di Daniele Lo Vetere
Il nome ormai automaticamente associato al genere della “critica al politicamente corretto” è quello di Robert Hughes.[i] È lecito chiedersi se Jonathan Friedman, autore di un Politicamente corretto che esce contemporaneamente in edizione inglese e italiana (Meltemi, 2018) ne diventerà il nuovo eroe eponimo.
Hughes ambiva a fornire una descrizione, più che un’interpretazione, del fenomeno; inoltre gliene stavano a cuore soprattutto i riflessi sulla cultura e sull’insegnamento e giudicava tutta la faccenda secondo un’attitudine ironica, fondata su di un common sense ostile all’astrazione teorica (scriveva cose terribili su Foucault), che poteva apparire, a seconda del lettore, sarcasmo da conservatore o garbato buon senso da grande umanista. Al contrario Friedman, che è un importante antropologo, affronta la materia da scienziato sociale: il suo obiettivo è fornire un’interpretazione generale del p. c. Nonostante il libro prenda le mosse da esperienze autobiografiche, i casi personali hanno funzionato da molla che ha fatto scattare nello studioso il desiderio di una sistematizzazione teorica.
La natura «formale, o strutturale» del p. c.
Che cosa, innazitutto, non è il p. c.? Non è principalmente una questione di censura o ipocrisia linguistica, ma un più profondo fenomeno sociale, antropologico e politico. Friedman ne analizza le manifestazioni nella società svedese e in sottordine negli Stati Uniti e in Francia (l’antropologo è uno statunitense che ha vissuto per quarant’anni in Svezia).
Il p. c. è «una forma di comunicazione e di categorizzazione»:[ii] è un regime linguistico e sociale relativamente indipendente dall’orientamento politico, che è solitamente di sinistra in Europa e liberal negli Usa; possono infatti adottare uno stile comunicativo p. c. anche i conservatori. Il p. c. è infatti una forma o una struttura, non un contenuto ideologico. Friedman ne identifica i tratti essenziali: 1) è connesso al narcisismo (ma inteso in senso antropologico e strutturale, più che psicologico), a una «cultura della vergogna», a una generale condizione di crisi d’identità individuale e collettiva; 2) è connesso a un uso del linguaggio «associativo e classificatorio»; 3) ha una natura intrinsecamente paradossale, perché proietta sul “nemico” la stessa logica che pretende di combattere.
Un soggetto in crisi, privo dei tratti identitari ascrittivi – ma protettivi – che la tradizione gli offre, ha bisogno di conferme che gli possono venire solo dallo sguardo degli altri. L’io, in una società individualista, non è meno socializzato, anzi: quanto meno sa chi è, tanto più cerca conferme narcisistiche al di fuori di sé. Adotta comportamenti socialmente conformi e paga le trasgressioni con la vergogna e l’esclusione (eventualmente solo simbolica). In questa situazione il p. c. è un meccanismo di controllo delle manifestazioni esteriori della personalità: prima ancora di dover essere vietati dalla legge o dalla consuetudini sociali, certi comportamenti o un certo linguaggio saranno autocensurati per paura del giudizio altrui, perché «introiettare i giudizi morali implicati [in un contesto sociale] come se fossero propri» è «il modo meno doloroso di adattarvisi».[iii] La Svezia, dove è caratteristica l’introiezione di un controllo sociale molto alto, ha sviluppato una sorta di p. c. “di Stato”, mentre negli Stati Uniti esso si manifesta solo in alcuni ambienti, i college in particolare.
L’uso di un linguaggio «associativo e classificatorio» è l’aspetto più importante nel quadro concettuale di Friedman. Secondo l’antropologo, il linguaggio del p. c. è pre-razionale e questa sua immaturità si manifesta in due caratteri: 1) il procedere per associazioni metonimiche e non per dimostrazioni razionali; 2) il cercare di categorizzare e classificare l’avversario, invece di rispondere ai suoi argomenti.
Incerti sulla nostra identità e sulla posizione che gli altri hanno rispetto a noi, prima ancora che considerare quello che ci stanno dicendo e la loro intenzione, abbiamo bisogno di capire da che posizione parlino e quali scopi extra-linguistici perseguano: dobbiamo scoprire i segni della loro personalità o della loro appartenenza a un gruppo o a un’ideologia, e, con essi, il valore sociale e d’uso delle loro parole. Questa spinta a categorizzare e classificare è strettamente connessa allo slittamento metonimico: le parole non vengono più prese stricto sensu, ma sono associate ai concetti contigui, in orizzontale o in verticale, per creare categorie ed etichette generali entro cui sussumere una varietà di fenomeni. In questo modo, dire “forse gli immigrati sono troppi” sarà interpretato come “certamente gli immigrati sono troppi”, quindi “gli immigrati non mi piacciono”, quindi “sei razzista”. Lo spostamento metonimico non avviene solo entro la dimensione del linguaggio, ma anche in quella sociale. Di ciò ha fatto le spese la moglie di Friedman, Kasja Ekholm-Friedman, etnologa svedese, che per anni è stata perseguitata dallo stigma di “razzista” ad ogni uscita in pubblico (a volte in forme francamente grottesche), per il solo fatto di aver presentato in un’occasione i propri studi etnografici a una conferenza organizzata da un’associazione critica con le politiche migratorie del governo svedese: dunque per un semplice episodio di contiguità spaziale con i “razzisti”.
Friedman inquadra la psicologia tipica del p. c. entro un «continuum dell’individualità»[iv] i cui estremi sono così descrivibili: «se l’individualità è molto forte, il ruolo del contesto linguistico [per la definizione del soggetto], o indessicalità, è ridotto»; al contrario se «l’individualità è praticamente inesistente, […] il soggetto è interamente definito nell’immaginario sociale da relazioni esterne. […] Come individuo è un mero locus di forze socio-cosmiche più grandi. […] Il linguaggio diventa una forza materiale. Maledire i miei parenti o i miei vicini di casa implica invocare poteri materiali reali perché agiscano su di loro». È quanto capita in alcuni sistemi politici melanesiani e africani.
Ovviamente il p. c. si manifesta in società, come quelle occidentali, nelle quali dovrebbe prevalere l’uso razionale e pienamente simbolico del linguaggio, dove esso è “solo” linguaggio, dove è consentita l’ironia ed è possibile correggersi (“non volevo dire proprio questo”). Ma la fragilità nella definizione del soggetto narcisista contemporaneo riporta ad emersione modalità “primitive” di comunicazione, nelle quali le parole diventano indistinguibili dalla realtà materiale, secondo un percorso che sembra la perfetta inversione dell’emergere del linguaggio dall’ampio sfondo del mito, in cui la conoscenza è intuitiva e sintetica (Cassirer).[v] Non a caso, Friedman suggerisce che i meccanismi del p. c. siano strutturalmente affini a quelli della stregoneria, del sogno, del gossip.
Anti-essenzialismo?
Anche Robert Hughes metteva in relazione la cultura del p. c., terapeutica e vagamente paranoica, con la cura narcisistica dell’io e una generale regressione della maturità intellettuale, per cui alle persone riesce difficile distinguere tra sé e le proprie idee e ogni critica delle opinioni diventa un attacco personale. Questa tendenza a forme di ragionamento sintetiche, incapaci di analitica discretio, rende la logica del p. c. indistinguibile da quel contenuto ideologico contro cui in teoria esso vorrebbe combattere: l’essenzialismo. Il bisogno di etichettare come “razzismo”, “omofobia”, “sessismo”, affermazioni e comportamenti diversi tra loro è strutturalmente identico al gesto del razzista, dell’omofobo, del sessista, che riconduce con un automatismo pre-razionale un individuo particolare alla sua specie e alla sua presunta essenza.
Il paradosso intellettuale del p. c. è quindi una vera e propria denegazione: l’angoscioso rigetto di ogni definizione ed etichettamento, la fuga da ogni forma di “essenzialismo”, riproduce, identico, il contenuto inconscio non rielaborato. Ne ha parlato su questo stesso blog, seppur da un versante materialista e non strutturalista e in termini in parte diversi, Mimmo Cangiano: è il «mito dell’autonomia intellettuale» che “si putrefà” e si ritorce contro se stessa.
Basterebbe farsi un giro sulla rubrica di Dan Savage su Internazionale, per verificare quanto questa contraddizione sia profonda e strutturi la nostra psiche e il nostro linguaggio. La franca licenza etica e la radicale tolleranza per la diversità che l’autore della rubrica e tutti i suoi lettori si fanno un dovere di esibire, in un ambito, come la libertà sessuale, in cui più che in altri noi occidentali misuriamo il nostro tasso di emancipazione, convivono con un profondo bisogno di etichettamento e di autoetichettamento: dai nomi in forma di sigla che i lettori si danno scrivendo a Savage, alla necessità di stabilire la propria identità/posizione in un sistema di opposizioni che stupirebbe Saussure, che probabilmente non sospettava quanto il proprio modello esclusivamente linguistico potesse venire sovraesteso: cisgender/transgender, monoamoroso/poliamoroso, … (ma, anche, e non stupisca, normale/anormale).[vi]
E se non si trattasse solo di politicamente corretto?
Che cosa opporre al p. c.? Secondo Friedman, un discorso pubblico franco e spregiudicato, che rifiuti associazioni metonimiche e categorizzazioni che squalificano discorsi e persone: un discorso fondato su discussioni razionali ed evidenze empiriche. Il problema è che Friedman non dice granché su come funzioni precisamente questo “confronto razionale”. Proverò a colmare la lacuna concedendomi un’inferenza, credo non arbitraria.
Spostare il discorso dai messaggi ai locutori è, per lo studioso, sicuro indizio di p. c. Si tratta, a ben vedere, della fallacia dell’argumentum ad hominem (spesso confuso con quello ad personam, cioè con il mero attacco personale), nonché di diversi altri argumenta, tutti comunque riconducibili all’indebito spostamento dell’attenzione dalle parole alla persona (domande accusatorie, appelli all’autorità ed emotivi, …). Nel critical thinking e nelle teorie argomentative fondate sulla logica informale sono tutte fallacie che invalidano il discorso, in quanto dimostrerebbero l’incapacità di tenersi razionalmente al merito dell’oggetto in discussione (argumentum ad rem).
Ma questa distinzione, di marca logicistica, è piuttosto discutibile, specie se pretende di essere applicata alla comunicazione quotidiana. Locutore e messaggio sono infatti uniti da un «principio di aderenza»[vii], per il quale, al di fuori di ambiti di discussione ristretti, improntati a regole discorsive altamente codificate, è impossibile interpretare le parole facendo astrazione da chi le pronuncia: la soggettività si costruisce entro il discorso stesso, non ne è un presupposto esterno ed espungibile, perché chi ci ascolta si fa un’idea di ciò che noi siamo e delle nostre intenzioni a partire da ciò che diciamo; l’ethos (emittente), come lo chiamava Aristotele, non è meno importante del logos (messaggio): «l’immagine di noi stessi che costruiamo negli scambi con gli altri comprende sia una dimensione strettamente linguistica sia aspetti che esulano dalla presa di parola, ma che si formano comunque all’interno del discorso, per esempio stile, reputazione, posizione istituzionale, appartenenza a un gruppo e credenze implicite».[viii]
Quando un giornalista americano espresse in pubblico delle critiche nei confronti della comunità afroamericana, Spike Lee si scagliò contro di lui. Il giornalista si difese osservando che era bizzarro che proprio Lee volesse impedirgli di parlare, quando i suoi film erano pieni di neri che non facevano certo una bella figura. Il regista notò che però lui aveva il diritto di criticare i neri: era nero.
Il linguaggio non è quindi confronto su un contenuto che prescinda dalla situazione enunciativa. Si potrebbe dire che è la dimensione pragmatica, ancor più di quella retorica, ad essere costantemente in gioco nella nostra comunicazione pubblica. Molto spesso non discutiamo per raggiungere un accordo o per lasciarci convincere dalla buona argomentazione di un altro, come piace pensare ad ogni razionalista: parliamo, semplicemente, per comunicare la nostra presenza e la nostra posizione.[ix]
La distinzione tra discussioni nel merito e discussioni in cui si mette in gioco la definizione delle individualità è perciò problematica e fare appello a un generico confronto razionale come fa Friedman potrebbe non essere sufficiente. Non è possibile «stabilire a priori una norma di correttezza / scorrettezza da applicare poi ai casi particolari»:[x] ci sono occasioni nei quali il ricorso ad argomenti ad hominem non è una forma di etichettamento o di processo alle intenzioni. Aveva ragione Spike Lee a dire che un bianco non può criticare un nero? Di certo tutti sappiamo che certe barzellette sugli ebrei può raccontarle solo un ebreo, ma è pur vero che quel giornalista poteva non essere mosso da intenzioni razziste: non esiste una regola generale per dedurlo automaticamente. Il p. c., che invece pretende di farlo, corre lo stesso rischio di quei decaloghi di fallacie logiche che circolano in Rete e che vorrebbero fornire indicazioni sempre valide, a prescindere dal contesto, su come condurre una buona argomentazione.[xi]
Questo criterio contestuale richiederebbe però personalità mature, capaci di cogliere la differenza fra sé, le proprie idee, le parole con le quali le veicoliamo. Dove si manifesti una tendenza regressiva nel «continuum dell’individualità», diventa difficile tener fermo quel criterio. Sistemi come quello dei trigger warnings nei college americani, o le minuziose policies sui contatti fisici (si intende strette di mano e pacche sulle spalle…) che nei luoghi di lavoro sono state imposte, sempre negli Usa, dopo il caso Weinstein, trasferiscono la responsabilità della decisione morale dal soggetto alla legge, finendo per infantilizzare le persone e favorendo quello che è stato chiamato, in omaggio a un noto libro, «The coddling of the American mind».
In effetti il bon ton linguistico e sociale, le formule di cortesia, lo iato tra ciò che pensiamo e ciò che possiamo dire in pubblico, lungi dall’essere forme di ipocrisia, servono a oliare i meccanismi della nostra vita sociale: proprio perché è pragmaticamente impossibile tracciare un confine tra noi e le nostre opinioni, ogni volta che queste vengono criticate, siamo noi ad essere feriti, per cui occorre andarci piano. Il p. c. garantisce di ovattare ogni spigolo prima ancora di correre il rischio di sbatterci contro: potrebbero sorgere infinite discussioni.
Ed è questa la ragione per la quale la vittoria del p. c. è forse prossima. Esso stabilirà delle regole soffocanti, ma chiare, per evitarci il faticoso compito di interpretare, nell’instabilità e complessità di contesti mutevoli, se le parole degli altri sono rivolte a noi in quanto individui o se vanno prese per una sineddoche: colpiscono noi per colpire l’identità che ci definisce, la nostra collocazione politica, la nostra posizione nel sistema delle opposizioni classificatorie. Ciascuno starà nella sua nicchia e lì lo lasceremo in pace, perché il contatto potrebbe essere esplosivo. Ma assomiglia tanto al cadere dalla padella nella brace: il rischio di vivere in una società civilissima e balcanizzata è concreto.
Post scriptum
Mentre scrivevo queste righe, ho letto una notizia che merita di essere riportata in calce. Se avessi creato a tavolino una storia utile a esemplificare le tesi di Friedman, non avrei potuto immaginare trama migliore.
A metà marzo, due femministe inglesi si sono presentate al Dulwich Leisure Center, in un sobborgo di Londra, pretendendo di essere ammesse a una piscina riservata in quel momento ai soli uomini: sono state fatte entrare. Indossavano un costume maschile, dunque senza reggiseno, ma una cuffia rosa.[xii] La loro era un’azione di protesta contro il Gender Recognition Act, che, se votato, consentirebbe ai cittadini britannici di autoidentificarsi liberamente nell’uno o nell’altro genere, senza alcuna dichiarazione medica. Per le due attiviste, quello che capiterà è che gli uomini potranno entrare negli spazi riservati alle donne semplicemente dichiarandosi femmine. Una delle due donne ha definito la legge «misogina e omofoba», anche se la misura della libera autoidentificazione è evidentemente pensata per le persone transgender. Notevole è la mail di risposta che i responsabili della piscina hanno inviato, quando una delle donne li ha preventivamente avvertiti delle loro intenzioni: «Qualunque cliente è libero di usare gli spogliatoi che preferisce. Facciamo del nostro meglio per evitare di avere dei pregiudizi. Se lei vuole venire alla serata di venerdì ha il nostro pieno appoggio». Le due donne sono state etichettate da gruppi transgender come “TERF”, Trans-Exclusionary Radical Feminists. I giornali hanno anche detto, senza però rilevare che la coloritura ideologica della protesta delle due femministe assume altre sfumature, che a lanciare l’iniziativa di presentarsi in spazi riservati agli uomini ogni venerdì, chiamata #ManFriday, è stato un importante sito inglese dedicato ai genitori, Mumsnet.[xiii]
Questa storia contiene quasi tutte le categorie usate da Friedman per definire il p. c. Siamo di fronte a un evidente caso di balcanizzazione (mamme contro legge pro-transgender; femministe alleate delle mamme contro la legge pro-transgender; transgender contro femministe), di classificazione e associazione metonimica (una legge pro-transgender che diventa, illogicamente, «omofoba»: ma conta la forza squalificante dell’etichetta, non la sua presa semantica), di paura di offendere ascrivendo un altro a una categoria o a un gruppo (i responsabili della piscina che si rimettono alla libera scelta delle clienti di autoidentificarsi a piacimento), di etichettamento essenzializzante (la sigla TERF), di reificazione del linguaggio (dichiararsi uomo o donna che equivale ad esserlo: biologicamente in questo caso). È il quadro completo di tutte le “etnie” in lotta fra loro del nostro futuro prossimo.
