principali di Foglio di via, e cioè il tentativo di un individuo di appellarsi agli altri per evitare la catastrofe storica: il soldato Klockov, commissario politico a capo della resistenza russa, rappresenta questa disperata chiamata. Come ha specificato Lenzini: «Il tempo storico, e con esso la figura di un sacrificio, doveva suggellare l’ultimo atto della vicenda poetica di Fortini» (Lenzini 2008 : 247).
Nell’ultimo componimento citato, la connessione macrotestuale a lunga gittata, attraverso la ripresa della prima lirica di Foglio di via, testimonia anche la volontà fortiniana di presentare la sua poesia come un blocco in cui prevale la continuità. Se nelle connessioni tra una raccolta e l’altra, Fortini aveva utilizzato la soluzione di porre in epigrafe, ad apertura di un nuovo libro, l’ultimo componimento della raccolta precedente (è il caso della Gioia avvenire, posta in epigrafe di PE69, e di L’ordine e il disordine, in epigrafe in PS), attraverso la ripresa di E questo è il sonno nell’ultima poesia seria di Composita solvantur, Fortini presenta il testo come un vero e proprio bilancio, poetico ed esistenziale, di un’intera vita (Rappazzo 2007 : 72); non a caso, la lirica si conclude con il celebre verso: «proteggete le nostre verità». Verità il cui primo barlume appare proprio in Foglio di via.
Al di là però delle singole riprese tematiche dal primo libro, Foglio di via è un momento fondativo per la prospettiva intrinsecamente poetica: per molti aspetti, la raccolta si presenta come un collettore delle principali modalità poetiche fortiniane, che verranno declinate poi in modi più maturi nelle raccolte successive. Il primo libro, infatti, come indicato dallo stesso Fortini, era un “libro isolato”, perché conteneva modi di interazione tra storia ed estetica non percorsi da altri autori coevi. La volontà fortiniana di fare della poesia il campo delle tensioni della storia, certo da una specifica prospettiva politica, ma all’altezza di Foglio di via ancora in maniera asistematica, è forse ciò che di più prezioso ci trasmette l’esperienza poetica fortiniana. Non che in altri autori lo scontro con la Storia non sia ugualmente importante. Tuttavia, Fortini sacrifica tutto ciò che possa creare un contatto con il lettore che non sia meditazione critica sullo stato di cose presente e sull’urgenza di intervenire per modificarlo. Quest’attitudine ha fatto pensare ad una poesia fredda, complice anche qualche misinterpretata massima fortiniana, che respinge il lettore contemporaneo di poesia, abituato prima di tutto a riconoscersi nel testo poetico e nelle istanze della soggettività che lo informa. In realtà, nulla di freddo vi è in quella poesia se, dietro la distanza fortiniana, scorgiamo il canto disperato di chi vede il fantasma di un futuro avvenire, che nega i modi di esistenza presenti e la condanna dell’uomo allo spreco di sé.
Per chi aveva vissuto l’esperienza della guerra e provati quasi tutti i suoi più tragici episodi (la guerra in sé, naturalmente, ma anche le persecuzioni razziali, l’esilio, la Resistenza), la Storia non poteva essere rubricata nella categoria del semplice “tempo passato”. Dolori, aspirazioni e contraddizioni di quel tempo sarebbero rimasti come lo spettro perpetuo cui sacrificare qualsiasi ipotesi di gioia avvenire. Ciò comporta la rinuncia alla poesia intesa come forma di espressione narcisistica ed egocentrica del soggetto poetico. Questa rinuncia ha significato per Fortini, in tempi di espressivismo imperante, la diffidenza di critici e lettori che vedevano anche nel poeta il moralista e l’ideologo.
