di Gianluigi Simonetti

[Una prima versione di questo intervento è uscita sul «Sole24 ore»]

Per costruire il suo nuovo romanzo, Le donne amate, Francesco Pacifico si è servito di una struttura ‘a schedario’: la vicenda di Marcello, quarantenne romano ex poeta, ora redattore per una grande casa editrice del nord, è scandita in cinque parti, ciascuna dedicata un personaggio-chiave: l’amante, la moglie, la cognata, la sorella maggiore e la madre. Figure in carne e ossa, scrutate da Marcello in un racconto in prima persona costantemente tentato dall’identificazione con loro; ma anche declinazioni esemplari di un universo femminile nel quale farsi accogliere. Alle lunghe sequenze narrative consacrate alle sue donne Marcello alterna brevi incisi in cui si interroga sul senso stesso del romanzo. E’ il lato metaletterario del libro (giustificato narrativamente dal fatto che chi racconta i fatti è pur sempre un editor): al ritratto ‘in movimento’ dei cinque personaggi si intreccia un’autocritica sul modo in cui gli scrittori maschi, e questo specifico scrittore maschio che è Marcello, sono abituati parlare delle donne.

«Sarebbe facile parlare di Irene come di una mia salvatrice. Ma una donna che salva è una donna che alla pagina dopo viene punita; il ruolo di salvatrice che noi uomini diamo alle donne in qualunque forma di narrazione è il nostro cavallo di legno per penetrare e distruggere». Come si vede, il tema esplicito e l’architettura stessa di Le donne amate sembrano dipendere dal senso di colpa. Senso di colpa esistenziale del narratore, innanzitutto: spesso brillo, o sedato dagli ansiolitici, sempre insoddisfatto di sé, e impaziente di esprimere la propria infelicità, questo Marcello letteralmente si nutre, anche in senso narrativo, dell’energia, del fascino, delle insicurezze delle donne che lo circondano; debito che estingue attraverso una curiosa e vivace osservazione dal vero. Ma a questo senso di colpa psicologico se ne somma uno culturale, o forse antropologico, legato alla difficoltà a tradurre in scrittura il mistero di un mondo femminile sempre più esuberante e minaccioso: ne deriva un’ideale stilistico ‘androgino’, in perenne smarcamento dagli stereotipi della narrativa maschile. Né manca, sul piano della bassa cucina del racconto, qualche richiamo alla cronaca di questi mesi post-Weinstein: come quando Marcello si chiede se non si sia spinto troppo oltre nel tentativo di riprendersi l’amante («ancora mancavano mesi all’autunno del #metoo e del #quellavoltache, delle denunce pubbliche di misfatti privati simili al mio»). Va quindi registrato un terzo senso di colpa, stavolta morale (sociologicamente interessante): il sentirsi in difetto di chi teme di esercitare un potere abusivo in un’epoca in cui gli equilibri si modificano e le dominate sembrano più forti dei dominatori.

Forte di queste e altre cautele, Le donne amate si presenta come una dichiarazione di rispetto e solidarietà al genere femminile; o almeno così è stato inteso, in queste settimane, da alcuni dei suoi primi lettori, complice anche il fatto che Marcello tende a valorizzare le qualità delle sue interlocutrici presentandosi meno intelligente e brillante di quello che in effetti è. La dimensione dell’omaggio muliebre è però la più esteriore del libro, la più insincera, la meno in fase col suo carattere profondo che invece è romanzesco, e quindi antiromantico. Altro che elogio della grazia («La donna catturata col retino della prosa viene fissata alla carta con uno spillo (…). Il suo volo è stato così leggero che non so come metterlo sotto vetro e conservare quella grazia»): il libro funziona quando Pacifico aggredisce i propri personaggi, inclusi quelli femminili («l’ufficio stampa (…) in preda a una delirante fragilità»). Quando racconta, nelle pause e tra le righe delle storie d’amore, i rapporti con la famiglia, con gli amici, con i colleghi «lavoratori cognitivi» – senza pietà per niente e per nessuno. Funziona quando porta alla luce, scavando nel materiale tutto sommato standard delle vicende sentimentali dei suoi personaggi, lo scheletro dei rapporti di potere: bisogno di riconoscimento, sete di ricchezza, vendette personali e familiari, gelosie incrociate e desideri triangolari. In questo senso Le donne amate è più ricco di strati di quel che potrebbe sembrare a chi si limiti a godere della commedia degli equivoci: la verità è che le azioni dei protagonisti hanno molti moventi, alcuni nobili e altri meno, alcuni dichiarati, altri lasciati intendere all’intelligenza del lettore. Ed è questa, naturalmente, la vecchia arte del romanzo. Nelle fasi in cui resiste ai rimorsi che assediano Marcello, Pacifico mostra di saper far bene quello che molti suoi coetanei non sanno o forse non vogliono più fare: raccontare le classi sociali attraverso personaggi esattamente individuati; esprimere un ambiente e un ceto adoperando strumenti linguistici e non solo sociologici (un’eccezione è naturalmente Alessandro Piperno, cui Pacifico per molti versi somiglia, e a cui anzi in un certo senso vuole somigliare: come dimostrano certe metafore in comune – «il piano regolatore dei ricordi» – o un certo modo calmo e sentenzioso di organizzare la sintassi).

Come per Piperno, anche per Pacifico è del resto decisivo il rapporto ambivalente, di fusione e odio, verso la propria classe: nel libro, la classe della madre, che però è anche la classe dei carnefici, dei manipolatori, dei filistei. Ecco perché, tra i tanti che abbiamo identificato, il senso di colpa più profondo e vero, quello più produttivo dal punto di visto romanzesco, è nelle Donne amate il senso di colpa sociale. Il delitto di non essere povero, che scalfisce l’autore e non solo il personaggio, e lo porta a scagliarsi contro il proprio ceto non solo attaccandolo frontalmente ma anche, e soprattutto, mostrandone gli aspetti più arresi e disarmati, più onesti e quindi inesorabili («Nei momenti peggiori mi dice: “non valiamo niente”»).

E allora non è un caso se la figura più riuscita e memorabile, nell’intrico delle donne amate, è quella tutto sommato secondaria di un uomo che non muove a forti sentimenti: il padre borghese di Marcello. «Capitalista ma anti-corporate», finanzia giovani startupper per poi ritirarsi quando arrivano capitali stranieri («incassa il doppio o il triplo di quanto ha scommesso e lascia i ragazzi in mano a gente con più denaro di lui »). Scrive su un file tutti i soldi che presta ai figli, ma gestisce il denaro come se non gli appartenesse («forse per questo lo tratta come se nemmeno a noi appartenesse o apparterrà mai del tutto»). Non ha bisogno di impartire ordini, però ogni sua affermazione «diventava un fatto»; come quando Marcello è lasciato sull’altare dalla sua promessa sposa: «Non vederla più. Il vulnus creato in questa circostanza non può essere rimarginato».

 

[Immagine: Mr Klevra, Murale al Pigneto, Rom]

 

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