Note
[i] Robert Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, 2003 (ed. or. 1993).
[ii] Friedman, pp. 29-30.
[iii] Friedman, p. 68.
[iv] Friedman, pp. 275-278.
[v] «Se [il pensiero teoretico] tende all’ampliamento, al collegamento, alla connessione sistematica, l’attività linguistica e mitica, al contrario, tende alla densità, alla concentrazione, al rilievo che isola», Ernst Cassirer, Linguaggio e mito, SE, 2006, p. 72.
[vi] In questa rubrica un buon caso di autocensura politicamente corretta è probabilmente quella della ragazza che confessa il proprio disgusto nell’aver visto il proprio partner, dopo un rapporto sessuale, portarsi la mano sporca di sperma alla bocca. La ragazza non sembra essere sfiorata dal sospetto che la ripugnanza verso tutte le secrezioni corporee sia un tabù del tutto comune, forse universale, e si domanda angosciata “sarò omofoba?”; d’altro canto sembra ideologicamente inscalfibile nello spiegarsi il gesto del partner come “egoistico” e “perverso”.
[vii] Michel Meyer, La retorica, Il Mulino, 1993
[viii] Roberta M. Zagarella, La dimensione personale dell’argomentazione, Unipress, 2015, p. 66.
[ix] Cfr. Meyer, passim.
[x] Zagarella, p. 64.
[xi] Questo approccio logicista all’argomentazione è il più noto al pubblico, proprio perché è facile da sintetizzare e diffondere in forma di decaloghi prescrittivi su come “non” discutere: decisamente più difficile è descrivere come si discuta effettivamente.
[xii] Il giornale inglese più affidabile che abbia dato la notizia è l’Independent. Si veda anche questo approfondimento del Corriere, che aveva a sua volta ripreso la notizia in Italia il 19 marzo.
[xiii] https://www.mumsnet.com/info/about-us
[Immagine: Jenny Holzer, It is in your self-interest to be very tender].
Political correctness is just an apparatus (cf. Agamben, “What is an apparatus?”) to manage white guilt, which, at some point, was bound to emerge in the USA, a society based on the white genocide of the native populations. USA society is currently divided into whites defending their sense of entitlement and identifying with Donald Trump (the reincarnation of General Custer), whites who are ashamed of having been unjustly privileged and constantly apologize for existing, and minorities apparently demanding justice. However, no one really wants justice, but only a bigger piece of the pie. America has always been up for grabs: it is not about justice, but acquisition. It is about getting as much money and power as you can, exploiting either your privilege or someone else’s guilt, or pleasing those who exploit yours. Repressed violence re-emerges: in happened in the Balkans, it happens in the US.
Call me Loretta!
Balcanizzazione però sembra presagire brutti scenari, come ammonirebbe Buffagni. Nel libro si paventano scenari violenti?
Non ho ancora comprato il libro di Friedman, ma conosco il pamphlet di Hughes, di cui ho un ricordo irritante. Leggendo velocemente la presentazione di Daniele Lo Vetere (che ringrazio: ci tengo a precisare che le mie critiche non sono rivolte a lui) ho trovato questa nuova analisi del problema ancora più irritante. Mi sembra che, affettando una postura pseudoscientifica, aggiri completamente la questione politica di cui il p.c. è sintomo: il fatto che il linguaggio veicoli rapporti di potere e sia uno dei principali strumenti dell’egemonia e del dominio simbolico.
Sempre fondandomi solo sulla recensione, ho l’impressione che Friedman usi il pretesto dell’analisi antropologica per ignorare la storia (il fatto che tutto inizi e impazzi negli Stati Uniti non è un particolare secondario), e imposti il problema sul piano dell’argomentazione e del discorso (condito del vago accenno alla grammatica sociale “narcisistica”) per neutralizzare proprio la dimensione sociologica e politica che rende la questione interessante. Non si può interpretare e criticare il p.c. senza evocare Bourdieu (Potere simbolico e linguaggio), Goffman (Il rituale dell’interazione), la teoria degli atti linguistici e del performativo. Per non parlare di ingenuità simili: «Maledire i miei parenti o i miei vicini di casa implica invocare poteri materiali reali perché agiscano su di loro. È quanto capita in alcuni sistemi politici melanesiani e africani». No: è quanto capita quotidianamente anche nella nostra cultura patriarcale, quando diamo a qualcuno del “frocio” o della “puttana”.
Il filosofo Fabio Baroncelli, negli anni ’90, tornato da un soggiorno negli Stati Uniti aveva scritto sul p.c. un librino intelligente, e di sinistra, di cui condivido ancora lo spirito: https://www.donzelli.it/libro/9788879892063
Alle sue osservazioni aggiungo:
-sì, la civiltà passa anche dal linguaggio, e la nostra vita quotidiana è impregnata di rituali di interazione e di riconoscimento reciproco in cui le parole hanno un peso notevole. La “polizia linguistica” non è solo l’assurda paranoia che imputiamo agli americani. Anche le grandi rivoluzioni che hanno cercato di cambiare i rapporti di potere hanno sentito il bisogno di inventare nuovi appellativi che allargassero la sfera del riconoscimento pubblico (cittadino, cittadina, compagno, compagna…) e hanno disinvoltamente “corretto” le parole esistenti per promuovere e legittimare rapporti più equi. Per non parlare del fatto che spesso le stesse persone che fanno sarcasmo sulla correttezza politica si sdegnano a morte se uno studente dà loro del tu o indirizza una mail senza le debite forme di cortesia…
– «per il solo fatto di aver presentato in un’occasione i propri studi etnografici a una conferenza organizzata da un’associazione critica con le politiche migratorie del governo svedese: dunque per un semplice episodio di contiguità spaziale con i “razzisti”». Se la moglie di Friedman è stata invitata dai razzisti ed ha accettato l’invito dei razzisti, si tratta di semplice “contiguità ideologica”. Mi sembra che il primo a incespicare su ragionamenti sia proprio Friedman.
@ Barbara Carnevali
Quindi “un’associazione critica con le politiche migratorie del governo svedese” è un’associazione di razzisti (senza virgolette)? Mi sembra uno splendido esempio di p. c. nel senso di Friedman.
Faccio un esempio di opposizione corretta al p.c.
Zlatan Ibrahimovic tempo fa sbottò a un intervistatore perché stufo di sentirsi paragonato a una calciatrice svedese, la più forte del calcio svedese femminile. In quel caso fece bene perché il fatto che le donne possano giocare a calcio non implica che dobbiamo fingere che ci piaccia il calcio femminile o che sia ugualmente interessante, al di là che Ibra possa essere o meno sessista. Il punto è che questo però va dimostrato, non basta dire che va bene perché si è opposto. E questo problema si presenta sia che uno sostenga che l’altro dice x-p.c. e sia che qualcuno venga tacciato di x perché x-ista. Quindi comunque c’è da discutere. Nel caso di Spike Lee è piuttosto facile dire che è una sciocchezza quella che disse (ammesso che disse proprio quello, visto che lo considero intelligente). Le barzellette sugli ebrei le può raccontare chiunque, essere ebreo non ti dà alcun motivo per avere più voce in capitolo. Al limite si può dire che solo chi è stato perseguitato dai nazisti può scherzarci sopra, ma è una cazzata e lo sarà sempre di più in futuro per il semplice fatto che persino l’orrore peggiore viene portato via dal tempo. Solo che non imposterei la cosa sull’opporsi al p.c. quanto sul dibattere, come fece mi pare il comico Jonathan Pie all’indomani di Brexit. Se uno ha a cuore certe questione dibatte sennò lascia perdere.
Mi è venuto invece un dubbio circa il passaggio finale del post scriptum. Nel senso che non capisco questa cosa della balcanizzazione in relazione con il p.c.. Per quanto riguarda lo scontro tra transgender e femministe bisogna dire anzitutto che lo scontro è interno al femminismo, tra il femminismo intersezionale e il “femminismo radicale” (che ha di suo un’origine teorica essenzialista). In questo caso però lo scontro è dovuto a effettive divergenze di pensiero. Mentre tutte le complicazioni terminologiche e i paradossi identitari sono differenti dal voler essere p.corretti. Un conto è se uno decide di chiamare l’altro come questi vuole essere chiamato, ad es. Loretta; e un conto è il bisogno di qualcuno di sentirsi chiamato Loretta.
@ Carnevali. Gentile Barbara, no no, critichi pure la mia recensione. Penso che per criticare Friedman si debba risalire direttamente a lui. Qui c’è il mio testo: come si dice, la responsabilità di quel che è scritto è solo dell’autore. Io ho cercato di fare del libro una presentazione sintetica ma spero obiettiva, ma nella mia recensione mancano alcune cose importanti nel libro di Friedman e ce ne sono altre che sono imputabili solo a me.
In rete c’è già una buona illustrazione dell’altro grande tema del libro: http://temi.repubblica.it/micromega-online/quelle-sinistre-che-odiano-il-popolo-contro-lideologia-del-politicamente-corretto/?refresh_ce. Come vedrà, c’è tanto Lasch, la rivolta delle élites, e il tema del multiculturalismo, sul quale non mi sarei mai addentrato per incompetenza mia e perché la posizione di Friedman va valutata in stretta connessione con la politica in Svezia, Mi è parso che accennarlo solamente sarebbe stato anche peggio e per ragioni di spazio non era il caso di allargare ulteriormente il discorso. Una cosa alla volta. Cerco di rispondere alle sue critiche.
Friedman parla in misura preponderante della Svezia e molto molto meno degli Stati Uniti, nella cui società anzi riconosce che il p. c. ha un peso minore rispetto alla Svezia (es. il poter dire “non intendevo dire questo” secondo Friedman è lecito in America ma molto difficile in Svezia). E’ un punto di vista forse insolito, per questo interessante.
Questa è anche la ragione per la quale non analizza il fenomeno in connessione con la storia e la politica americana. Lo fa però in relazione a quella svedese, a lungo. (Io non ne faccio cenno).
Ho provato a suggerire che, secondo me, non si tratta solo di p. c. Cioè, quella cosa che superficialmente chiamiamo p. c. in realtà è la manifestazione di altro, di un groviglio di fatti sociali che è difficile districare. Quello di Friedman (e lui lo dice) è un primo tentativo di analisi “sistematica” e da un punto di vista strettamente antropologico. Di qui le insufficienze dell’impostazione, che, ha ragione, chiamano in causa sociologia, linguistica (pragmatica soprattutto) e non solo l’antropologia. Ma non ci vedrei una volontà evasiva da parte di Friedman. Magari parzialità, vede solo il punto di vista specialistico dell’antropologo.
Sulla questione del linguaggio offensivo, mi pare che ci sia un equivoco. Come ho detto, ci sono aspetti politici del libro da maneggiare con cura, ma su una cosa posso davvero fare l’avvocato di Friedman a cuor leggero: davvero non si tratta di una questione di linguaggio. In questo Friedman è diverso da Hughes. Non sostiene che il p. c. sia l’impedimento a dire “frocio” o “puttana”. Non è Feltri, non usa mai la parola “buonismo” (ammesso che esista in inglese). Mi pare che sia un equivoco importante da sciogliere per poter parlare di questo libro.
Il punto sta proprio in quella, diciamo, regressione del linguaggio alla sua dimensione non ancora pienamente astratta, simbolica, per cui si categorizzano le persone come se appartenessero a un’essenza collettiva reale. E Friedman non sostiene affatto che sia una prerogativa delle società melanesiane e africane. Dice che capita anche in Svezia ed è questo il punto. Certo, sostiene che strutturalmente l’etichettamento del razzista o del p. c. sia identico, non considera il contenuto. Se adottiamo una prospettiva politica e vogliamo dare un giudizio di valore, possiamo dire che per noi è più grave l’etichettamento del razzista. Ma mi pare un fraintendimento dire che Friedman voglia sfuggire al confronto con i conflitti politici delle nostre società, fuggendo nell’esotico etnico.
Quanto all’incespicamento nel ragionamento, non darei la colpa a Friedman, semmai può darla a me, perché la formula “contiguità spaziale” è mia, anche se cerca di definire un contenuto del libro. Friedman racconta a lungo le vicende della moglie (si tratta di casi giunti fino all’ostracismo accademico). Erano entrambi impegnati in una ricerca etnologica (se non ricordo male a Malmo) e presentavano dati e risultati preoccupati dalla segregazione etnica di quella città. Friedman si arrabbia molto con il multiculturalismo perché ritiene che sia una sorta di anestetico pubblico per non affrontare il problema della segregazione urbana ed etnica e il fatto che il modello di accoglienza svedese non sta funzionando. Quei dati furono presentati in una conferenza organizzata da questa associazione, che, dice era “critica con le politiche svedesi di migrazione”. Sostiene che non si trattasse di un’associazione razzista, ma che tale è stata fatta diventare dalla semplificazione mediatica (lo slittamento metonimico). Ma siccome non ho elementi per mettere in prospettiva quel che dice Friedman e potrebbe anche voler difendere la moglie da una effettiva contiguità ideologica con un gruppo effettivamente razzista, le racconto un episodio che è capitato a me.
Facebook, social che per sua costituzione moltiplica queste forme di comunicazione e interpretazione “metonimiche”, notizia data da un giornale serio (Il post): in Islanda la percentuale di bambini con sindrome di Down è precipitata da quando ci sono le diagnosi precoci. L’articolo era, come è usuale per quel giornale, accurato, equilibrato, interessante. A volte però lanciano l’articolo su FB con un commento. In quel caso usarono un’espressione algida, che trasformava i bambini down non nati in una sorta di fenomeno qualsiasi in diminuzione e concludevano dicendo che i “soliti antiabortisti” avevano commentato nel loro solito modo la notizia. Io mi limitai a dire che l’articolo era come al solito eccellente, precisai con grande chiarezza che non volevo assolutamente mettere in discussione l’aborto e che non avrei voluto mai trovarmi nei panni di quei genitori che dovevano prendere una decisione così terribile e che avevo profonda empatia per loro, ma che su una questione delicata come questa, che apre problemi etici complicatissimi e che ha risvolti eugenetici (la prego di togliere ogni connotazione “nazista” alla parola: ho letto di recente un bel libro di Habermas preoccupato su questo argomento: chiamiamola, se preferisce “genetica liberale”, come fa lui) avremmo dovuto pesare di più le parole e non gettare subito parole di disprezzo verso gli antiabortisti come se noi avessimo il monopolio della verità e dell’etica. Credo che la mia posizione fosse chiara, altrettanto le mie premesse. Bene, siccome evidentemente o si è coi bianchi o coi neri mi sono preso del, in ordine di gravità: “abortista sì, ma…”, “medievale”, (simpaticamente, uno che si chiamava “Tancredi di Salina” mi paragonò allo zio), “uomo che parla come al solito per le donne”, “persona che vuole togliere il diritto di abortire alle donne”. Ormai sono scafato, conosco i social, ho risposto con grande calma e pacatezza a tutti (a un certo punto ho salutato cortesemente e ho detto che non potevo passarci un pomeriggio: gli slittamenti metonimici sono infiniti), però sarà d’accordo con me che è stato sgradevole. Ed eloquente. L’approccio formale e ideologicamente neutrale di Friedman, oltre che sapere di strutturalismo vecchia maniera, è certo criticabile, ma un merito ce l’ha: proprio astraendo dal contenuto, è capace di spiegare perché persone che difendevano della cause giuste si siano trasformate in lapidatori del sottoscritto. Per il semplice fatto di aver presentato delle ricerche antropologiche serie in posizione spazialmente contigua con i razzisti, ho finito per essere bollato come razzista anche io. Forse se avessero saputo che insegno avrebbero cominciato come è successo alla moglie di Friedman una campagna di stampa per mettere in discussione la mia moralità.