Nella prima edizione della prima raccolta, questo passaggio cruciale che segna irreversibilmente la sua fisionomia poetica e intellettuale è particolarmente evidente. Evidente sin dalle soglie paratestuali e materiali del libretto. La copertina dell’edizione einaudiana del 1946, infatti, recava un disegno dello stesso Fortini in cui vi era rappresentato un giovane dormiente. Come poi precisato dallo stesso Fortini nella Prefazione del 1967, il giovane disegnato voleva rappresentare il dormiente che s’intravede nella prima poesia di Foglio di via, E questo è il sonno. Potremmo infatti dire che la raccolta descrive proprio il passaggio da uno stato sonnambolico dell’io, disperso nello spreco dell’esistenza (di cui la poesia rappresenta il primo inganno o illusione), ad uno stato di attenzione e di veglia verso il presente, la storia e gli altri uomini, dopo che il soggetto, “gli occhi aperti di fronte all’evento”, ha acquisito la coscienza che l’unica soluzione al male presente è quella etico-politica, per la quale l’uomo e il poeta devono agire. Questa soluzione, tuttavia, è sempre di là da venire, non si dà mai nella concretezza del momento e può solo essere additata, anche quando pare illusoriamente più vicina (e, negli anni di Foglio di via, tale apparve la stessa “Liberazione”). Non è un caso, infatti, che la raccolta si chiuda sì con un momento, per così dire, positivo, ma che ha il carattere dell’auspicio più che della constatazione. Se in Coro dell’ultimo atto il soggetto è pienamente immesso nel flusso del divenire storico, dopo un’esperienza che gli ha concesso un vero e proprio percorso gnoseologico («conoscerà ognuno una cosa vera»), non si deve tuttavia interpretare questa conclusione come un punto d’arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza. «Le grandi opere ignude» sono tutte da compiere e non resta dunque che tornare al lavoro: l’ultimo verso di Foglio di via significativamente recita «E noi e voi torneremo al lavoro», aprendo lo spazio dell’azione futura e, paradossalmente, concludendo il libro più su quanto resta ancora da fare, che su quanto fatto.
Proprio la condizione del poeta come vigile osservatore del presente e la volontà di trasformare la poesia nel campo figurativo delle tensioni storiche hanno reso Fortini uno degli autori attualmente più ridiscussi nel panorama poetico contemporaneo. Se in vita più attenzione fu concessa ai poeti suoi amici e interlocutori (si pensi a Sereni, Zanzotto, Luzi), oggi molti autori si rifanno direttamente o indirettamente alla sua lezione, anche coloro la cui prassi poetica appare distante da quella fortiniana. Da Milo De Angelis ad Andrea Inglese, attraverso Giovanni Raboni, Fabio Pusterla, Antonella Anedda, Stefano Dal Bianco e altri, in molti dei principali attori della scena poetica contemporanea è registrabile un’ascendenza fortiniana più o meno esplicita;[13] in alcuni casi quest’ascendenza si concretizza in un riferimento trasparente (e non poche sono le occasioni in cui versi fortiniani sono posti in epigrafe a singole liriche o raccolte). Già Mengaldo ipotizzava una “funzione Fortini” all’interno della poesia novecentesca, da ricondurre, più che alla ripresa testuale di singoli luoghi fortiniani, a quella che lo stesso critico definiva l’integrale politicità della sua visione poetica (Mengaldo 1987 : 388-90). Al di là di quanto sia adottabile una simile categoria, è qui interessante sottolineare che ritornare alla poesia di Fortini significa confrontarsi con un corpus poetico che pare farsi più fecondo col passare degli anni, schiudere le sue verità che, come intimava Fortini, esigono cura e protezione. Probabilmente, il modo migliore di prestare attenzione alla sua opera è ricominciare la lettura dall’atto di nascita della sua poesia, quando un giovane fiorentino, dopo quella che appariva una vera e propria catastrofe individuale e collettiva, decide di dare la sua testimonianza degli eventi storici in veste di poeta. Questo perché la stessa metafora sottesa all’immagine del foglio di via ben si presta a rappresentare l’intera sua attività poetica. Difatti, la sua condizione è stata probabilmente sempre quella che si intravede nel suo primo libro: un soldato che reca affannosamente un foglio di via, alla ricerca disperata di destinatari precisi che possano accogliere e, soprattutto, decifrare il suo messaggio.
Bibliografia
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SIGLE OPERE DI FRANCO FORTINI
FV : Foglio di via
FV46: Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino, 1946.
FV67: Foglio di via e altri versi, nuova edizione riveduta con una nota dell’autore, Einaudi, Torino, 1967
PE : Poesia e errore
PE59: Poesia ed errore, Feltrinelli, Milano, 1959.
PE69: Poesia e errore, Mondadori, Milano, 1969.
PS : Paesaggio con serpente
PS84= Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Einaudi, Torino, 1984.
CS : Composita solvantur
CS94= Composita solvantur, Einaudi, Torino, 1994
PN : I poeti del Novecento, Laterza, Bari, 1977 ; seconda edizione, ivi, 1988
SE : Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L. Lenzini e uno scritto di R. Rossanda, «I Meridiani», Mondadori, Milano, 2003
[1] Per una ricostruzione dettagliata dell’esilio svizzero, si veda Broggini 1999. Inoltre, per una panoramica sugli scrittori rifugiati in Svizzera (con rappresentazione cartografica) molto utile Bresciani-Scarpa 2012. Una ricostruzione biografica dettagliata della vita di Fortini è leggibile in Lenzini 2003.