L’ultimo paragrafo è tutto mio. E dico che Friedman non mi convince fino in fondo: 1) perché secondo me non si tratta appunto di p. c., ma di un fenomeno strutturale, profondo, della nostra comunicazione pubblica (aggravato dai social, veda sopra); 2) perché la distinzione tra ad rem e ad hominem non è tracciabile pragmaticamente. Ma, nonostante queste critiche, io non riesco a non vedere con inquietudine un mondo che è poi quello descritto da White nel racconto che proprio lei ha pubblicato qui su LPLC, un mondo nel quale ci si balcanizza come intorno a quella piscina londinese, un mondo nel quale (e qui parla l’insegnante) si “vezzeggia” la mente di giovani adulti proteggendoli dal confronto con quanto potrebbe scandalizzarli (si veda l’articolo dell’Atlantic che ho linkato. Potrei aggiungere altri racconti inquietanti di un’amica che insegna in una scuola americana in Italia, ma se crede glieli racconto in privato perché non sono fatti miei stavolta).
Come se ne esce? Se fosse possibile invocare quel confronto razionale di cui parla Friedman sarei sereno. Ma non ci credo. Siamo tutti un po’ in guerra con gli altri per il nostro spazio e il nostro riconoscimento e le parole sono un’estensione della nostra azione, non un’astrazione. Come vede, siamo perfettamente d’accordo su questo, almeno io con lei. Friedman forse no. Ma a me spaventa il lato oscuro di questo uso politico delle parole. Se leggerà il libro di Friedman, le consiglio il racconto sul comico hawaiano che ha rinunciato ai propri spettacoli prima nei college, poi alle Hawaii. Anche quello è inquietante.
Perdoni la lunghezza e cari saluti, D
@Elena Grammann
Daniele lo Vetere le spiega il malinteso. Per quanto mi riguarda, io discuto anche coi razzisti senza virgolette, ma lo chiamo discutere, non semplice contiguità spaziale.
@Daniele Lo Vetere
Grazie, leggerò il libro e proverò a discuterne in modo più argomentato.
Non ho simpatia per il p.c – la ringrazio di aver ricordato che ho pubblicato a mio nome il racconto di Edmund White – ma penso che sia il sintomo di un problema serio che si presta facilmente alla caricatura. Troppo spesso lo si affronta dall’alto, fermandosi alla fenomenologia dei parlanti egemoni che si sentono a disagio e privati della loro libertà di espressione senza affrontare le questioni di base: che la lingua è sempre carica di normatività e rapporti di potere, in qualsiasi contesto, che non siamo mai completamente liberi di parlare, che una società democratica deve trovare forme di riconoscimento anche linguistiche per le categorie dominate. Lo dice la formula stessa, il problema è innanzitutto politico. E mi sembra che Friedman lo neghi.
Ho detto che non ho simpatia per il p.c. ma in realtà ne ho tantissima per Spike Lee. Do the Right Thing, che ho rivisto da poco al cinema, è un film straordinario, forse l’analisi più intelligente che esista su questi temi. Finisce male, e in bilico tra l’appello alla tolleranza di MLK e la politica più violenta e affermativa di Malcolm X. In seguito Spike Lee ha preso la seconda strada, e rileggendo le sue dichiarazioni militanti (quella che lei cita, ma anche quelle contro gli Oscar bianchi, o le polemiche con Tarantino sull’uso di “nigger”) sullo sfondo di quello che succede oggi ai neri negli Stati Uniti, penso che abbia ottime ragioni. Tra l’altro, la posizione di Spike Lee è particolarmente interessante per il nostro blog proprio perché si ferma intenzionalmente alla dimensione simbolica, perché pretende di usare le parole e le immagini per cambiare le cose. L’uso che propone dell’immaginario sportivo e hollywoodiano (far rivivere e celebrare il mito nero per occupare e trasformare violentemente lo spazio pubblico – che è poi la scintilla che fa scoppiare il linciaggio alla fine di Do the Right Thing: “perché non ci sono fratelli sul muro del ristorante italiano?” https://www.youtube.com/watch?v=HbA1YOueC_A) dimostra come la politica identitaria affermativa non sia solo la caricatura delle femministe sceme che vogliono correggere i canoni letterari o tirano fuori il falcetto per una parola di troppo. In mano ad artisti bravi (e critici intelligenti) è un’arma politica reale, che prende sul serio la dimensione politica della cultura e del linguaggio. Questa scena mi sembra faccia molto più pensare di tutto il libro di Friedman: https://www.youtube.com/watch?v=gLYTObRhcSY
@ Carnevali
“che la lingua è sempre carica di normatività e rapporti di potere, in qualsiasi contesto, che non siamo mai completamente liberi di parlare, che una società democratica deve trovare forme di riconoscimento anche linguistiche per le categorie dominate. Lo dice la formula stessa, il problema è innanzitutto politico. E mi sembra che Friedman lo neghi.”
In una società democratica non ci sono categorie dominate, e se parliamo di Europa così è. Non ci sono categorie dominate. Ci sono persone in difficoltà, ma non categorie. Non conosco così bene gli USA. L’unico esempio che è venuto fuori in questa discussione di linguaggio usato come arma lo ha fatto lei parlando di “frocio” o “puttana”, che sono parole che a seconda di come vengono usate possono far male e sono l’espressione di un pensiero introllerabile. Però non vedo quale sarebbe il problema serio, il punto principalmente politico che produrrebbe il sintomo del p.c.. A dire il vero neanche vedo il problema del p.c. come un problema particolare. La Warner che toglie il nome di Brizzi dalla locandina del film può essere considerato p.c.? Mi pare di sì, o quantomeno c’è dell’ipocrisia, perché o non fai uscire il film in cui ha lavorato una persona che non ritieni più degna di frequentare e con la quale fare soldi o non fai niente. Questo è il sintomo di un problema politico sottostante, ovvero le molestie sessuali? Direi che sono in correlazione spuria o in relazione in qualche modo, ma non che uno sia il sintomo dell’altro. E inoltre non vedo il nesso con il piano linguistico e simbolico.
Poi non so se ho capito bene, ma la politica identitaria affermativa in mano ad artisti può essere un bene, ma per il resto è un’arma e basta. Se nel film la faccenda finisce male, a Spike Lee come mai non è venuto in mente che la sua militanza è un problema?
Proprio così, le opposizioni classificatorie continuano ad essere usate proprio da chi prosegue il discorso antiessenzialista: se oggi ritieni che le politiche migratorie siano discutibili , sei un razzista perché non sei multiculturista. La parte che più mi ha fatto riflettere del saggio è quella sulla cosiddetta “inversione ideologica” attraverso la quale l’élite politica di sinistra si è potuta stabilizzare servendosi del p.c. Grazie alla lettura di Friedman ho meglio compreso il mutamento di pelle della sinistra e mi sono sentita ancora più fiera di far parte di quella “sinistra conservatrice”. Per la socialdemocrazia essere di sinistra, e quindi progressista, vuol dire battersi per i diritti civili, e chi vorrebbe ancora discutere di diritti sociali e di lavoro è considerato un reazionario. Si ritiene che le dottrine di sinistra abbiano perso la capacità di spiegare il mondo, il capitalismo è accettato come unico sistema economico e dunque non ci resta che adattarci al capitalismo e alla sua versione globalizzata. Un tempo almeno il riformismo, pur partendo più o meno dalle stesse premesse, si proponeva di cambiare il capitalismo per renderlo meno selvaggio, oggi siamo noi che dobbiamo cambiare per adattarci ad esso.
Sono una conservatrice di sinistra perché credo che il problema oggi sia ancora nell’appartenenza di classe, così che se sei un nero o un omosessuale ricco non subirai le stesse discriminazioni di uno povero. Certo che bisogna lottare per i diritti delle minoranze, ma la sinistra ha fatto l’errore di lasciare indietro coloro che pur non appartenendo a nessuna minoranza , restano esclusi. Sfruttati. Proprio il multiculturalismo per Friedman è il discorso culturale che serve alle élites politiche globaliste per creare un soggetto unico, uniformato, cittadino del mondo, sradicato . Questo è pericoloso anche nella misura in cui si perde memoria storica e quindi quella coscienza necessaria per ogni lotta per migliorare le proprie condizioni.
@ Barbara Carnevali
Grazie dell’attenzione. Ho letto attentamente la replica di Lo Vetere ma non ho capito il malinteso. A me continua a sembrare una questione di virgolette (quelle che lei non mette). Se sbaglio, mi scuso.
A proposito della connessione fra p. c. e linguaggio e del pernicioso svincolarsi del linguaggio dalla razionalità, c’è un bell’esempio, fra il grottesco e l’agghiacciante, nel romanzo di Philip Roth La macchia umana. Il racconto riprende il caso realmente occorso a un accademico amico dell’autore, che ha finito per rovinargli la vita.
@ FF VS PPP. Non so molto di Ibrahimovic. Il criterio, certo, dovrebbe essere quello di capire chi parla, in che situazione, ecc… Se Ibrahimovic però fosse una persona notoriamente maschilista il suo rifiuto di quel paragone avrebbe un senso più generale dell’antipatia per quella calciatrice. Si passerebbe all’antipatia per le donne nel calcio. Il calcio femminile può non piacere, ma capisci che se te la prendi col calcio femminile in pubblico quando cerca di emergere e sei Ibrahimovic gli dai una mazzata. E’ un ragionamento plausibile, anche se di fatto è una sineddoche: lì Ibrahimovic è un maschio che ostacola il calcio femminile, l’esponente di una cultura patriarcale. Io cerco di valutare caso per caso, ma non è per nulla facile. Ad es. quando la Fedeli disse al giornalista “le è così difficile chiamarmi ministra?” io provai simpatia per il giornalista: perché si scusò subito, perché non sono un grande estimatore della cultura della Fedeli, perché avevo il sospetto che ci fosse un po’ di strumentalità (coi politici questo dubbio è sempre lecito), sospetto che si rinsaldò quando disse “mamme, rassegnatevi, dovete andare a prendere i figli a scuola”, dimostrando di avere introiettato il patriarcato in forme che una spruzzata di “ministra” non avrebbe risolto. Decisi per il giornalista perché tra la battaglia per il femminile nei nomi di professione e l’umiliazione pubblica di un giornalista non malintenzionato a me spiace di più la seconda. Ma se qualcuno osservasse che è perché in fondo non tengo abbastanza a quella battaglia mi starebbe etichettando, starebbe facendo il processo alle intenzioni, o starebbe cercando di interpretare la mia presa di posizione e le sue potenziali conseguenze (pratiche/politiche)?
@ Carnevali. Grazie delle ultime osservazioni e dei link. Un’ultima osservazione. Siamo d’accordo, come detto, sull’integrale politicità del linguaggio e delle battaglie simboliche. Nessuna volontà di fare caricature. Però il caso Lee (e la diatriba Lee-Tarantino) dimostra che è proprio questa integrale politicità a rendere tutto molto scivoloso. Io non ho visto Django unchained, ma ho visto Bastardi senza gloria. E’ un film bellissimo, un intarsio di omaggi al cinema e di citazioni, ha un ritmo strepitoso, i dialoghi sono come sempre in Tarantino fulminanti (come riesca ad essere così verboso e mai noioso è un mistero). Ma vedendolo non riuscivo a non provare un profondissimo disagio, che poi ho messo a tacere buttandomi appunto sull’apprezzamento estetico e facendo tacere l’etica. Hitler e Goebbels che sembrano due burattini? Il genocidio degli ebrei risolto nella vendetta, per di più splatter? No no no… Qui siamo di fronte al rischio enorme di neutralizzare il peso tragico di tutto, come se su tutto si potesse scherzare, e non nel senso dell’ironia intelligente, ma per il diritto di divertirsi con un film esteticamente “perfetto”.
Non potrei criticare Tarantino perché banalizza la Shoah, magari boicottandolo? Sarebbe la stessa cosa che Lee ha fatto con Django. Significherebbe far valere la politica sull’arte perché non possiamo permetterci due film come quelli, vista la condizione dei neri negli Usa attuali e visto quanto stiamo progressivamente diventando indifferenti alla Shoah. Peraltro l’autonomia dell’arte, come sappiamo, è un mito inventato in un certo periodo storico e per ragioni molto materiali da un certo gruppo di artisti in un certo paese. Tuttavia non sarebbe infondato l’argomento di chi trovasse la posizione di Lee, e le mie reazioni morali(stiche?) a Bastardi senza gloria, sostanzialmente censorie.
Se poi ci allontaniamo dall’ambito privilegiato dell’arte e ci inoltriamo in quello della comunicazione quotidiana, dove gli argomenti diventano sempre un po’ la caricatura degli argomenti seri, son dolori ancora peggiori.
Saluti
@Maria Teresa. La ringrazio dell’integrazione. Lei si riferisce a tutta la parte politica (molto laschiana) del libro di Friedman. L’ho taciuta del tutto perché apre un capitolo completamente diverso, anche se Friedman pone le due cose in relazione. Però confesso che quella relazione non mi convince politicamente, ed è pure molto rischiosa. La mia impressione di balcanizzazione nasce anche da lì, dalla constatazione della famosa guerra tra poveri. Ma, appunto, è tutt’altro discorso.
Grazie
@ Lo Vetere
Zlatan è uno spaccone, la sua biografia è la migliore che ho letto fra i calciatori, non letteraria come Open su Agassi, ma interessante. Però non è Tavecchio, signore inadeguato capace di offendere chiunque per non fare torto a nessuno, quello delle “quattro lesbiche”, riferito appunto al calcio femminile. Ibrahimovic con la sua schiettezza ha mostrato pieno rispetto per le donne, trattandole alla pari, che nel mondo dello sport ha un solo significato: conta chi è più forte. Paragonarlo a una calciatrice è come paragonare un pulitzer al miglior tema di un liceo di borgata. Che senso ha? Ha senso solo nel magico mondo svedese, lo stesso che ha stabilito che la prostituzione è di per sé pratica oppressiva per le donne; ma lo stesso che in tempi andati praticava l’eugenica. Il fanatismo è latente, per fortuna nello sport può fare pochi danni, e a Ibrahimovic non gliene può fregare di meno di quello che pensano gli svedesi. E questo non c’entra niente con il piano simbolico, perché non è facendo domande sceme a Ibrahimovic che il calcio femminile viene riconosciuto. Questo riconoscimento il calcio femminile se lo deve guadagnare nei confronti degli appassionati di calcio, non è una faccenda che si può calare dall’alto perché siamo tutti bravi, come si dice ai bambini. Questi atteggiamenti, pure se alla fin fine non fanno male a nessuno, dànno semplicemente fastidio.
Nel caso che citi il problema lo vedo nell’impostazione della faccenda a monte, nel parlare di battaglia e di posizioni. Nel senso che è del tutto sensato provare dispiacere per un giornalista in difficoltà e allo stesso tempo appoggiare l’uso di un linguaggio migliore, quando è il caso. La tua non è una presa di posizione, e non deve essere considerata come tale, perché non ha alcuna conseguenza né pratica né politica. Questa cosa che il linguaggio è sempre carico di normatività e rapporti di potere, come dice Carnevali, andrebbe ridimensionata, perché non corrisponde al vero. E pesare il linguaggio in questo modo è quello che fanno i fanatici, cosa di cui non abbiamo bisogno. Ci siamo liberati in Europa dei fanatici religiosi, non abbiamo bisogno di crescere altri fenomeni del genere.
@FF VS PPP. Grazie delle precisazioni. Allora se quella di Ibrahimovic è parresia, mi sta simpatico. Peraltro quell’obbligo ad equiparare Pulitzer e temi di liceo, rappresentandoli come uguali anche a costo di denegare la realtà e nascondenderla sotto il tappeto, è una delle caratteristiche del p. c. specificamente svedese secondo Friedman, caratteristica che va attentamente considerata per gli effetti distorcenti della comunicazione pubblica, specie perché in quel paese è molto meno gravata dall’intreccio con le politiche dell’identità, così da liberare dal sospetto che la polemica contro il p. c. sia esclusivamente una polemica contro quelle.
Ti ringrazio per l’osservazione di buon senso: non sempre bisogna prendere così sul serio le proprie affermazioni. Tutto è politico, ma non dobbiamo esserne sempre ossessionati, non possiamo fare politica 24/24h ed essere chiamati a rendere conto di tutto quello che facciamo e diciamo. Ogni tanto rilassarsi… :-)
Sull’essersi liberati dei fanatici in Europa: come sempre sei troppo ottimista e illuminista. Ma va bene uguale.
correctly political
@ Daniele Lo Vetere
“Tutto è politico” quando viene politicizzato, il che, per alcuni importanti settori del “mondo della vita”, è fortemente sconsigliabile, perchè le categorie del Politico sono: amico/nemico, e la norma politica è il conflitto, non escluso il conflitto a morte.
La conseguenza della politicizzazione del linguaggio è la confusione babelica, la conseguenza della politicizzazione dei rapporti tra i sessi è la dissoluzione dei legami affettivi, la conseguenza della politicizzazione dell’etnia è la guerra civile (fredda, tiepida o calda) su base etnica , la conseguenza della politicizzazione della religione è la guerra di religione, e così via.
Io ci penserei un attimo, prima di decretare fiat aequalitas, pereat mundus.
@Buffagni. Ha ragione. Però la frase era “tutto è politico, ma non dobbiamo esserne ossessionati 24/24h”. Il ma era importante.
Saluti
“Se poi ci allontaniamo dall’ambito privilegiato dell’arte e ci inoltriamo in quello della comunicazione quotidiana, dove gli argomenti diventano sempre un po’ la caricatura degli argomenti seri, son dolori ancora peggiori”.
Ricordo di un episodio. Mi trovavo a Londra e del tutto spontaneamente usai “the N word” parlando con un ragazzo di colore che si intratteneva con noi. Uno dei miei amici , sensibile alla causa, mi riprese immediatamente. Io non sentii alcun bisogno di scusarmi e ebbi un gran sollievo quando il ragazzo di colore disse sorridendo : “Nessun problema! Tra di noi ci chiamiamo così”.
Ascolto rap e vedo film alla Spike Lee e dunque nel tempo avevo annullato ogni forma di mediazione linguistica esprimendo nei fatti quella che è la mia posizione naturalmente antirazzista. Si era creato un paradosso, chi aveva usato la parola Nigger come una di loro, passava ora per avere un comportamento discriminatorio.
Sono d’accordo con chi qui afferma che la politica identitaria affermativa va usata in modo intelligente, altrimenti si rischia di esasperare le relazioni creando risultati opposti.
(In ritardo e senza aver potuto seguire bene la discussione, mi scuso.)
La questione del “politically correct” mi sembrava ormai passata in secondo piano, da quando la crisi economica ha rimesso brutalmente i conflitti di giustizia distributiva al centro del dibattito politico e teorico. Diciamo che abbiamo imparato che questioni di riconoscimento e problemi distributivi restano sempre i due problemi della politica democratica moderna.
Sul merito: concordo in generale con le osservazioni di Barbara Carnevali. Un’analisi “oggettivante” del “politically correct” è interessante, come qualsiasi analisi sociale di questo tipo; però non tiene conto delle esigenze normative da cui nasce questa pratica, cioè la lotta per il riconoscimento di gruppi sociali assoggettati da domini sociali radicati e complessi. Il “soggetto debole”, “senza identità” che si aggrappa al “politically correct” è spesso un soggetto dominato; e in generale è normale che nella società moderna i ruoli sociali non siano consolidati dalla tradizione e si definiscano in un conflitto tra riconoscimento sociale e libertà individuale. L’esigenza di riconoscimento non è conformismo, ha una radice nella costituzione del soggetto, per quanto non sia l’unica.
@ Daniele Lo Vetere
Certo. Non intendevo criticare lei. La politicizzazione di tutto dipende dall’idea che il potere in sè e per sè sia a) l’ultima istanza del reale b) malvagio.
Siccome il potere si presenta sempre come un differenziale di potenza (+potente/-potente) l’unico rimedio a questo male in sè che sarebbe il potere è l’eguagliamento/appianamento dei differenziali di potenza, non soltanto economici o politici, ma anche linguistici, sessuali, etnici, etc. Questo eguagliamento viene perseguito esigendo dallo Stato e dalle leggi, in breve da detiene il potere maggiore, di conferire più potere alle categorie che ne hanno di meno, e che vengono pertanto identificate come oppresse o vittime , a torto o a ragione.
Il problema è che, desiderabile o no che sia, l’eguaglianza sostanziale è irrealizzabile perché:
1) per realizzarla, è necessario intervenire sulla realtà sociale non egualitaria
2) per intervenire sulla realtà sociale ci vuole il potere
3) il potere non può situarsi nelle mani di tutti (sennò l’eguaglianza ci sarebbe già)
4) il potere si situa invece nelle mani di alcuni
5) risultato: più eguaglianza si vuole ottenere, più dispotismo risulta necessario
6) alla fine delle operazioni, si ottiene molta eguaglianza per i molti, molto potere per i pochi; nel caso in esame, molto potere in più per lo Stato, l’amministrazione giudiziaria, in generale le oligarchie che implementano l’eguagliamento.
In sintesi, questo male in sè/ultima istanza del reale che sarebbe il potere, in sè cattivo perchè impone differenziali di potenza, viene contrastato con un contropotere speculare, che proponendosi invece lo scopo di porre fine a tutti i differenziali di potere sarebbe invece “buono”, un po’ come “la guerra per porre fine a tutte le guerre”.
Però, come illustrato più sopra, è affatto impossibile porre termine a tutti i differenziali di potere, così come è impossibile combattere una guerra che ponga fine a tutte le guerre: l’unica guerra che potrebbe sul serio porre fine a tutte le guerre è una guerra che cancelli tutti gli uomini dalla faccia della terra. Quindi, il contropotere “buono” che combatte il potere “cattivo” è nei fatti identico ad esso, e designando come nemiche alcune categorie individuate come “oppressive” o “dominanti” (linguaggio della cultura europea, i maschi, i bianchi, etc.) innesca un conflitto che si svolge come si svolgono tutti i conflitti politici, secondo le categorie amico/nemico. Non appena le categorie “oppressive” designate come nemico dalle categorie “oppresse” si accorgono di essere state designate come tali, ricambiano la definizione, e inizia l’escalation. Una dimostrazione palmare di questa dinamica la danno le ultime elezioni presidenziali americane, in cui la “identity politics” del partito democratico USA ha innescato una “identity politics” eguale e contraria che ha condotto al potere Trump e ha fornito alimento alla crescita della Alt-Right, nella quale si registrano posizioni tribali e razzistiche vere e proprie, eguali e contrarie a quelle nemiche.
Questa è la dialettica tipica dell’universalismo politico, il quale, per realizzarsi politicamente, non può che incarnarsi in realtà particolaristiche, per la banale ragione che nella realtà effettuale esistono solo quelle (gli universali non hanno esistenza materiale, sono concetti filosofici o simboli religiosi).
Caratteristica della civiltà europea era invece l’interrogazione permanente della tensione insolubile tra potenza e spirito. Certo, bisogna pensare che lo spirito sia una realtà.
In tema, il recentissimo libro di Patrick Deneen, “Why Liberalism Failed”, Yale University Press, 2018.
Qui le recensioni e le repliche: https://www.patrickjdeneen.com/why-liberalism-failed-reviews
@ Mauro @ Buffagni. Grazie delle vostre integrazioni. Mi rendo conto, leggendo la discussione che si è sviluppata, che forse avrei dovuto essere più coraggioso e trasformare quello che era l’ultimo paragrafo del pezzo nel perno stesso, nel senso che la discussione, mi pare, abbia dimostrato che davvero “non si tratta ‘solo’ di p. c.”. Era un’impressione forte che avevo leggendo il libro. Che la questione fosse squisitamente politica, e delle categorie politiche più radicali. Non a caso sono emersi Schmitt, la questione del potere/potenza, la critica al liberalismo, le priorità politiche della questione del riconoscimento e della redistribuzione, il rapporto tra posizioni egemoni e subordinate… A dimostrazione del fatto che il tema “polizia linguistica” / “buonismo” è solo un epifenomeno (quindi non credo che il dibattito sul p. c. sia “superato”. Forse ha abiti di foggia ormai desueta, ma il corpo è vivo e scattante).
Il primo, abbozzato, tentativo di Friedman di portare l’analisi del p. c. oltre la descrizione brillante ma pamphlettistica di Hughes è secondo me interessante proprio in questa direzione, per quanto insufficiente.
Sulla questione del riconoscimento del soggetto posta da Mauro: credo che tu abbia ragione, dietro l’analisi di Friedman si nasconde, forse preterintenzionalmente, la coppia autentico/inautentico, da cui l’idea che un soggetto che si costituisca per riconoscimento altrui sia in qualche modo inautentico. Questo quanto alla teoria. In pratica, a me pare, quando un soggetto (nel senso di essere umano in carne e ossa) si percepisce come inautentico (alienato?) non è mai cosa buona per il benessere psicologico. Quindi le osservazioni di Friedman sul narcisismo, mi pare, non sono da prendere sotto gamba, a parte subiecti.
Sul potere/potenza citato da Buffagni, immagino che lei avrà letto il bel libro di De Carolis, Il rovescio della libertà, di cui è uscito un estratto anche qui su LPLC. Be’, l’idea di De Carolis che il neoliberalismo avesse come scopo proprio quello di trovare un congegno di civiltà in cui il potere/potenza potesse svilupparsi liberamente e orizzontalmente, facendo a meno della sovranità statale, ha prodotto una guerra di tutti contro tutti per avere più potere, aumentando i differenziali di potenza tra i soggetti. Il libro di De Carolis era lucidissimo, chiarissimo, ma enigmatico, perché sembrava davvero muoversi su uno sfondo inafferrabile. Chissà che non sia lo stesso di cui abbiamo finito per parlare qui, partendo dal banale p. c.
Saluti a tutti
Non conoscevo il libro di De Carolis, grazie per il consiglio di lettura e cordiali saluti.
Il commento precedente è mio. Appare postato dall’Italia perchè ho usato questo pseudonimo per un commento scherzoso ad altro articolo, e non mi sono accorto che era rimasto lì, incollato al mio pc. Mi scuso.
Caro Daniele,
Sto leggendo il libro di Friedman. Sono abbastanza d’accordo con alcune idee difese dall’autore. Il problema è che secondo me il p.c., propriamente detto, c’entra poco: si sarebbe potuto chiamare Saggio sul conformismo ideologico degli intellettuali (prevalentemente di sinistra).
L’autore descrive la censura imposta da una élite culturale compattamente convinta di rappresentare il “bene”, e delle difficoltà che, in un ambiente simile, può incontrare un qualsiasi ricercatore mosso dall’interesse per la verità e da un ideale più weberiano di scienza. Friedman parla della sua esperienza nella Svezia socialdemocratica e multiculturale, ma, a voler essere onesti, un libro del genere avrebbe potuto scriverlo senza tanti cambiamenti anche un intellettuale o scrittore un po’ spregiudicato vissuto negli anni del marxismo culturale e accademico italiano, quando gli editori rifiutavano di pubblicare Nietzsche e il Gattopardo, o chi citava Hannah Arendt era subito stigmatizzato come “liberale” ed escluso dai gruppi intellettuali che contavano. Io stessa, in questi giorni, provo questo genere di esasperazione nei confronti delle parole d’ordine e di alcuni interdetti sul dicibile che circolano a sinistra nel dibattito francese. E quando ho scritto il saggio contro la Theory è successa una cosa simile a quella che lei mi racconta: mi hanno dato della reazionaria snob normalista, categorizzandomi e neutralizzando le mie opinioni. Ma secondo lei il narcisismo e la balcanizzazione identitaria c’entrano davvero con questo problema, o non si tratta della tipica dinamica di delegittimazione degli avversari ideologici con argomenti ad personam che ha sempre imperato nei nei dibattiti politici e mediatici, e che quando viene trasposta in ambiente scientifico, giustamente, ci sembra intollerabile perché opposta ai fini e al disinteresse della ricerca e del dibattito intellettuale? Secondo me, quella di Friedman è una giusta polemica sulla contaminazione tra epistemologia e politica che non ha nulla a che fare con la questione identitaria.
Friedman però mi risulta odioso quando fa finta di non capire di cosa parli la sociolinguista Deborah Cameron o quando deride bell hooks (femminista nera, esasperata dal maltrattamento di un’amica ugualmente nera da parte del personale di un aereo) assumendo l’atteggiamento supponente del parlante egemone, maschio, bianco che non si capacita di tanta paranoia e isteria. Anche ammettendo che la paranoia e l’isteria siano reali, chi è vissuto negli Stati Uniti sa benissimo che, nove volte su dieci, i neri vengono davvero umiliati (e qualche volta ammazzati) solo perché sono neri.
Per capire il problema serio che c’è dietro al p.c. bisognerebbe non solo cercare di vedere le cose, come si diceva un tempo, dal punto di vista della totalità sociale, ossia dialetticamente, e non solo del proprio privilegio in crisi, ma almeno una volta fare l’esperimento reale o mentale di mettersi nei panni di chi, come una donna nera, non solo si trova a vivere in un mondo che non solo è stato interamente disegnato a misura di altri e dei loro interessi, ma appartiene a un gruppo doppiamente dominato. (C’è un saggio famoso di Spivak su questo, e, in versione pop, il video Lemonade di Byoncé).
Per queste ragioni dialettiche mi interessava molto il parere di Edmund White, che oltre ad essere un grande scrittore è stato minoranza sessuale in anni critici, e professore nei campus. Lui se lo può davvero permettere di scherzare su queste cose.
LO stesso argomento dialettico vale, ai miei occhi, per la querelle tra Tarantino e Spike Lee. Lee si è incazzato con l’ex amico perché trovava che la parola nigger, in Jackie Brown, stesse diventando ossessiva e tendenziosa, un motto di spirito aggressivo (e inutile anche ai fini del realismo). E di Django ha detto quello che lei ha detto di Bastardi senza gloria, che è un film divertente e ben fatto ma irrispettoso, che tratta una tragedia storica con lo spirito di un quattordicenne. È una questione di “tatto” e uno scontro tra due grandi registi che difendono due diverse concezioni del rapporto tra cinema e politica, per la quale non mi risulta si sia mai parlato di censura. (La sola censura ai film di Tarantino, peraltro, è stata imposta per ragioni commerciali di diritti al titolo Inglorious Basterds).
Un’ultima osservazione, rivolta al professore di letteratura: siamo il paese della “questione della lingua”, in cui a scuola impariamo che l’unità culturale e politica italiana è stata in primo luogo linguistica, e in cui il nostro maggiore romanziere ha riscritto (“corretto”?) da capo a piedi il suo romanzo per ragioni di opportunità socio-politica. Perché ci meravigliamo o turbiamo se le rivendicazioni democratiche di riconoscimento passano oggi anche dal “risciacquare” la lingua delle nostre istituzioni?
@Elena Grammann
Certamente un “gruppo critico con la politica migratoria del governo svedese” non è automaticamente un “gruppo razzista”. Il punto che sollevavo lo ha poi chiarito Daniele lo Vetere con il racconto della sua esperienza personale (però a me viene sempre da pensare che evidentemente la moglie di Friedman aveva qualche interesse a dialogare con queste persone, e forse non è così scandaloso che qualcuno gliene abbiano chiesto conto).
Quanto all’esempio della Macchia Umana, splendido libro, trovo che la situazione descritta e deplorata da Roth non abbia equivalenti fuori dai campus americani. In Italia, oltretutto, dove rispetto alle questioni di genere e a quella razziale siamo ancora all’età della pietra, tutte queste preoccupazioni per la perdita di libertà di espressione mi sembrano un po’ ridicole.
Appena letta una recensione a “Political Tribes: Group Instinct and the Fate of Nations” di Amy Chua.
“Chua points out that we fetishize democracy so much in the West that we miss how democracy can exacerbate tribalism.”
Un libro da leggere, mi sa.
“Ed è questa la ragione per la quale la vittoria del p. c. è forse prossima”
Ma magari, magari si arrivasse al rispetto minimo di cui il politically correct è semplicemente sintomo e forma.
A me sembra che l’esistenza di queste discussioni in uno dei paesi più sessisti e razzisti d’Europa è davvero vergognosa. Non c’è alcuna libertà nell’offendere le minoranze e non c’è alcun sentimento politico sublime nel prolungare privilegi di una società costruita da e per maschi bianchi eterosessuali cattolici.
Quanto alla presunta balcanizzazione, quello che avete di fronte si chiama democrazia globale: è la sfida di costruire l’uguaglianza e l’equità in una società non composta più da individui provienenti dalla stessa etnia, da gruppi dello stesso sesso o da persone della stessa religione. Ed è la cosa più bella che il nostro tempo ci ha regalato, quella per cui l’esempio greco (quello di una comunità politica fatta solo di maschi e di maschi che sfruttavano il lavoro degli schiavi) non solo non è più utile, ma è il vero Male radicale.
Il politically correct è uno dei passi verso l’invenzione di questo nuovo mondo in cui le identità sono davvero multiple e non ricondotte a un modello egemonico presupposto e mai esplicitato. Essere contro il politically correct significa semplicemente essere reazionario: difendere il modello di democrazia monoetnica, monosessuale, monoreligiosa, in cui una minoranza domina e sfrutta le altre che ha dominato in Europa per millenni.