[2] Presso L’Archivio e Centro Studi Franco Fortini dell’Università di Siena sono custodite 9 lettere di Starobinski a Fortini, 8 risalenti al periodo dell’esilio (6 gennaio 1944-11 marzo 1945) e una del 22 agosto 1977. In molte delle lettere del primo periodo, Starobinski sottolinea la vicinanza intellettuale con Fortini, una vicinanza soprattutto di «pensés et languages» (lettera del 30 giugno 1944). I due si scambiano numerosi scritti e discutono delle rispettive visioni culturali, soprattutto in merito al rapporto tra individuo e storia. Nella lettera del 30 luglio 1944, Starobinski chiede a Fortini: Vous recevez l’un de ces prochaines jours les exemplaires de “Lettres”, Nova et Vetera?»; in base a questa informazione possiamo inferire che Fortini fosse in possesso del numero della rivista in cui compare il saggio Introduction à la poésie de l’événement, scritto dall’intellettuale ginevrino.
[3] L’articolo è oggi leggibile nella traduzione italiana curata da G. Pedullà in Starobinski 2005, da cui si cita.
[4] Per un primo approccio alla poesia fortiniana degli anni fiorentini, vd. Palumbo 1998 e Pulina 1989; per un attento studio dell’attività intellettuale pre-bellica e della poesia precedente l’esordio in volume, si veda soprattutto Daino 2013.
[5] Per greater Romantic lyric s’intende un testo poetico che contiene «il monologo di un io poetico individuato che si muove in un paesaggio individuato e intrattiene un colloquio con se stesso, con un interlocutore silenzioso o con le cose. Di solito, la prima persona incomincia descrivendo ciò che vede, e poi si addentra in una riflessione latamente filosofica che la spinge a prendere una decisione morale, a risolvere un problema emotivo, ad affrontare una perdita tragica o a riflettere sulla condizione umana» (Mazzoni 2005 : 179).
[6] Come evidenziato dallo stesso Scaffai, l’analisi degli argomenti del libro di poesia non esaurisce il senso di una raccolta poetica; essa rappresenta però un prima tappa utile per la comprensione delle strutture macrotestuali. Il quadro teorico delineato da Scaffai 2005 (40-41) è fondato su un repertorio di argomenti poetici «storicament[e] attuat[i]» presentati in una prospettiva storiografica utile per il nostro oggetto di studio. In generale, per la fisionomia del libro di poesia, oltre al già citato lavoro di Scaffai, sono stati tenuti in considerazione Genot 1967; Testa 1983; Santagata 1989; De Rooy 1997; Testa 2003.
[7] In questa introduzione si fa riferimento appunto alla princeps di Foglio di via, che è stata scelta come testo-base per l’edizione critica. Per quanto riguarda le sezioni, tuttavia, esclusa la pubblicazione dei testi di FV46 nella prima edizione di Poesia ed errore (1959 – PE59), l’ordinamento resterà invariato a partire dalla seconda edizione del 1967. Per la Storia editoriale, lo scioglimento delle sigle e le motivazioni addotte per la scelta di FV46, si rimanda alla Nota al testo che segue l’Introduzione. Per una lettura, invece, di Foglio di via secondo l’assetto dell’ultima volontà d’autore, si veda Lenzini 2013 e Diaco 2017.
[8] Per l’intertestualità montaliana si rimanda al paragrafo Dovuto a Montale in questa stessa introduzione e al commento alle singole liriche. Tuttavia, qui è utile anticipare che una delle principali motivazioni che hanno condotto alla scelta di FV46 come testo-base è legata al tentativo di recuperare la fisionomia poetica più fedele all’immagine esordiale di Fortini. Le Elegie subiscono con gli anni la scure dei ripensamenti e nell’assetto macrotestuale ultimo (definitivo già in FV67) risulta essere la sezione che subisce le cassature. A farne le spese, sono proprio i testi in cui è più evidente l’assunzione del modello montaliano.
[9] Per l’evoluzione religiosa del giovane Fortini, nonché per l’influenza della prospettiva protestante sulla sua attività poetica e saggistica, fondamentale è il volume di Davide Dalmas, La protesta di Fortini (Dalmas 2006). Inoltre, per gli stessi argomenti, ma con particolare attenzione agli scritti pre-bellici, si veda Daino 2013 (soprattutto il capitolo conclusivo, Scatto etico e fede religiosa (1938-1941), pp. 87-159).
[10] Tra gli studi recenti che hanno sottolineato la volontà “partigiana” di rilettura del primo libro di versi, grazie agli interventi di espunzione e inserzione dei testi, vi è Daino 2007.
[11] Cfr. Mazzoni 2002 : 199-204.
[12] Vd. Praloran 1991.
[13] Si veda, ad esempio, Crocco 2015 e Zublena 2016, rispettivamente dedicati a Milo De Angelis e Giovanni Raboni.
[Immagine: Franco Fortini ]