A quello che scrive Barbara Carnevali mi viene da aggiungere: magari avessimo in Italia i problemi denunciati da Roth: sarebbe se non altro il segno di un passo avanti nella storia. Questo è il paese più sessista, omofobo e razzista che esista, e lo dimostra anche la denegazione collettiva espressa da molti partecipanti questa discussione. Mi vergogno per loro.
@ Coccia e Daniela. Non vedo dove i partecipanti a questa discussione abbiano espresso posizioni reazionarie. E’ molto avvilente, intellettualmente e moralmente, aprire la bocca, parlare pacatamente, e sentirsi dare dei reazionari. Lo trovo anche un po’ ridicolo. Non posso scontare nella mia breve vita tutte le colpe storiche dell’essere italiano. A proposito di etichettamenti…
Quanto al vergognarsi, gentile Daniela, ognuno ci pensa per sé.
@Coccia. Il giudizio sulla vittoria da me “paventata” del p. c., se legge il mio articolo provando a confrontarsi con esso senza appiccicargli etichette, è assai più sfumato e contraddittorio. Semplicemente, perché ammetto che il linguaggio è una forza simbolica, politica, pragmatica e siccome ammetto questo, riconosco che ovattarlo può essere una necessità. Ma se ovattare significa che io non posso più porre problemi etici in pubblico intorno a questioni delicate senza sentirmi dare dell’antiabortista, allora c’è qualcosa che non va. Non è un dramma, intendiamoci, non conto nulla. Ma almeno posso parlarne?
Questa è la mia tesi. Se questa è reazionarietà, forse le parole hanno cambiato significato nel vocabolario.
@Carnevali. (Non ricordo se in messaggi precedenti in precedenti post usassimo il tu. Questi strani rapporti virtuali sono sempre indecisi tra formalità e informalità e non si capisce mai se la formalità sia eleganza o voglia di distanza e l’informalità gentilezza o mancanza di bon ton. Continuo con il lei, ma volevo dirlo).
Sono d’accordo con quanto dice sull’episodio di bell hooks, Friedman sbaglia.
Sulla politicità del linguaggio, mi sono già espresso: sono d’accordo. Forse, come hanno suggerito Buffagni e FF VS PPP bisogna però fare attenzione a che un’eccessiva (se si potesse metterei il corsivo) politicizzazione non produca effetti collaterali. (Es. io sono favorevole alla campagna per i femminili nelle professioni, li uso nelle mie mail di lavoro… uso la lingua per fare politica; ma continuerò a provare inquietudine, ad es., quando un giornale serio come Internazionale corregge una traduzione dal francese del proverbio “avere la botte piena e la moglie ubriaca” perché una lettrice si è sentita offesa dal detto “sessista”).
Forse l’ultimo esempio mi aiuta anche a dire che, sì, credo che il narcisismo (e la balcanizzazione) c’entrino. In molte situazioni siamo trasformati in tanti piccoli soggetti che difendono il proprio spazio contro altri soggetti, solo che non ci accorgiamo che si tratta di difesa del territorio e lo chiamiamo “diritti”. In ogni ambito, non solo quello stretto delle identity politcs. Parlare con franchezza serve a dirselo, a non dare per scontato nemmeno questo con il crisma del bene. Poi, ripeto, difendere il territorio è un atto politico e simbolico necessario. Ed è evidente che è tanto più importante per chi quello spazio non ce l’ha, come lei ha ricordato parlando di Lee e di bell hooks. Dobbiamo trovare un equilibrio.
Aggiungo un’ultima cosa: questo è un articolo, sono parole. Sono pronunciate in un contesto “protetto” come LPLC. Le avrei pronunciate fra lettori di Feltri? Mai. Sono consapevole che queste parole sarebbero state usate politicamente. Sono parole dal peso politico. Però non equivalgono, che so, a fare politica attiva da reazionari: differenza che gli ultimi due interventi cui ho risposto prima di rispondere a lei, per esempio, dimostrano di non cogliere.
Saluti, D
Molto interessante l’intervento di @Emanuele Coccia, che presenta in forma purissima la posizione dell’universalismo politico, sottolineo politico, espressa con un radicalismo che ha senz’altro il merito della franchezza.
Il problema di questa posizione, non solo pratico ma anche teorico, è che ” l’invenzione di questo nuovo mondo” è anche la ricetta per una maestosa enantiodromia, oltre che per la guerra civile: quando si parla di “balcanizzazione” consiglio di ricordarsi quel che recentemente accadde nei Balcani non metaforici.
L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità. Nella Cristianità medievale lo incarnava la Chiesa, uno dei due “soli” del “De Monarchia” dantesco.
Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché, ripeto, esistono solo quelle, nella realtà effettuale.
Volendo, chi se ne sente all’altezza può parlare in nome dell’umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.
Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).
Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.
Poi ci sono “le volpi”, per esempio le classi dirigenti UE, che vogliono/devono (non dispongono della forza) risolvere la contraddizione con l’astuzia.
Anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità intera che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo: per questa ragione è impossibile definire una volta per tutte i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno pretende di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivida i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.
Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi, anzitutto la moneta unica. Questi “piloti automatici” provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali rendono necessario e inevitabile o reagire con un conflitto aperto e distruggere la UE, o addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il “best interest”, vale a dire per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.
A questa opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. (Le élites, necessariamente ristrette, di “spirituali” o “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “carnali” che invece non lo conoscono).
Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano “lo forcludono”), e da parte loro lo conducono provvisoriamente con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.
In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’ Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura, solo un piccolo difetto d’acustica: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.
Il problema pratico e teorico del quale il politically correct è manifestazione di superficie è questo qua. Non è un problema da poco, anche sul piano politico e sociale. Perchè l’universalismo politico rigorosamente applicato si trasforma in dispotismo, anche culturale; e perchè suscita i “reazionari” di cui parla Coccia (quorum ego).
Ma se ai fan dell’universalismo politico fanno orrore i “reazionari” che sul piano spirituale e culturale sono universalisti, insomma i reazionari cristiani come me (o che almeno sono umanisti), aspettino di incontrare i “reazionari” che sul piano spirituale e culturale NON sono universalisti, cioè NON sono nè cristiani nè umanisti e anzi configurano l’opposto speculare o “antitetico-polare” degli universalisti politici, i denti del drago da essi seminati.
Qualcosa mi dice che ci rimpiangeranno.
Leggendo in questi giorni Signifying Rappers (Il rap spiegato ai bianchi) di DFW e MC mi imbatto in questa noterella: “Vedi per esempio l’opinione di un intellettuale nero, il critico Stanley Crouch, in suo articolo del 1989 su The new republic (ma dovrebbe essere su Village Voice, io però non l’ho trovato per il momento, il soggetto parlante maschio bianco ateo etero % di privilegio ancora da determinare, FF vs PPP) a proposito di quello che chiama “l’afro-fascist chic” dei Public Enemy, di Spike Lee (egli!), dei 2 live crew ecc.: “Ci sono fin troppe prove del fatto che il razzismo non è stato inventato dai bianchi più di quanto i bianchi siano stati inventati da uno scienziato pazzo nero, come ha insegnato a tanta gente Malcolm X durante la sua sudditanza alle dottrine di “Elijah Muhammad””…
Poi, questo il pezzo sui proverbi
https://www.internazionale.it/bloc-notes/giulia-zoli/2017/06/21/proverbi-per-tutti
A me viene da pensare che più che una eccessiva politicizzazione il problema a volte sia più banale, ovvero che i militanti non sono le persone migliori per la loro causa, e càpita siano confusi circa il signicato delle parole che vorrebbero combattere (sessismo e razzismo), oltre che poco disponibili ad usare la logica per dare solidità alle proprie opinioni. E probabilmente a Internazionale condividono l’opinione che il proverbio sia sessita, perché la serietà non va di pari passo con la verità.
@ Daniele Lo Vetere e FF vs PPP
Sono turbata dalla vostra inquietudine: il proverbio è chiaramente sessista, il significato è precisamente quello indicato dall’articolo. Dove starebbe il problema nell’evitare di usarlo? Dove sarebbe (mi rivolgo a FF vs PPP) l’assenza di logica nell’articolo di Giulia Zoli? In che modo il suo ragionamento testimonierebbe una mancanza di serietà e verità? Lo Vetere, mi perdoni, da dove viene la sua inquietudine? Perché a me inquieta che non si veda come smettere di usare certe espressioni sia una dimostrazione di civiltà.
Non stiamo parlando di normalizzare e “tradire” un concetto espresso da qualcuno in un’altra lingua, ma di trovare un modo di rendere un’idea in modo non inutilmente (per quanto sottilmente) offensivo, senza che (ripeto e sottolineo) la medesima carica fosse presente nell’originale. Perché l’inquietudine?
“ 11 maggio 1989, Roma – « Lambrate, 12 gennaio – A sette giorni dalla scoperta il caso di Concetta Lo Bue, la sessantacinquenne colf di origine casertana trovata priva di conoscenza il 5 gennaio scorso nello scantinato dello stabile al n. 12 di via Bobby Solo, rimane un mistero. L’anziana donna che domani, o forse già oggi, sarà dimessa dal nosocomio di Niguarda (“ Ormai è fuori pericolo – dice il professor Willy Lo Cascio, primario del reparto rianimazione – basta che quando è fuori non ricominci “), interrogata a più riprese dal sostituto procuratore Tony La Mosca, ha sempre ripetuto di non ricordare niente di quella drammatica notte del 2 gennaio. Concetta si proclama astemia (“ Un bicchierino con i parenti durante le feste – dice – mai di più “) anzi piuttosto ostile agli alcolici di qualsiasi genere nonché ai loro consumatori (molti anni fa ha avuto il fidanzato morto per le conseguenze di un etilismo cronico) e nega in particolare di avere bevuto in quella circostanza dato che solo un giorno prima, per Capodanno, aveva assunto la sua annuale dose di alcol (“ Astispumante “, aggiunge pignolescamente). Dunque, mancando altri indizi, nessuno riesce ancora a spiegarsi perché la Lo Bue sia stata trovata immersa in un profondissimo sonno accanto alla botte di Grignolino 1987 di proprietà del signor Jack La Monica, 35 anni, albergatore di Grugliasco, e, in seguito ad accertamenti successivi al ricovero, sia risultato aver ingerito non meno di 7 litri di vino ad alta gradazione alcolica. Particolare inquietante degno di un “ classico “ della letteratura gialla (“ Io comunque non intendo sporgere denuncia “, precisa il signor Jack): la botte è risultata perfettamente piena. “ Per aprirla aspetto che la mia bambina compia diciott’anni “, ci confida con un sorriso d’orgoglio il giovane esercente. » (Dai giornali?) “.
@roberto buffagni
mai letto un bel libro di fantascienza, l’arrivo degli alieni, la razza umana in pericolo di estinzione, tutti uniti contro la minaccia ET?
Più seriamente, l’ONU mi sembra un buon ideale, tu no?
ps il tuo ultimo periodo non è chiaro
@ Odilia Mancinelli
Il significato del proverbio, come scrive anche Zoli, è che non si può avere tutto. Non poter avere tutto non è in alcun modo sessista. Lei però aggiunge che non sia rispettoso per le mogli e per le donne in generale. Intanto mi risulta difficile capire come una frase che non esprime alcun giudizio né sulle mogli né sulle donne (che in ogni caso non sono la stessa cosa, per cui non si può estendere la presunta irrispettosità verso le prime anche alle seconde) possa essere sessista; ancora meno capisco come possa essere offensiva per qualcuno. Faccio anche notare, visto che i tempi sono cambiati, che esistono coppie lesbiche sposate. Ma in ogni caso, tutte queste aggiunte sono irrilevanti perché conta il testo. Dal momento che nel testo non c’è nulla di sessista, Zoli passa a parlare di contesto. Faccio notare che la lettrice Cristina dice che il proverbio rimanda a una cultura sessista che stiamo cercando di superare (anche qui senza dire in che modo rimandi a una cultura sessista, dato che una moglie ubriaca è solo una moglie ubriaca). Quindi non il proverbio in sé, ma la cultura a cui rimanda. Che è come dire che “mogli e buoi dei paesi tuoi” sia un proverbio sessista perché è nato in un contesto sessista. E questo, faccio notare, non va bene, dal punto di vista logico e semantico, perché il proverbio esprime solo un pregiudizio circa lo stare con persone della propria provenienza, non dice nulla né delle mogli né dei buoi (ci sono anti-specisti in sala?). Ora, a parte il fatto che una persona non sappia dare il giusto peso a un proverbio sia per me fonte di perplessità, ma qui non c’entra, ancora non è stato detto in cosa sarebbe irrispettoso delle mogli e delle donne. Stante che mancanza di rispetto e sessismo sono due cose diverse (e inoltre che non è sulla suscettibilità altrui che fondiamo l’oggettività delle cose, altrimenti dovremmo chiudere baracca e burattini). Non ci viene detto cosa ci sia di offensivo nell’immagine di una moglie ubriaca in un proverbio, per una moglie.
“Ma il proverbio francese parla a tutti i francesi, l’inglese a tutti gli inglesi, l’italiano invece parla solo agli italiani maschi. Non solo: gli dice che avere una moglie ubriaca è bello, presumibilmente perché diventa meno rompiscatole e più incline a fare sesso. È indiscutibilmente un proverbio sessista. ”
Non potendo argomentare sul testo, si passa dunque alle speculazioni. Che il proverbio parli solo agli italiani maschi non è vero, il proverbio parla a tutti ed è usato da tutti. I proverbi sono metafore per parlare d’altro. È la scena a riferirsi a una precisa situazione, ma questo non la rende sessista più di quanto sia sessista un testo, libro o film in cui ci siano solo uomini che parlano di donne. Ma andiamo oltre. Dal proverbio non si evince in alcun modo che avere una moglie ubriaca sia bello perché è meno rompiscatole e più incline a fare sesso. Queste sono appunto speculazioni. Riporto questa che ho trovato:
“Si tratta di una frase proverbiale riportata da Federico De Roberto nel nono capitolo de I Vicerè.
Riferito a chi vorrebbe approfittare di due situazioni opposte e incompatibili.
Letteralmente: da una parte, avere una moglie ubriaca al punto tale di essere incosciente e quindi ignara degli spostamenti e delle azioni non proprio lecitissime e corrette del marito.
Dall’altra non volere essere in nessun modo danneggiato dalla perdita del vino, facendolo magari ri-acquistare da qualun altro.
Metaforicamente il modo di dire definisce quelle persone che tendono a servirsi e approfittarsi senza scrupoli degli altri, pretendendo pure che gli altri siano contenti.”
Come si legge le azioni scorrette del marito non si conoscono, ma soprattutto, questo proverbio ci dice qualcosa su chi vuole tutto, non sulle donne. Se proprio vogliamo seguire la deriva, sono i mariti che dovrebbero offendersi.
Ultimamente ne sono venute fuori due da parte di certi indiani: un comico che ha attaccato i Simpson per il personaggio di Apu e un tale che ha scritto che nel film Dunkirk non erano rappresentati gli indiani (incredibile se pensiamo che erano uno sparuto gruppetto rispetto a migliaia di soldati, dannato Nolan). Ma dico di più. L’idea che una moglie ubriaca sia meno rompiscatole e più incline a fare sesso, ancora una volta, non è sessista. Perché il sessismo è una forma di discriminazione basata sul sesso, non un presunto pregiudizio sulla noiosità delle mogli o il desiderio di qualche uomo. Se cambiano il detto in: “non puoi avere la moglie ai fornelli e l’amante in camera da letto”, la situazione non cambia, poiché si parla di una fantasia sull’avere due donne e su un luogo comune per cui il matrimonio è noioso. Che cosa c’è da offendersi? Non sarebbe come dire che le mogli devono stare ai fornelli, mute e sottomesse. Il proverbio sarebbe censurabile se fosse come girano certi meme oggi in rete che scherzano sulle donne ubriache delle quali approfittarsi, ma in quanto ironia sullo stupro o avallo della cultura dello stupro, che comunque è una faccenda diversa dal sessismo. Si potrebbe anche dire, strano che non sia stato notato, che il fatto che la botte appartenga al marito sia un chiaro segno della disparità economica, come se la moglie non si potesse ubriacare per conto suo. Possibile che non si riesca a cogliere la differenza tra il contesto in cui nascono i proverbi e il contesto scenico, ma pure le religioni, e ciò che un testo dice? Evidentemente no, tanto è vero che c’è una divergenza di opinioni tra femministe e femministe islamiche, con le prime che ritengono una contraddizione la posizione delle seconde. Ma almeno il Corano, stante che ci sono interessanti riletture da parte appunto di donne, è un testo nel quale compaiono passaggi inaccettabili. In questo proverbio invece non c’è nulla di inaccettabile, alla lettera. Non stiamo neanche dalle parti dell’espressione “ambaradan” che non ha più alcun legame con il fatto storico, della quale almeno ha senso farne notare l’origine. Qui il contesto che si vorrebbe svelato è del tutto inventato. Conclude il pezzo Zoli con il classico rovesciamento della situazione che dovrebbe dimostrare il sessismo in base al fatto che, cosa curiosa, il proverbio a parti invertite non suona più bene. A parte che non si capisce perché un marito ubriaco non potrebbe essere meno rompiscatole; o vogliamo davvero sostenere che non si sia mai scherzato sui mariti o sugli uomini in generale? Le prestazioni sessuali e la rompiscatoleria nulla c’entrano con il senso del proverbio, che è il contrasto di due situazioni. Nessuno quando ascolta questo proverbio si mette a pensare al perché qualcuno vuole la moglie ubriaca. E questo a prescindere dalla prima volta in cui questo proverbio è stato pronunciato e dal suo contesto. Queste speculazioni nascono solo dal fatto che ci sono persone che hanno cominciato per principio a fare caso a tutte le espressioni, trovando sessismo e razzismo laddove non c’è, sulla base del fatto che parecchie espressioni sono sessiste e razziste. Però talvolta, semplicemente, si sbagliano. Si offendono per cose per cui non bisognerebbe offendersi, perché capiscono male. Succede anche questo nella vita. Da diversi anni è una continua caccia al sessismo nei film, nei libri, negli spot. Più di recente si fa molto caso se in una trasmissione ci sono donne o meno. Se non ci sono donne è un problema, pare, pure in un programma come Propaganda live di Zoro, che è chiaramente e senza alcun problema una comitiva di amici al cazzeggio davanti le telecamere. Terribile. E come spesso càpita anche nella vera caccia si manca il bersaglio. Se uno si offende, è cosa buona ascoltarlo e mettersi nei suoi panni, dopodiché le sue ragioni non valgono a prescindere.
Per cui se uno non vuole usare questo proverbio perché lo ritiene offensivo va benissimo. Se vuole sostenere che sia sessista e incivile però lo dovrebbe provare, perché di fatto sta dicendo a chi lo usa che è sessista e incivile, più o meno consapevolmente; e per me tali prove non ci sono. Non ho alcun problema con lo smettere di evitare certe espressioni. Ho problemi col determinare quali espressioni evitare. Poi certo c’è anche un’inquietudine circa la suscettibilità delle persone e l’idea che smettere di usare certi proverbi abbia minimamente a che fare con la civiltà. A volte è solo perplessità, del tipo che mi cascano le braccia. Altre volte è fastidio puro, come nel caso dei Simpson e Dunkirk che ho citato, e verso Spike Lee, che non si capisce che abbia da dire di Jackie Brown, un film con una splendida protagonista nel quale la parola nigger viene soprattutto pronunciata dal cattivo, nero anche lui.
Grazie comunque per le domande.
@ Mancinelli. Gentile Odilia, per considerare quel proverbio inequivocabilmente sessista bisogna ignorare o fingere di ignorare che il significato è dato innanzitutto dall’uso e non dall’etimologia. Per tutti quel proverbio significa “volere tutto”. Nessuno pensa ai chiodi se dice “chiodi di garofano”, nessuno prende alla lettera l’augurio “in bocca al lupo” o pensa che chi lo usa voglia esprimere atavici odi pastorali verso il diabolico scannatore di pecore. Certo si può ricostruire da dove vengono queste espressioni, è di solito molto istruttivo. Ma non si può ridurre il loro senso a questo.
Poi contano le intenzioni. Dire “hai voluto tutto” non è offensivo per nessuno.
In Interpretare e sovrainterpretare Umberto Eco definiva “sovrainterpretazione” il prendere un aspetto secondario di un testo ed erigerlo a sistema. Ancor più acutamente il suo interlocutore Jonathan Culler disse che lui l’avrebbe chiamata sottointerpretazione. Ecco, non sottointerpretiamo.
Perché se si dà il diritto a ciascun lettore di lamentarsi di ciò che lo offende non nel senso e nell’intenzione esplicita di un messaggio ma per una sottointerpretazione che è vera, certo, ma sottointerpretazione resta, meglio sarebbe passare al linguaggio digitale 0 1, perché quelli naturali e storici sono intrisi di troppe scorie.
Saluti
@ Daniele Lo Vetere
Comincio col dire che ho capito leggendo l’inizio della sua risposta, con tanto di storiella divertita su “in bocca al lupo”, di essermi espressa male. Non volevo affatto prendere alla lettera il proverbio, ma solo indicare che l’immaginario a cui attinge è chiaramente maschilista. Ma me ne assumo la responsabilità: è vero, ho usato il termine “significato”, mi scuso per il lapsus. Un immaginario maschilista, invece, è il concetto a cui volevo rimandare.
Lei dice: contano le intenzioni. Allora prendiamo un altro bell’esempio di espressione con intenzioni non offensive: “una donna con le palle”. (Le assicuro, non sto visualizzando una donna dotata di organo riproduttivo maschile.) Ed è inteso come un complimentone, nevvero: trattasi di donna che ha attributi maschili, che quindi non piange in angoletto quando rimproverata. Che non si ritrae al primo ostacolo, ma persevera, resiste, combatte. Peccato che si rifaccia a un’immaginario piuttosto maschilista, spero che su questo siamo tutti d’accordo. [Lo stesso, sospetto, che fa mantenere ancora in auge lo stato di “signorina” in Italia, mentre in Germania Fräulein è stato mandato in pensione senza troppi traumi. Insomma, manca sempre un pezzetto a noi donnine, a meno che non ci accompagniamo ad un maschietto o che magicamente non ci spuntino i virili attributi.] Tutti sappiamo cosa significa, no? Questo vuol dire che ci dobbiamo rassegnare a tenercelo, e non far notare che è un tantino offensivo? In termini di implicito maschilismo, quanto differisce questa espressione dal proverbio della botte piena e della moglie ubriaca?
Quanto a dare “il diritto a ciascun lettore di lamentarsi di ciò che lo offende non nel senso e nell’intenzione esplicita ecc.”, perché no? Non potrebbe diventare un momento di confronto e arricchimento reciproco? Il New York Times, fino a qualche mese fa, aveva un giornalista dedicato a fare il Public Editor (La Stampa di Torino ha un’indecente imitazione che si può leggere in rete). I lettori intervenivano per segnalare quelle che percepivano come passi falsi del giornale e spesso gli interventi vertevano su questioni di politiche identitarie. A volte le rivendicazioni sembravano esagerate, ma si trattava perlopiù di una lettura interessante e istruttiva; quando la rubrica è stata abolita mi è spiaciuto moltissimo. Mi ha aiutato a vedere le cose dal punto di vista altrui – elemento che mi pare manchi pressoché del tutto dal suo articolo-riassunto.
Il che mi porta a un paio di considerazioni sul suo post-scriptum. L’azione dimostrativa delle due femministe inglesi è in linea con la critica che è stata sollevata negli Stati Uniti per opporsi alla legittimità per le persone transgender di accedere ai sevizi igienici con la propria identità di genere: questa libertà metterebbe a repentaglio la sicurezza delle donne, che potrebbero essere aggredite ai servizi da maniaci imparruccati. Si tratta di un’obiezione puramente pretestuosa: mai, nella storia degli Stati Uniti, si è registrato un caso di adescamento di questo genere. Quello che invece si registra quotidianamente è la discriminazione delle persone transgender, che sono tristemente in cima alle statistiche come vittime di violenza e morti per suicidio. Non credo che nel Regno Unito la situazione sia molto diversa. E si noti la nemmeno troppo velata insinuazione: chissà mai che quella che si spaccia come transgender non sia in realtà un violentatore mascherato… Così facendo, si aumenta ulteriormente il clima di sospetto e sfiducia che colpisce le persone transgender, inventa un problema che non c’è mai stato.
Infine, quella che lei definisce la “reificazione del linguaggio (dichiararsi uomo o donna che equivale ad esserlo: biologicamente in questo caso)”, oblitera ancora una volta il punto di vista e la realtà vissuta di chi quel linguaggio lo usa. Solo per chi osserva la situazione da fuori l’essere uomo o donna può essere percepito come reificazione del linguaggio; per chi la situazione la vive, il linguaggio è semplice adeguamento a uno stato di cose viscerale, psico-fisico. Prima la res, poi il linguaggio, non viceversa. La sua mi sembra la perfetta e logica conclusione di un riassunto (sul libro non mi esprimo, non avendolo letto) in cui tutto si fa meno che considerare il punto di vista di chi rivendica maggior rispetto nelle parole e nei fatti, di chi vive sulla propria pelle la subalternità.
@ FF vs PPP
Sono già andata abbastanza lunga, quindi mi limiterò a intervenire sulla polemica su Dunkirk – che non riguarda tanto l’assenza di indiani nel film, quanto l’assenza di persone di colore. Copio e incollo da questo articolo reperibile sul sito della BBC: http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/7984436.stm
The leader of the Free French forces, Charles de Gaulle, made it clear that he wanted his Frenchmen to lead the liberation of Paris.
Allied High Command agreed, but only on one condition: De Gaulle’s division must not contain any black soldiers.
In January 1944 Eisenhower’s Chief of Staff, Major General Walter Bedell Smith, was to write in a memo stamped, “confidential”: “It is more desirable that the division mentioned above consist of white personnel.
“This would indicate the Second Armoured Division, which with only one fourth native personnel, is the only French division operationally available that could be made one hundred percent white.”
[…]
The British and Americans got their “Whites Only” Liberation even though many of the troops involved were North African or Syrian.
For France’s West African Tirailleurs Senegalais, however, there was little to celebrate.
Despite forming 65% of Free French Forces and dying in large numbers for France, they were to have no heroes’ welcome in Paris.
After the liberation of the French capital many were simply stripped of their uniforms and sent home. To make matters even worse, in 1959 their pensions were frozen.
Former French colonial soldier, Issa Cisse from Senegal, who is now 87 years-old, looks back on it all with sadness and evident resentment.
“We, the Senegalese, were commanded by the white French chiefs,” he said.
“We were colonised by the French. We were forced to go to war. Forced to follow the orders that said, do this, do that, and we did. France has not been grateful. Not at all.”
E le chiedo: lei sapeva tutto questo? Non le pare che il film di Nolan magari non sia significativo se preso da solo, ma insieme a tutte le informazioni, le immagini, il resto della narrativa ufficiale contribuisca a rafforzare l’idea che i bianchi abbiano fatto tutto da soli? Che i soldati delle colonie siano stati usati solo come carne da cannone, senza ricevere in cambio nemmeno un vago riconoscimento dai loro contemporanei e da tutti coloro che sono seguiti? Non crede che ci sia un valore nel dissotterrare queste “storie” che vanno a rendere un po’ più complesso il quadro della Storia, e a restituire una voce seppur flebile a chi non l’ha mai avuta?
Perché alla fine la favoletta che noi bianchi salviamo il mondo e facciamo tutto da noi è un mito che viene generato e perpetuato in parte per inerzia, in parte con grande consapevolezza. Del resto ci siamo appropriati pure di Gesù Cristo, che è bianco in quasi tutte le rappresentazioni, quando pare abbastanza chiaro che il colore della sua pelle dovesse essere un poco meno niveo.
Quando una minoranza fa notare che qualcosa nel modo di descrivere e rappresentare la realtà va a spargere sale su ferite ancora aperte, io onestamente la starei ad ascoltare, prima di tapparle la bocca. Senza necessariamente darle ragione, ma col rispetto che le è dovuto e l’umiltà di chi sa che qualcosa da imparare e da scoprire forse c’è ancora.
“ Mercoledì 18 dicembre 1997 – « Il proverbio e la massima nascono dal rifiuto del dialogo, dalla paura del logos, da un atto di terrorismo intellettuale. » (Sandro Briosi, Sull’« effetto di verità » della forma breve, in La lingua scorciata. Detto, motto, aforisma, in «Quaderni di retorica e poetica», 2, 1986) [*]
[*] C’è anche chi la pensa(va) così.
@ mario
Sì, l’ho letto qualche libro di fantascienza con il mondo unito contro gli invasori alieni, però gli invasori alieni non sono ancora arrivati. In attesa che si presentino, è molto improbabile che l’intera umanità si unifichi politicamente, appunto perchè manca il nemico comune contro il quale allearsi. Ecco perchè l’ONU non dispone nè mai disporrà, sino all’arrivo delle prime astronavi aliene, della forza per imporre le sue decisioni a tutti cioè per divenire un vero governo mondiale.
Spiego meglio l’ultimo paragrafo che non ti è chiaro.
Negli ultimi decenni, il partito democratico americano, e in generale le forze politiche progressiste del mondo occidentale, hanno impostato la loro strategia politica sulla “identity politics”, cioè su un’alleanza politica tra le varie minoranze etniche che compongono l’elettorato+i progressisti di ascendenza europea+ varie forze sociali favorevoli alla globalizzazione etc. come ad esempio la finanza, le imprese multinazionali, etc.
Come avversario, hanno dunque automaticamente designato tutti coloro che in questa alleanza non sono compresi, anzitutto gli elettori di ascendenza europea non progressisti (per ragioni ideologiche e/o sociali) e i lavoratori subordinati.
La giustificazione ideologica della “identity politics” progressista è, appunto, il politically correct, un complicato dispositivo di risarcimento materiale e simbolico delle minoranze etniche, sessuali, etc., individuate come vittime della storia, che si propone come obiettivo finale l’eguaglianza universale dell’umanità e la creazione di un governo mondiale.
Gli avversari della identity politics progressista e del politically correct vengono così designati insieme come nemici politici e come nemici dell’umanità, e a loro viene imputato l’intero carico di ingiustizia e male che si è manifestato nella storia della civiltà occidentale, riassunto nella formula “privilegio bianco, maschile, eterosessuale, etc.”.
A questa dichiarazione di inimicizia politica e culturale dei progressisti si può reagire, in estrema sintesi, in due modi.
1) Dall’interno della tradizione della civiltà e della cultura occidentale, cioè a dire dall’interno del cristianesimo e/o dell’umanesimo. La risposta base sarà allora la seguente: “l’obiettivo strategico del progressismo, l’eguagliamento sostanziale dell’intera umanità e il governo mondiale, è irrealizzabile. Il progressismo è una religione politica intramondana che traspone sul piano della storia una escatologia di tipo messianico (uomo nuovo, nuovi cieli e nuova terra). Tutti gli uomini hanno eguale dignità spirituale, ripeto spirituale, in quanto creature fatte a immagine e somiglianza di Dio (cristiani) e/o in quanto partecipi di una stessa natura umana, identica in ciascun individuo benchè manifestantesi in forme sempre diverse e in diversi gradi di realizzazione delle potenzialità (cristiani+umanisti). L’ingiustizia e il male sono e saranno sempre presenti nella storia perchè sono una potenzialità sempre presente nella natura umana spirituale di tutti gli uomini nessuno escluso, e non sono storicamente eliminabili eliminando dalla faccia della Terra una categoria etnica, sociale, sessuale, etc. , nè rivoluzionando le istituzioni politiche, etc., perchè non sono storicamente eliminabili mai, come dimostrano anche i tentativi falliti delle precedenti religioni politiche intramondane quali il comunismo o il nazismo.”
Da questa posizione culturale consegue il rifiuto del razzismo (razzismo di qualsiasi colore, tutte le razze possono essere razziste) e il rifiuto della “identity politics”; di qualsiasi identity politics, perchè qualunque identità (etnica, religiosa, sessuale, etc.) può fare politica identitaria, cioè designare come nemiche politiche le identità diverse da sè.
2) Dall’esterno della tradizione cristiana e umanistica della civiltà europea, e invece dall’interno di una religione secolare intramondana eguale e contraria alla progressista. Nella religione secolare intramondana progressista si designano come nemiche le identità “privilegiate” perchè hanno prodotto la cultura dominante e sono socialmente e politicamente dominanti. La religione secolare intramondana antiprogressista che ne viene suscitata reagirà, in sintesi, così: “Sì, è vero che i bianchi, i maschi, gli eterosessuali hanno prodotto la cultura dominante e sono così diventati socialmente e politicamente dominanti. Questo è avvenuto perchè i bianchi, i maschi, gli eterosessuali sono GENETICAMENTE MIGLIORI, come appunto dimostrano la storia e la scienza (seguono studi scientifici che comparano il QI dei neri e dei bianchi, etc.). Il progressismo non manifesta altro che il risentimento e il ricatto morale dei deboli nei confronti dei forti, che come dimostra l’evoluzione delle specie (seguono pacchi di darwinismo sociale) devono dominare, pena la decadenza e in ultima analisi l’estinzione della nostra civiltà ed eventualmente dell’ intera specie umana. Quindi, voi progressisti fate pure la vostra politica identitaria: la faremo anche noi, e siccome siamo fatti di una stoffa migliore della vostra vi spazzeremo via.”
Si noti che progressisti e antiprogressisti (non cristiani o umanisti) concordano su un punto fondamentale, e cioè entrambi negano che esista una natura umana spirituale comune a tutti gli uomini (v. punto precedente), perchè negano che esista la realtà spirituale, anzi: addirittura neanche registrano la domanda ‘e se esistesse anche lo spirito?’.
Per progressisti e antiprogressisti (non cristiani o umanisti) è reale solo ciò che “la scienza” ci certifica esserlo, cioè a dire che entrambi sono scientisti. Per loro, l’uomo è composto da materiale biologico+volontà arbitraria, che sono le due uniche componenti dell’essere umano rilevabili all’interno del paraocchi scientista. Dunque, all’interno del comune paradigma scientista, l’unica differenza tra progressisti e antiprogressisti (non cristiani o umanisti) è che i primi sono politicamente universalisti (vogliono implementare politicamente l’eguaglianza universale) i secondi, invece, no. La logica interna delle due posizioni speculari tende dunque alla eliminazione (anche fisica) reciproca, perchè per i progressisti i loro nemici sono nemici dell’umanità, per gli antiprogressisti (non cristiani o umanisti) i loro nemici sono nemici della specie umana in quanto ne compromettono l’evoluzione+nemici della loro identità tribale, al di sopra della quale non esiste istanza alcuna. In nessuna delle due posizioni sono presenti freni culturali allo sterminio del nemico. Il che non vuol dire che lo sterminio avverrà, ma illustra la violenza e la radicalità dello scontro che si delinea, ed è un segno molto chiaro che la profonda crisi della civiltà europea e occidentale continua ad aggravarsi.
Più chiaro, così?
@ Odilia Mancinelli
Il dibattito sulle mogli e e le botti resta un dibattito più o meno interessante e basta sinchè a qualcuno non viene l’idea di varare leggi che ne proibiscono l’uso, con le relative sanzioni; o anche sino a quando, all’interno delle istituzioni culturali quali l’università, o realtà sociali importanti quali le aziende, non si seleziona il personale in base alla sua adesione alla condanna del proverbio mogli+botti.
Il problema è che a qualcuno l’idea è già venuta, e che negli USA, un paese non periferico e secondario, questa cosa già comincia a succedere, per esempio in merito alla valutazione del matrimonio same-sex dopo la sentenza della Corte Suprema federale: chi sostiene pubblicamente che l’unico vero matrimonio è quello tra persone di sesso opposto va incontro a serie conseguenze negative nella carriera, etc. Vedo leggendo il suo intervento che lei segue la stampa americana, e dunque non porto esempi che lei conosce già.
Tralascio le conseguenze culturali perchè il nostro giudizio in merito è certamente diverso, ma la invito a riflettere sulle conseguenze politiche, che sono quelle illustrate nei miei interventi precedenti. Non so se lei ritenga che il gioco vale la candela.
@ Mancinelli. L’espressione “donna con le palle” è brutta, volgare. Non la userei e non andrebbe usata in un articolo di giornale (serio, come Internazionale). Se una lettrice se ne sentisse offesa avrebbe ragione e farebbero bene a toglierla (ma Internazionale non l’avrebbe proprio usata). Il caso del “signorina” da lei citato è una caso di scuola, nel senso che ormai è un uso che si è perso, salvo qualche sacca.
Il proverbio è decisamente più innocuo ed è appunto un proverbio. Se volessimo ripulire proverbi, barzellette, modi di dire, il linguaggio in generale da TUTTE le espressioni che sono offensive per qualcuno non potremmo più parlare, mi creda. Le barzellette sui carabinieri hanno contribuito credo molto, prima che alcune fiction li riabilitassero, a diffondere una irrazionale convinzione che questi fossero tutti un po’ stupidi. Ecco, riabilitarne l’immagine con una fiction è una buona strategia, non il farsi morire in bocca una barzelletta perché potenzialmente offensiva.
La mia osservazione su quel proverbio serviva solo a fare un esempio di correzione linguistica secondo me ingiustificata a Barbara Carnevali, che mi chiedeva se non ritenessi che il linguaggio potesse essere uno strumento di legittima azione politica. Ribadisco che ho detto che anche per me lo è. Ho fatto un esempio (il femminile nelle professioni) di battaglia giusta. Lei sta generalizzando la mia affermazione, desumendo che io sia in generale contrario a questo genere di azioni sul linguaggio e che voglia che le cose restino come stanno anche se sono maschiliste. Non l’ho mai sostenuto. Ho detto che occorre decidere caso per caso, più volte. Almeno questa è la mia personale, discutibile, relativa e debolissima posizione. Creda che non ho alcuna autorità in materia, alcun privilegio. Ho solo cercato di parlare di un libro e di fare alcune riflessioni.
Quanto alle osservazioni sul post scriptum, non capisco perché muova quell’obiezione a me. Lei afferma che il comportamento delle due femministe inglesi dimostra cecità nei confronti delle persone transgender e che è largamente pretestuoso. Bene, ma è quello che credo anche io. Di quella volontà di esclusione io sono stato solo cronista. La sua critica andrebbe mossa alle due femministe inglesi.
Saluti
Aggiunta.
Purtroppo, non è impossibile, forse addirittura non è improbabile, che all’interno del fronte politico antiprogressista divengano egemoniche le posizioni spiritualmente NON universaliste, cioè non cristiane e non umanistiche. Per tre ragioni: a) che le Chiese cristiane tranne l’Ortodossa tendono ad allinearsi al fronte progressista e dunque non esercitano l’auspicabile influenza sul fronte antiprogressista ma anzi possono essere da esso incluse, in blocco, nel campo nemico b) che le passioni più basse (odio, invidia, risentimento, brama di dominare e uccidere) sono le più facili da suscitare c) che il fronte progressista è incapace di moderazione e dialogo con le culture ad esso avverse.
E’ una cosa molto pericolosa.
@ Odilia Mancinelli
Non conoscevo questa storia. Se uno facesse un film sulla liberazione di Parigi dovrebbe dunque non mettere soldati africani. Per essere più accurato dovrebbe mettere gli spagnoli. Ma per essere storicamente più profondo e intenzionato a fare un film politico dovrebbe includere una scena nella quale si mostrano i carteggi. Se uno volesse fare un film sul colonialismo e il razzismo nella guerra. Nolan però non ha fatto questo, ha fatto un film che usa la guerra come scenario. Non dunque un film storico, tantomeno gli interessavano questi aspetti politici. Però, e questo mi stupisce, i soldati africani nel suo film ce li ha messi. Nella prima lunga sequenza infatti, quando i due protagonisti (il soldato inglese e il francese che si finge inglese) provano ad imbarcarsi fingendo di portare un ferito a bordo delle navi di soccorso a Dunkirk, si vedono i soldati francesi che aspettano invano di poter essere imbarcati. Fra di loro ci sono dei neri. Una presenza fugace, mi è capitato di parlarne con altri che non li avevano visti, su una discussione su Giap dei Wu Ming. In ogni caso per me poteva pure non metterceli, non so come sono andate le cose in fase di scrittura. Poteva non metterceli perché il punto in quel film non sono i soldati, ma è la natura umana. Tanto è vero che nella scena in cui stanno nella stiva e vengono presi di mira dai cecchini tedeschi, gli inglesi decidono di sacrificare qualcuno e mandarlo fuori a prendersi le pallottole per alleggerire la nave e non farla affondare, pensano bene di mandare l’olandese, che però sapeva far funzionare la barca, e decisamente il francese infiltrato, bianco. E il secondo ad andare fuori sarebbe stato il protagonista inglese, bianco, perché non faceva parte della divisione che stava nella stiva. Per dire quanto si restringa il cerchio umano quando stiamo in certe situazioni. Quindi, in tutto ciò, cosa centrano i soldati africani (comunque inclusi) e gli indiani (esclusi?). Tra l’altro se Nolan avesse ragionato come i militari inglesi all’epoca avrebbe dovuto escludere i primi e mettere i secondi. Invece ha incluso i primi e li ha messi fra coloro che non vengono fatti imbarcare per essere salvati. Ma tutti questi ragionamenti mi dànno sui nervi. Perché se uno vuole giustamente far conoscere la storia ha tutti i mezzi per farlo. Non si mette a insinuare, oltretutto senza alcun fondamento come nel caso di Dunkirk. Oppure produce un commento al film, raccontando il contesto, facendo notare le differenze fra un’opera di finzione e il fatto storico. Certo, di fronte a un film palesemente di propaganda è lecito criticarlo pesantemente. Se si cerca invece la polemica per me i casi sono due: o si è opportunisti in cerca di carriera o si è ossessionati. Perché la guerra mondiale si è svolta in anni in cui i superstiti sono ormai scarsi, quindi gli unici che possono lamentarsi sono loro, non i loro discendenti. Spike Lee non è una minoranza, non è il rappresentante dei neri. Così come una femminista non è la rappresentante delle donne, e infatti guardacaso ci sono parecchie donne infastidite da alcune femministe. Questa cosa di restituire voce a chi non ce l’ha avuta non mi convince per niente, e in ogni caso non passa per film come Dunkirk. Non mi convince perché di base si fonda su noi vs loro che non esiste. Io non faccio parte dei bianchi, per dire. Sono bianco, che è diverso. In più chi la voce non ce l’ha avuta non è detto che oggi la utilizzerebbe in questo modo. Mentre chi oggi è vivo una voce ce l’ha e ci penserà lui nel caso. Poi vorrei capire quale indiano o senegalese oggi si metta a pensare ai suoi nonnni sul fronte. Io non credo che le storie abbiano il valore comunemente inteso, così come penso che la giornata della memoria sia del tutto inutile. Le storie sono belle, la conoscenza è bella, le diffondiamo perché ci piacciono, non perché servono. Le andiamo a trovare perché le riteniamo necessarie, perché crediamo che gli orrori della storia debbano avere almeno dei testimoni futuri, che almeno si sappia quello che è successo. Discorso diverso e troppo ampio su quanta e quale influenza abbiano. Ma che un senegalese oggi mi venga a dire che per lui quello che è successo quando non era nato è una ferita aperta non mi pare credibile, e se così è gli direi che non sta molto bene, di pensare ad altro. Lo stesso penso di tanti anti-fascisti oggi come degli italiani che vogliono il riconoscimento dell’esodo dal nord est italiano. Le storie vanno raccontate tutte. Bene che si mostrino le contraddizioni e i crimini commessi. Io ascolto tutti, ho passato diverse ore a leggere l’articolo di Zoli, il suo commento, quello di Carnevali eccetera, prima di replicare. Mica sto dicendo che non bisogna avanzare critiche o che non esista il piano simbolico. Ma a seconda della critica mi faccio un’idea e replico. Se una persona di fronte a un film come Dunkirk si mette a pensare al colonialismo per me non sta bene. Io non sono uscito dalla sala pensando che noi bianchi abbiamo fatto qualcosa, oltretutto Hitler era bianco… Se invece partendo dal film racconta i particolari storici fa qualcosa di utile e di buono.
@ Daniele Lo Vetere
Brevemente: davvero non possiamo provare a evitare di usare espressioni offensive per qualcuno? (Preciso che limito il mio discorso alla comunicazione quotidiana e giornalistica, mentre l’arte può permettersi di fare quel che vuole, sperimentando e provocando in libertà. Ed esponendosi a interpretazioni e critiche, ça va sans dire.) A mio modesto parere, non sarebbe così difficile. E credo ci sia differenza tra il notare l’implicito connotato di un’espressione e il volerla bandire: la sua scelta dell’espressione “ripulire il linguaggio” paventa un atteggiamento censorio che non è affatto nelle mie intenzioni. Da quando il diritto di critica e la censura sono la stessa cosa? Se sottoscriviamo questa teoria del piano inclinato, tanto vale che ci diamo tutti all’apicoltura.
Quanto al suo post-scriptum: l’espressione “reificazione del linguaggio”, che ho contestato, mi sembra sia sua, non delle femministe inglesi. Così come mi pare che dal suo modo di presentare i fatti, che finisce per mettere sullo stesso piano di irragionevolezza le posizioni di tutti, non si capisca quanto di pretestuoso ci sia nell’azione dimostrativa delle due attiviste. Ma potrei sbagliarmi.
@ FF vs PPP
Cito dal suo post: «Fra di loro ci sono dei neri. Una presenza fugace, mi è capitato di parlarne con altri che non li avevano visti, su una discussione su Giap dei Wu Ming. In ogni caso per me poteva pure non metterceli, non so come sono andate le cose in fase di scrittura. Poteva non metterceli perché il punto in quel film non sono i soldati, ma è la natura umana.»
Per qualcuno è effettivamente un problema che si pensi che i perfetti rappresentanti della “natura umana” siano tutti belli bianchi, e magari cristiani, e sicuramente maschi.
E mi scusi, bisogna decidersi: o l’accuratezza della ricostruzione conta qualcosa oppure no. La invito a fare un esperimento mentale: immagini che Nolan come soldati avesse usato solo ed esclusivamente donne nere. Sarebbe stato un problema per lei spettatore? Tanto non è la verità storica quella che conta, no? Il punto è la natura umana.
@ Italia
Negli Stati Uniti ci vivo. Pur riconoscendo che un certo modo di intendere le politiche identitarie possa portare a derive pericolose (la più temibile, a mio parere, è la crescente difficoltà ad ascoltarsi e confrontarsi, che viene però alimentata da tutte le parti in gioco), a differenza sua credo che si tratti di discorsi di grande valore culturale e sociale. Come Barbara Carnevali ha spiegato molto meglio di quanto potrei fare io, il privilegio e l’egemonia di alcuni e la subalternità di altri sono condizioni reali, non invenzioni di pazzi.
@ Odilia Mancinelli
io sono ateo e non bestemmio, a parte quando scherzo con gli amici o quando sono da solo e mi vengono certi momenti per cui una bestemmia fatta bene ti sfoga. Non bestemmio perché non ha senso. In più se sono con altre persone non bestemmio perché potrei offendere qualcuno. Ma se dovessi scrivere un articolo o un saggio e dovessi parlare di Dio in termini che un credente trovasse offensivi lo farei lo stesso. Eviterei solo se sapessi di rischiare la vita, che reputo più importante delle mie opinioni. Benedisco il fatto di trovarmi in un posto in cui i fanatici violenti sono molto rari. Quindi certo che si possono evitare espressioni offensive. Ma ci sono espressioni sulle quali non c’è accordo. Su queste si discute. Non solo nell’arte. Nel caso del proverbio in questione io avrei discusso. I lettori avanzano critiche, i redattori rispondono. Non ho mai usato l’espressione “donna con le palle” perché la reputo stupida, prima ancora che offensiva. Mentre non trovo nulla di sbagliato nel detto sulla botte, per quanto non l’abbia ugualmente mai usata (per quel che ricordo) fino a questo post. L’unica cosa che farei è non usarla in presenza di una persona che abbia manifestato fastidio. Non in un articolo però, lì non mi interessa se qualcuno si sente offeso, se vuole smette di leggere o mi dimostra che quello che scrivo non va bene, non sulla base della propria sensibilità.
Circa le reificazione del linguaggio tempo fa ho letto delle discussioni circa il “cotton ceiling” ovvero l’idea che delle lesbiche discriminassero delle trans escludendole dalla sfera sessuale perché le seconde hanno il pene. Sotto le coperte i nodi vengono al pettin(g)
D’accordo, ma chi è che pensa che i rappresentanti della natura umana siano belli, bianchi, cristiani e maschi? E a chi verrebbe mai da pensarlo vedendo Dunkirk? Se Nolan avesse usato solo suore nere lo avrei trovato bizzarro, straniante, privo di senso, uno scherzo… Ma non sarebbe stato un problema di tipo etico-politico. Non ho bisogno di sapere da un film come sono andate le cose, né vado al cinema per vedermi rappresentato. Può essere perché non vivo questo problema in quanto maschio e bianco? Non credo, è per come sono fatto e ragiono. Recentemente c’è stato un film che ha messo gli alieni o dei mostri (non mi ricordo) nei filmati storici della guerra mondiale. L’accuratezza della ricostruzione conta in un film storico sul piano artistico. Più è accurato meglio viene giudicato. Sul piano politico dipende dal film. Nella Vita è bella di Benigni c’è stata la polemica del carro armato americano. Era un vero problema? No, solo un errore. Se invece uno fa un film in cui i nazisti si limitano ad ascoltare musica classica qualche critica dovrebbe aspettarsela. Ma uno potrebbe fare un film su un nazista qualunque in un momento di vita quotidiana da impiegato nazista, per mostrare come ogni uomo ben si adatti in ogni situazione. Non è che tutto comincia e finisce all’interno di un’opera. Quanto e se sottoporre un film a un giudizio etico-politico dipende appunto dalla sensibilità di ognuno, la quale, come ogni film, può ben essere a sua volta giudicata. Ultimamente ho ascoltata una interessante discussione fatta da scrittrici alla scuola Holden, sul recente romanzo Miden di Veronica Raimo (che ho letto con favore alterno). A un certo punto si è parlato di desiderio e rappresentazione nella letteratura con riferimenti a Philip Roth. Ecco, mentre trovo arricchente una pluralità di versioni di sesso narrate, mi pare di leggere fra le righe che la sessualità narrata di Roth non sia semplicemente parziale, cosa ovvia, ma in qualche modo sbagliata. E questo non mi pare vero. Che è in piccolo la differenza della quale stiamo discutendo. Ma forse mi sbaglio in questa interpretazione particolare.
https://www.facebook.com/holden2.0/videos/10156616524412662/
Questa la lettura alla Holden
@Daniele Lo Vetere (e @ FF vs PPP e @Buffagni)
Caro Daniele, nemmeno io ricordo come fossimo rimasti: va benissimo darsi del tu. Avevo scritto una lunga replica a diversi commenti, ma l’ho cancellata per errore, per cui mi limiterò a una conclusione generale e frettolosa. Con te credo di essere praticamente sostanzialmente d’accordo su tutto (proverbio compreso), e che l’unica differenza sia il mio desiderio di promuovere una prospettiva un po’ più militante. Sul fatto che sia il momento giusto per la causa femminista la penso come Eva Illouz nel saggio pubblicato su LPLC, a proposito del caso Weinstein. E penso anche che, se si ha a cuore l’efficacia politica, cioè suscitare cambiamenti reali in tempi non tellurici, sia necessario per le donne schierarsi con più nettezza su alcune questioni concrete, anteporre richieste chiare alle sfumature (il passaggio dalla teoria alla pratica per un gruppo che rivendica comporta sempre qualche ingiustizia fatta ai gruppi con interessi in contrasto, altrimenti non ci sarebbe mai stata alcuna rivoluzione né esisterebbe più la politica), e, soprattutto, valutare le ragioni di opportunità di tempi e luoghi, problema che tu stesso ricordi facendo l’esempio di Feltri (e che si erano poste giustamente alcune lettrici a proposito del racconto di Edmund White).
Mi scuso di essere ripetitiva, ma in questo momento in Italia è prioritario per chi ha una coscienza di sinistra interessarsi al multiculturalismo (che sarà comunque il nostro futuro, essendo la conseguenza inevitabile della questione migratoria, a meno di non volere, per l’appunto, la botte piena e la moglie ubriaca), così come al riconoscimento di donne, omosessuali, e altre categorie dominate. Categorie che esistono eccome, con buona pace di FF vs PPP, cui consiglio, se FF sta per Franco Fortini, di scoprire cosa si intenda per dominio maschile leggendo il saggio fortiniano sulla sorella Paolina di Leopardi, che anche di questo parla.
Il p.c. è un’arma tra tante, anche se forse la più debole e dubbia, per rendere la nostra società più giusta, inclusiva e rispettosa. Il modo in cui i suoi critici impostano il problema e in cui è partito il nostro dibattito mi spinge a prendere posizione. E se la scelta è tra Hughes e Friedman contro bell hooks e Spike Lee, sto senza dubbio con i secondi.
Detto questo, i perplessi fanno benissimo a dire la loro e portare un punto di vista più critico. Il blog serve a questo, e mi sembra che la recensione abbia suscitato un dibattito utile a scambiare punti di vista, lasciar sfogare qualche fobia (forse l’aspetto più interessante) e ascoltare voci diverse dal solito (benvenuta Odilia Mancinelli, che ricorda, tra l’altro, come nella discussione si confonda continuamente il piano dell’arte con quello della lingua civile e istituzionale, e quello della civiltà con quello della censura).
Qualche osservazione per concludere:
– il p.c. , forse, non potrà mai attecchire veramente da noi, perché gli Stati Uniti e la Svezia sono paesi protestanti, e hanno un rapporto con l’individualismo, la repressione morale e il rapporto pubblico/privato incommensurabile al nostro. La Macchia umana ci riguarda come la Lettera scarlatta: ci tocca l’universalità del dramma umano, ma il puritanesimo, nell’Italia delle olgettine, non sappiamo nemmeno cosa sia. Ogni conflitto tra ethos e politica andrebbe giudicato storicamente e sociologicamente, iuxta propria principia. Le barzellette sessiste di Berlusconi mi sembrano un caso di studio molto più esemplare per noi …
(malgrado questo va da sé che, se in Italia si arrivasse al punto di far licenziare qualcuno per una vicenda come quella raccontata da Roth, si dovrebbe stare dalla parte di chi è nella situazione del suo protagonista).
– invece di discutere sempre di seconda mano, dei campus americani o svedesi, parliamo appunto di esperienze concrete nel nostro paese. Farò qualche esempio di ciò che conosco, il linguaggio rivolto alle donne nell’università italiana. Sono aneddoti minori e tutto sommato innocui, che ci raccontiamo tra colleghe e di cui siamo le prime a ridere, ma che si accumulano nella vita quotidiana. Succede ancora spesso che i professori italiani rivolgano commenti sessuali o complimenti fisici a colleghe e studentesse, anche in pubblico e durante un convegno; che si complimentino per il “physique du rôle” delle candidate durante (e sottolineo anche in questo caso “durante”) una discussione di tesi di dottorato; che si rivolgano con tono accondiscente alle colleghe, anche dello stesso grado, chiamandole “cara signora” o “cara signorina” (mentre i colleghi uomini sono tutti “professore”). Se l’interessata protesta, viene accusata di essere una rompiballe o di non capire il senso della galanteria. Gli studenti maschi, come mi spiegò un giorno uno di loro in perfetta buona fede, trovano più “corretto” (come un’implicita regola del traffico) chiamare una professoressa ordinaria “dottoressa”, e un ricercatore “professore”.
Ma davvero qualcuno pensa seriamente che la libertà di espressione sia minacciata dalla censura nell’università italiana?
La vera cultura del piagnisteo è quella di chi, con la scusa di deplorare un p.c. che non esiste se non nei fantasmi di castrazione, piange in anticipo la fine dell’Ancien Régime…
@ Carnevali
Tempo fa, dato che ogni tanto coi miei amici parlo di femminismo, uno di loro mi disse che aveva fatto caso che la sua capa ingegnere si arrabbiava sempre quando andava ad ordinare dei pezzi perché se veniva accompagnata dal suo amico i fornitori si rivolgevano direttamente a lui pensando che lei fosse la segretaria. Il saggio di Fortini mi sa che me lo aveva già consigliato (e forse questo aneddoto lo avevo già riportato), comunque l’ho appena trovato usato e ordinato, grazie ancora. Più o meno mi pare di aver compreso nel tempo il concetto di dominio maschile, ma ho delle obiezioni nella sua applicazione ai casi attuali e negli impianti teorici che ne parlano, così come nel parlare di categorie dominate. E anche di come riconoscerle. Ma questo per fortuna non è affare che mi riguarda e nel quale ho voce in capitolo.
Per il resto il mio atteggiamento è quello del caso per caso. Si può avere una coscienza di sinistra che contempli tutto quello che viene messo sotto il nome di quello che si vuole, Altro, subalterni, minoranze, categorie dominate, ma che allo stesso tempo sia critica, senza che questo implichi scegliere da che parte stare. C’è il dissenso anche stando dalla stessa parte. Ovviamente ci sono anche coloro che pensano di essere politicamente scorretti e paladini della libertà d’espressione che sono in realtà semplicemente brutte persone. Quello che mi lascia perplesso e in parte confuso della recensione e del libro di Friedman che sto leggendo, è che non fare complimenti a una studentessa non è questione di p.c., ma di basilare rispetto e comprensione degli ambiti sociali. Io non mi permetterei mai di fare una cosa del genere. Né chiamerei mai una donna con lo stesso ruolo di un uomo con una formula diversa rispetto a quella usata per un uomo. Mentre alcuni esempi citati da Friedman non sono di questo tipo, sono proprio comportamenti e ragionamenti ideologicamente deviati, che non vedo come evitare di giudicare in maniera critica.
@ Odilia Mancinelli
Grazie della replica. “La crescente difficoltà ad ascoltarsi e confrontarsi” di cui lei parla è, appunto, il sintomo più evidente della politicizzazione del conflitto culturale; è naturale che sia “alimentata da tutte le parti in gioco”, perchè il conflitto politico funziona proprio così.
@ Barbara Carnevali
Grazie della replica. Non ho capito bene che cosa sia la “coscienza di sinistra”, che implicherebbe l’esistenza di una “coscienza di destra”, una “coscienza di centro” e così via. Ero rimasto alla coscienza tout court, con eventuali posizioni politiche di sinistra, destra, centro, centrosinistra, centrodestra etc. Comunque grazie, va bene così.
“ 16 settembre 1991 – Chiameremo « femminilismo » il movimento planetario che negli anni Ottanta ha sconvolto il mondo. Lo chiameremo così per richiamare il « femminismo » e insieme indicare una cosa che, pur somigliandogli, significa molto di più. Per esempio: riguarda gli uomini oltreché le donne. Identificheremo così la Grande Metafora che è stata il tramite dell’annientamento di tutto ciò che si voleva annientare liquidandolo come « maschile ». “.
Per la precisione storica, segnalo che anche nella Wehrmacht e persino nelle Waffen-SS c’erano truppe non europee e non bianche.
Per esempio, la Freies Arabien Legion (con anche dei neri), la Indisches Freiwilligen Legion (schierata anche a difesa del Vallo Atlantico), le varie legioni mussulmane dell’Asia Centrale, etc.
Non mi risultano lamentele per la mancata inclusione nei film storici.
Invito alla lettura di un testo esemplare di quel che accade quando si politicizzano integralmente i temi culturali, in questo caso etici.
E’ un manuale di strategia politica per la normalizzazione della pedofilia, intitolato “After The Fall: A Beginner’s Guide to Destroying Pedophobia in the 21st Century”.
La cosa più interessante è che potrebbe benissimo trattarsi di un falso sul modello dei “Protocolli dei Savi di Sion”, cucinato come operazione di influenza dalla polizia segreta zarista, che rielaborò lo semisconosciuto pamphlet “Dialogue aux enfers entre Machiavel & Montesquieu” di M. Joly (1864).
In questo caso, il testo su cui dichiaratamente si basa l’autore del manifesto propedofilia è assai più noto: “After the Ball: How America Will Conquer Its Fear and Hatred of Gays in the 90’s”, di M. Kirk e H. Madsen (1990), appunto un manuale di strategia politica per normalizzare l’omosessualità (obiettivo pienamente raggiunto).
In mancanza di altri elementi di giudizio, il manifesto propedofilia può essere al 50% autentico, al 50% un falso. Resta il fatto che per raggiungere obiettivi come questo, o qualsiasi altro, si procede effettivamente così. O meglio: si procede effettivamente così quando il campo della cultura e dell’etica viene integralmente politicizzato.
Qui il manifesto: http://archive.is/7c6pR#selection-457.0-457.79
Mi pare che riguardo all’argomento del post, si possano sollevare due tipi di osservazioni, una di merito e l’altra di metodo.
Per quanto attiene il merito, la ricerca dell’uguaglianza viene contrastata da due differenti tipi di discriminazioni, quelle naturali,e quelle culturali. Logica vorrebbe che noi ci concentrassimo sulle discriminazioni culturali, e magari alleviassimo quelle naturali per quanto ciò sia possibile.
Ora, non v’è dubbio alcuno, almeno su questo aspetto dovremmo essere tutti d’accordo, che la fonte di gran lunga più importante di discriminazione di tipo culturale nelle moderne società liberaldemocratiche, sia costituito dal denaro. Magari qualcuno nel 2018, che tra l’altro ami definirsi di sinistra, potrebbe richiamare questo aspetto, non dico lottare per rimuoverlo, forse sarebbe chiedere troppo, ma almeno averlo presente, ricordarlo a sè stesso e agli altri.
Ecco, in questa discussione con tanti interessanti interventi, nessuno mi pare abbia fatto alcun riferimento, anche soltanto indiretto alla palese discriminazione di tipo economico, un tema che abbiamo tolto dall’orizzonte della riflessione politica, anche quella puramente teorica.
La discussione pubblica sulle discriminazioni è oggi del tutto monopolizzata dai diritti civili e dalla correlata questione delle discriminazioni a carico dei più vari gruppi non si sa come identificati. Infatti, la presenza sulla scena politica di un certo gruppo non dipende da un fattore oggettivo, qualunque esso possa essere, ma esclusivamente da fattori mediatici. Se riesci in modi indefinibili per non dire occulti a strappare una prima pagina su un quotidiano a larga tiratura, allora stai abbastanza avanti nell’impresa per ottenere la rimozione di quello specifico fattore di discriminazione.
Come altri hanno detto, quando assumi uno specifico provvedimento rivolto alla difesa dalle discriminazioni di uno specifico gruppo, devi introdurre a livello giuridico l’eccezione, tanto per esemplificare le quote rosa che discriminano i candidati in base al sesso con la pretesa davvero stravagante di eliminare le discriminazioni. Mettetevi il cuore in pace, non si può eliminare nessuna discriminazione introducendone una tutta nuova per motivi logici che dovrebbero essere ovvi per tutti.
Nel merito quindi, proprio la più potente e comune fonte di discriminazione, quella economica, che dipende interamente da fattori sociali, è stata rimossa dalla politica, e ciò che rimane della sinistra appare completamente monopolizzata a rimuovere ogni sorta di discriminazione, tranne quella che ci aspettavamo contrastasse, quella economica.
Passiamo ora alla questione di metodo.
La questione del linguaggio è centrale nella vita umana se non altro perchè noi siamo confinati in un universo simbolico costituito proprio dal linguaggio. Di conseguenza, ogni operazione che si compie sul linguaggio, rappresenta un’operazione che ci coinvolge nella nostra totalità.
Così, credo che nessuno obietti quando si afferma che parlare in un certo modo significa immediatamente vivere in un certo mondo, il linguaggio stabilisce il tipo di rapporto interpersonale, quella cultura che stabilisce le condizioni della nostra coesistenza sociale. E in verità, sul linguaggio si è sempre svolta una battaglia che non è esagerato considerare fondamentale.
Detto ciò, il tema che mi pare fosse in discussione è quello delle modalità con cui questa battaglia debba essere combattuta.
A parere mio, ma credo di alcuni degli intervenuti, la battaglia deve essere di natura culturale, ognuno di noi usa il linguaggio in un modo più o meno personale sia quando parla che quando scrive e così promuove un certo linguaggio, certi termini piuttosto che altri. Come sempre c’è chi è più convincente, c’è chi lo è meno, c’è chi si può permettere di scrivere a milioni di persone e chi si deve contentare di qualche decina appena, ma ognuno nel proprio minuscolo può dare il proprio contributo.
Ciò che qui veniva contestato da parte di alcuni e anche da parte mia, è che ci sia chi pretenda di assumere il ruolo della verità e della giustizia e quindi, sapendo egli meglio di chiunque altro quale sia il modo corretto di parlare, chieda un intervento legislativo a proprio favore.
Ora, uno può anche non rendersene conto, ma considerare che certe parole non si possano usare, che certe opinioni non possano essere espresse, da luogo automaticamente a una forma di censura.
Credetemi, ogni intervento sul linguaggio è davvero odioso, è la contraddizione più palese a quella che una volta veniva considerata una forma di libertà fondamentale, quella di parola e di stampa. Oggi, un qualsiasi soggetto che si senta discriminato, se riesce a gridare abbastanza fortemente, può almeno tentare di zittire coloro che la pensano diversamente da sè.
La triste e grave novità delle lotte anche fossero per i motivi più nobili, che comunque andrebbero verificati volta per volta, è che si pretende che ci sia un intervento istituzionale che impedisca perfino alla tesi opposta di essere formulata e sostenuta pubblicamente, e ciò in nome del fatto che un gruppo di opinione abbastanza robusto ritenga e imponga a tutti che quella causa è così indegna da non meritare neanche di essere presa in considerazione.
Questo è dispotismo allo stato puro, e questa deriva autoritaria avviene nella completa inconsapevolezza di chi contribuisce fattivamente a perpetuarla, magari convinto di compiere una missione eroica (più spesso temo interessato al prestigio che il seguire la corrente dominante gli conferisce).